mercoledì 9 dicembre 2015

Tradurre tradire


Tanto sterminata è la critica sull’opera dickiana tanto è povera (esiste?) quella sulle traduzioni italiane della stessa. Eppure dovrebbe essere la prima preoccupazione per quell’enorme massa di lettori, sottoscritto compreso, che non conoscendo o conoscendo male la lingua inglese sono costretti ad accontentarsi delle varie traduzioni che si sono succedute nel tempo, dalle collane seriali di Galassia e Urania alle ultime , circonfuse di aura accademica, edite da Fanucci. E allora accingiamoci, col dizionario posto tra il testo originale e le diverse traduzioni, a spulciare, rovistare, annusare l’equivoco, la frode e perché no, l’errore fecondo; cioè quell’errore capace di aprire a nuovi scenari, nuove riflessioni e problematizzazioni. Non sarà questo un lavoro sistematico non ne ho le competenze, posso solo tentare un piccolo approccio provocatorio. Una provocazione spero non fine a se stessa ma che appunto cerchi di provocare qualcosa, di andare oltre, che spinga avanti il nostro sguardo; un punto di vista diverso dal solito. Do Android Dream of Electric Sheep? (1966) è stato tradotto per la prima volta da Maria Teresa Guasti nelle edizioni Galassia prima, Nord  poi, con il titolo Il cacciatore di androidi. Riccardo Duranti l’ha ritradotta per Fanucci e il titolo bilica tutt’oggi tra il Ma gli androidi sognano le pecore elettriche? e il più accattivante per il grande pubblico Blade Runner. Debbo alla traduzione di Maria Teresa Guasti l’intuizione che in questo romanzo, nonostante le apparenze, non si parli affatto di androidi. La scena clou  in cui si descrive nei particolari la soppressione fisica di un Nexus-6 è così resa nella traduzione: “Sparò. Il grande corpo dell’androide si spezzò, crollando in una pioggia di parti separate. Frammenti di metallo e componenti più fragili rimbalzarono sul tavolo di cucina, rovesciando a terra piatti e stoviglie. I circuiti all’interno del corpo fecero sussultare e vibrare ancora braccia e gambe, ma ormai l’androide era morto.” L’originale invece recita: “He shot Roy Baty; the big man’s corpse lashed about, toppled like an over-stacked collection of separate, brittle entities; it smashed into the kitchen table and carried dishes and flatware down with it. Reflex circuits  in the corpse made it twitch and flutter, but it had died”, così come è stato correttamente reso nella successiva traduzione: “Rick sparò anche a Roy Baty; la grossa carcassa dell’uomo si gettò di scatto in avanti, poi crollò a terra come una pila troppo alta di tanti oggetti fragili e separati. Andò a sbattere contro il tavolo di cucina e si trascinò dietro piatti e stoviglie. I circuiti dei riflessi lo fecero fibrillare e contorcersi per un po’, ma ormai era morto.” Ecco l’esempio di come una traduzione falsata possa metterci sull’avviso di qualcosa che non va come dovrebbe. È evidente che l’artificialità di questi esseri è troppo esigua se si deve basare solamente su una carenza di empatia. Da qui il bisogno di un sovrappiù, qualcosa che li qualifichi come affatto diversi, appunto artificiali. Ed ecco l’esigenza di aggiungere parti metalliche al loro interno.   Un altro particolare che di per sé potrebbe sembrare insignificante ma che per me ha il sapore di un tradimento è la trasmutazione del Kipple in palta. La prima traduzione mantiene il termine inglese Kipple e in una nota lo descrive come “desolazione, disordine, squallore, decadimento: tutto insieme.” Certo che si può tradurre in palta ma questo richiama  più all’immondizia, a qualcosa di sporco, all’accumulazione di rifiuti, mentre il Kipple dickiano ha più a che fare con l’entropia, con il decadimento naturale delle cose; non ha una connotazione morale come invece il termine palta. L’entropia non è dovuta al nostro semplice produrre rifiuti, è nell’ordine delle cose così come il nostro opporci ad essa. Non per un imperativo morale ma per un imperativo vitale. Sfumature? Probabile, me ne si permetta però un’altra ancora: il cacciatore Rick dice al falso agente Crams: “_ Mi confessi che è un androide. _ Perché? Io non sono un androide. Ma lei cosa fa? Va in giro ammazzando la gente, dicendo a se stesso che sono androidi?”  Nella nuova traduzione il “dicendo a se stessi che…” diventa “dicendo loro che…”; il testo originale da ragione alla prima versione: “_ Admit to me that you’re an android. _ Why? I’m not an android. What do you do, roam around killing people and telling yourself they’re androids?”. In questo processo di deumanizzazione dell’altro chi si vuole convincere? Se stessi o l’altro? Chi è il vero obiettivo? Nei campi di sterminio nazisti agli internati veniva proibito di sollevare lo guardo, di guardare negli occhi i loro aguzzini. Era fondamentale per il carnefice convincersi della non umanità delle vittime, altrimenti come avrebbero potuto, rientrando a casa dopo il lavoro accarezzare i propri figli con tenerezza e amore? Ed eccoci ora a un altro pezzo forte The Three Stigmata of Palmer Eldritch (1964) che mantiene inalterato il titolo in Le tre stimmate di Palmer Eldritch sia nella vecchia traduzione Nord di Ugo Malaguti che nella nuova di Fanucci di Umberto Rossi. Ciò che colpisce subito nella comparazione tra la nuova traduzione e il testo originale è la sostituzione della parola dono con quella di pharmakon. Palmer Eldritch dice a Barney Mayerson: “Eccoti la mia cura, e ricorda; in greco pharmakon vuol dire anche veleno.” Nell’originale: “That’s my gift to you, and remember: in German gift means poison.” 1In tedesco gift significa veleno, all’opposto della medesima parola inglese che significa dono. Senza voler qui scomodare tutto il discorso antropologico al riguardo e senza insistere troppo sulla nota importanza della lingua tedesca per Dick, non possiamo non vedere come questa modifica di fatto altera un elemento importante del romanzo; Palmer Eldritch non offre una cura che va bene solo se presa in piccole dosi, come appunto un farmaco, fa invece un regalo, un dono che in quanto tale è comunque un veleno. E occorre qui ricordare che il binomio dono veleno attraversa tutta l’opera di Dick. Cosa sono gli autofac (fabbriche che producono incessantemente prodotti di consumo o copie di tali prodotti, gratuitamente) se non un regalo avvelenato per l’umanità? E non è un veleno per la puritana società americana tutto ciò che viene regalato senza che sia stato guadagnato col duro lavoro? In un classico dei fumetti, quel Lil Abner citato anche da Dick stesso in un’altra sua opera,2  compaiono dei terribili personaggi, gli Shmoos che fanno qualsiasi cosa per l’umanità, sono capaci di produrre qualsiasi bene l’umanità desideri, e gratuitamente; e perciò costituiscono per la stessa una minaccia assoluta.3 C’è un’ultima piccola cosa significativa da segnalare in questa traduzione: l’active immagination, l’immaginazione attiva che varia da individuo a individuo nel sottoporsi all’uso della sostanza stupefacente Can-D viene resa con immaginazione vivace. Una variazione che non tiene conto di quella tipica terminologia del pensiero di Carl G. Jung; pensiero che ha avuto un gran peso nell’opera, oltre che nella vita, di Dick. Proseguendo il nostro rapido excursus approdiamo a un altro testo, Galactic Pot-Healer (1967) Giù nella cattedrale nella prima traduzione di Pietro Anselmi per Bompiani e poi Guaritore galattico in quella di Fanucci tradotta dal responsabile stesso della collana Carlo Pagetti. Qui vorrei segnalare la scelta di modificare i titoli di alcuni romanzi o film, implicati in giochi linguistici all’interno del romanzo, in altri titoli e di conseguenza in altri indovinelli. Operazione del tutto lecita che però sarebbe stata più corretta se in una nota si fossero riportati quelli originali.4 Vorrei segnalare anche, a titolo precauzionale per chi la trovasse in una bancarella e fosse tentato di comprarla, l’esistenza di una traduzione di Ubik alquanto originale (molto originale!) pubblicata da Fanucci nel 1989 nella collana “Il libro d’oro della fantascienza” tradotta da Domenico Cammarota con la revisione di Gianni Pilo. E per finire, sperando che qualcun altro ben più preparato del sottoscritto riprenda il discorso, un’avvertenza per uno dei primi romanzi di Dick: Eye in the Sky (1955), L’occhio nel cielo; chiunque pensasse sufficiente averlo letto nella vecchia traduzione di Urania sappia che, indipendentemente dal livello della traduzione, ha letto all’incirca solo il 60% del romanzo. La nuova edizione Fanucci, tradotta da Maurizio Nati ci propone un’opera affatto nuova. Interessante anche qui sarebbe vedere come sono stati operati i tagli e cercare di capirne la logica. Quanto lavoro e quanta materia di studio; e chissà… forse prima o poi si potrebbe anche arrivare a fare un po’ di chiarezza su quell’eterna querelle della qualità della scrittura di Philip K. Dick.

  1. “E questo è il mio regalo. Regalo si dice  cadeau, in francese, ma in inglese si dice gift. E ricordi: in tedesco, gift significa veleno.” Nella traduzione di Malaguti.
  2. The trasmigration of Timothy Archer, La trasmigrazione di Timothy Archer (1981)
  3. Nel racconto del 1956 Pay for the printer, Diffidate delle imitazioni, compaiono i Biltong, alieni sbarcati sulla Terra postatomica, che aiutano i sopravvissuti grazie alla loro capacità di riprodurre qualunque cosa che ancora esista e sia funzionante.
  4. A titolo esplicativo riporto il primo indovinello nella traduzione di Anselmi e di seguito la scelta operata da Pagetti:                                                                                                                                                                                           1) Gauk lesse dal foglietto. “L’intelaiatura a traliccio Arma-da-fuoco Insetto che punge.” “Insetto-che-piange?” domandò Joe. “No! Insetto-che-punge.” “Intelaiatura a traliccio,” rifletté Joe. “Reticolato… insetto che punge… Vespa?” Si grattò con la penna perplesso. “E l’hai preso dal computer di traduzione di Kobe? Ape.” Decise. “Arma da fuoco… allora Cannone-ape. Laser-ape. Heater-ape. Rod-ape. Gat.” Scrisse la parola velocemente. “Gat-vespa, gat-ape. Gat-by… Intelaiatura a traliccio. Dovrebbe trattarsi di un’inferiata… Grata!” Ora aveva la frase. “Il grande Gatsby, di Francis Scott Fitzerald.” Lasciò cadere la penna trionfante.” (N.d.T.): Heater-Rod-Gat significa Pistola. Ape=Bee, e si pronuncia bi. Quindi Gat+bee corrisponde alla pronuncia di Gatsby. Grata=grate si pronuncia greit allo stesso modo di great che significa grande. Il gioco di parole è comunque intraducibile in italiano.                                                                                                                          2) Gauk lesse ciò che aveva scritto sul foglio. “Avvenenti in congiunzione con originari di scaturiti.” “Originali?” chiese Joe. “No, originari.” “Originari di scaturiti” disse Joe, pensoso. “In congiunzione con. Avvenimenti. Carine?” scarabocchiò con il suo mozzicone di penna. “E questo te l’ha dato il computer di Kobe? Belle? Belli” ragionò. “In congiunzione con. Insieme a.E.” Prese in fretta un appunto. “Sgorgati. Usciti. Derivati. Nati. Originari di nati. Da nati.” Allora capì. “Dannati. Belli e dannati, di F. Scott Fitzerald.” Gettò la penna sulla scrivania, trionfante.

lunedì 7 dicembre 2015

Biltong


Nel racconto DIFFIDATE DELLE IMITAZIONI (1956) gli umani sopravvissuti al disastro atomico hanno perso completamente le capacità e i saperi della civiltà moderna. Ora sopravvivono grazie a degli esseri extraterrestri, i Biltong, provenienti dal sistema del Centauro, che “attratti dai bagliori delle bombe H, (…) avevano trovato gli avanzi della razza umana che strisciavano pietosamente in mezzo alla cenere radioattiva, cercando di salvare quanto potevano della loro civiltà distrutta.” I biltong, essendo in grado di riprodurre qualunque cosa di cui si possedesse ancora un originale, avevano rappresentato per alcune centinaia di anni l’unica possibilità di sopravvivenza per la razza umana. Ora però, invecchiati, erano diventati sterili e non più in grado di svolgere la loro funzione. Qualcosa di molto simile lo troviamo anche in LABIRINTO DI MORTE (1968), la Tinca è un organismo capace di ristampare: “_Alcuni, quelli più deboli, non fanno nulla. Stanno adagiati qua e là in certe zone, non si muovono. Quelli meno deboli, invece, ristampano._ _Ristampano?_ _Duplicano le cose che gli portiamo. Cose piccole, tipo orologi da polso, tazzine, rasoi elettrici.”.

giovedì 3 dicembre 2015

Destino



“Abolire il tempo, tutte le tecniche delle varie religioni misteriche che si sono succedute nel tempo, dai misteri eleusini ai Rosacroce, avevano questo scopo. E non essere più soggetti al tempo voleva dire per l’iniziato liberarsi dal determinismo astrale, che equivale più o meno al fato” VALIS (1978). Anche per la religione cristiana in principio era stato così: “il cristianesimo, come religione misterica, era sorto come mezzo per abolire la tirannide del fato, e poi lo aveva reintrodotto sotto forma di predestinazione; anzi, di doppia predestinazione: qualcuno è predestinato all’inferno, qualcun altro al paradiso. La dottrina di Calvino.” LA TRASMIGRAZIONE DI TIMOTHY ARCHER (1981). Liberarsi dal fato, e se questo non è possibile allora prepararsi al modo migliore per non esserne completamente dominati. “Non posso controllare il fato, ma posso controllare le mie reazioni nel fronteggiarlo.” LA CONQUISTA DI GANIMEDE (1964-6). Anche un alieno, un gasteropode multipede, può dare un buon consiglio al terrestre Joe Fernwright in GUARITORE GALATTICO (1967): “Sii creativo. Lavora contro il fato. Prova.” E questo è anche il consiglio che l’I Ching sembrano dare in LA SVASTICA SUL SOLE (1961): “Il muro cade nel fossato. Adesso non adoperare eserciti. Annuncia i tuoi comandi nella tua città. La perseveranza porta umiliazione. (…) Lavorare, cercare a modo mio fino alla fine, vivere meglio che posso, e più attivamente che posso, finché il muro non cadrà nel fossato per tutti noi, per tutto il genere umano. È questo che mi sta dicendo l’oracolo. Prima o poi il destino ci colpirà comunque, ma intanto ho il mio lavoro; devo usare la mia mente, le mie mani.”

martedì 24 novembre 2015

Denaro


“Molte cose nella vita possono trovare una spiegazione. Ma… Joe Chip su una moneta da cinquanta centesimi? Era il primo denaro Joe Chip che avesse mai visto. Ebbe allora la raggelante intuizione che, se avesse cercato nelle altre tasche, e fra le banconote nel portafogli, ne avrebbe trovato dell’altro. Questo era soltanto l’inizio.” UBIK  (1966), un inizio che apre al successivo romanzo GUARITORE GALATTICO (1967) con un altro Joe per protagonista, Joe Fernwright che sogna  (insieme al resto della popolazione terrestre che si accinge a dormire in quel momento) di essere il  vincitore di un concorso promosso dalla zecca di stato, in cui presterà il proprio volto per l’effige delle nuove banconote che verranno messe in circolazione al posto delle vecchie ormai svalutate. Ma se questo è solo un sogno e per di più coatto e di massa in compenso, al risveglio, Joe riceverà un incarico per un lavoro su un altro pianeta  che gli dovrebbe fruttare la somma di trentacinquemila briciole, l’equivalente di 200.000.000.000.000.000.000.000.000.000.0000.000.000 dollari. Ma si rivelerà solo un’esca per una missione impossibile su un remoto pianeta della galassia. E ancora Joe passerà seri guai con la polizia per aver voluto regalare a degli sconosciuti il proprio denaro. Infine l’amara considerazione di Dick sul significato del denaro la possiamo leggere nell’ultimo dei suoi racconti STRANI RICORDI DI MORTE (1980) “Quello che mi ha dato fastidio è sapere che l’unica cosa che mi rende diverso dalla signora del Lyosol, che è pazza, sono i soldi del mio conto corrente. Il denaro è il certificato ufficiale della sanità mentale.”

martedì 17 novembre 2015

Corpo



Il corpo per l’uomo è la casa che abita “Dio sta facendo a pezzi questa casa che è il mio corpo per farmi pagare quello che ho fatto” nel racconto SPERO DI ARRIVARE PRESTO (1980). Ma forse questo vale per l’uomo in quanto maschio: “-Il tuo corpo, per te, è quello che la casa è per una donna- disse Maggi Walsh. –Lo conosci come se fosse un ambiente, invece che…- -L’ambiente somatico è uno dei più genuini ambienti in cui viviamo,- rispose acidamente Babble. –È il nostro primo ambiente quando siamo bambini, e poi, quando decadiamo nella vecchiaia e il Distruttore Formale corrode la nostra vitalità e la nostra forma, scopriamo di nuovo che ci importa ben poco di quel che succede nel cosiddetto mondo esterno, se la nostra essenza somatica è in pericolo.” LABIRINTO DI MORTE (1968). Corpo che si abita, si possiede, entro cui ci si ripara e ci si difende; tana in cui evitare il contatto con gli altri. “Come riuscivano due persone, a sopportare di stare così vicino? Per Manfred era come se le loro separate identità si fossero fuse, e l’idea che potesse esistere una tale confusione lo terrorizzò.” NOI MARZIANI (1962). E forse allora “ci vuole il pericolo, un pericolo di morte, perché gli uomini si tocchino (…) Ma quando si decidono a farlo ne traggono un grande conforto. Non c’è niente di più bello.” LA CONQUISTA DI GANIMEDE (1964-66). C’è da perdersi a voler seguire, per dirla con Michel Foucault, tutti gli avvenimenti che si inscrivono in quel grande corpo espanso che costituisce l’opera di Philip K. Dick. È corpo che soffre e che lotta contro l’entropia quello che tenta con fatica indicibile di salire delle scale in UBIK (1966) e ancora soffre e viene ferito mentre scala una montagna dopo essersi fuso empaticamente con altri corpi in MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? (1966). Ma soprattutto è corpo che sta al confine, nella soglia tra vita e morte. Pensando a IN SENSO INVERSO (1965) concludiamo con il Foucault di Nascita della clinica, con una citazione che meriterebbe essere messa ad esergo dell’intera opera dickiana: “Vedere nella vita la morte, nel suo mutamento l’immobilità, dietro il suo sorriso lo spazio scheletrico e fisso, e, al termine del suo tempo, l’inizio di un tempo rovesciato che pullula di innumeri vite”. 

martedì 10 novembre 2015

Crisi


In DIVINA INVASIONE (1980) il male si presenta come “la cessazione della realtà, la cessazione dell’esistenza stessa.” È un processo che “è iniziato con la caduta originale. Una parte del cosmo è caduta. La divinità stessa ha subito una crisi. (…) una crisi nel terreno dell’essere? (…) Nessuna creatura può immaginare il non-essere, soprattutto il proprio non-essere.” Ma la crisi non è soltanto quella sul terreno dell’essere ma anche quella tra uomo e mondo “gli uomini e il mondo sono mutuamente tossici” e a questo può porre rimedio solo Dio, quel dio che “si mimetizza con l’universo, con la regione stessa che ha invaso: assume la parvenza di bastoni e alberi e lattine di birra ai margini della strada; finge di essere spazzatura gettata via, rottami di cui nessuno si cura. Appostato il vero Dio tende letteralmente degli agguati alla realtà e a noi stessi. Dio, in verità, ci attacca e ci ferisce, nel suo ruolo di antidoto.” VALIS (1978).

martedì 3 novembre 2015

Colpa


Se ci è data oltre la vita anche il dover morire allora qualche colpa dovremmo pure avercela. In GUARITORE GALATTICO (1967) “la morte e la colpa sono collegate”, “la consapevolezza della colpa lo avvolse come un mantello di raso dorato. Una vergogna talmente pura da possedere un che di archetipico, come se Joe stesse rivivendo la vergogna primordiale di Adamo, il primo senso di evidenza sotto lo sguardo di Dio”. In modo più o meno esplicito il senso di colpa attraversa l’intero corpus dell’opera dickiana tanto che paradossalmente è spesso impossibile isolarlo in momenti specifici. Morte, suicidio, peccato, fallimento, masochismo, tutte voci che esprimono questa fatale sensazione di qualcosa di sbagliato che è stato fatto, da noi o da altri, poco importa. Una eredità di cui l’essere umano non potrà mai sbarazzarsi una volta per tutte. Una forte ipoteca al desiderio assillante di libertà. Nel racconto SPERO DI ARRIVARE PRESTO (1980) un astronauta costretto a viaggiare nello spazio in solitudine per dieci anni senza poter stare in sospensione criogenica, per non impazzire viene aiutato dal solito computer dell’astronave che lo fa stare in una specie di stato ipnotico in cui rivivere creativamente i propri ricordi. Ma ogni sogno indotto viene rovinato da un qualche senso di colpa pronto a saltar fuori dall’inconscio profondo. Ogni occasione è buona perché il ricordo di una qualunque azione di cui non essere proprio orgogliosi, e come non avercene, si trasformi nella lacerante sensazione del rimorso.

venerdì 30 ottobre 2015

Antonello Silverini: In senso inverso


Il tempo della vita, la clessidra che si trasforma in cerchio. Dal lineare al circolare. Potrebbe dare un senso di pace, colmare l’ansia della linea retta che tende all’infinito, una traiettoria circolare che ritorna sempre a sé. Invece l’inquietudine permane. Questa figura femminile che ritorna bambina a giocare con il suo cerchio, quel millenario gioco diffuso nell’antica Grecia soprattutto tra le donne, non irradia pacificazione, equilibrio; permane una sorta di instabilità acuita da quello sfondo verdastro che domina sul tutto. Ed è proprio il cerchio della bambina infine ad alludere a un processo temporale che non può, comunque lo si veda, chiudersi su se stesso; l’ombra del cerchio riconfigura di nuovo il simbolo dell’infinito, dell’incessante divenire. Una bellissima interpretazione del mondo dickiano, che per quanto possa sembrare claustrofobico rimane ostinatamente aperto all’accadere, al possibile e quindi alla libertà.

Con questa 32^ puntata si conclude la panoramica delle copertine dickiane di Antonello Silverini. Quelle più propriamente fantascientifiche. E' stato un percorso emozionante e desidero ringraziare qui Antonello per il suo apprezzamento sincero e caldo.
Per vedere tutte le puntate vai all'etichetta Antonello Silverini in fondo. Per una singola copertina alla pagina Indice.

martedì 27 ottobre 2015

Cibo



“Una moltitudine di organismi senzienti di oltre quaranta specie riempiva la sala riunioni. Joe si rese conto con raccapriccio che sulla Terra si era cibato di alcuni di essi.” GUARITORE GALATTICO (1967). 

venerdì 23 ottobre 2015

Antonello Silverini: Svegliatevi dormienti


Ops! Scusate, mi sono distratto un attimo; mi sembrava di aver visto passeggiare un sinantropo nella via qui accanto. Stavo dicendo: -I want you!-  Si proprio tu, che stai dormendo. Tu puoi svegliarti e arruolarti tra i coloni del nuovo mondo. Questo manifesto in cui un redivivo zio Sam, colorato, abbronzato potrebbe dire qualche imbecille, non può che essere ripreso in movimento, con la testa che sta girando verso di noi e la mano che ci indica, ci addita, è un messaggio semplice. Proclama un tipo di patriottismo che si vorrebbe nuovo ma che inevitabilmente allude alla solita vecchia frontiera, territorio vergine, terra di libertà per tutti e soprattutto per chi si dimostra più capace. Immagine spiazzante, poco accattivante, sdrucciola come un messaggio pubblicitario che vorrebbe comunicare qualcosa in cui sembra non credere. Da un microfono all’altro, per intercettare bisogni e necessità diverse, il sogno americano scolora, l’utopia del benessere per tutti perde di consistenza e credibilità, come la bandiera a stelle e strisce che fa da sfondo. 

martedì 20 ottobre 2015

Compassione


È forse la compassione la cosa più ambita dall’essere umano? In LA TRASMIGRAZIONE DI TIMOTHY ARCHER (1981) il vescovo Timothy Archer si rincarna nel giovane schizofrenico Bill. Il vescovo, racconta Bill “cercava la sapienza. La sacra sapienza di Dio, la Hàgia Sophìa, come la chiama lui. La ritiene identica all’anokhi, la pura autocoscienza di Dio. Poi quando è arrivato là e la Presenza è entrata in lui, si è reso conto che non voleva sapienza, ma compassione. Aveva già la sapienza, ma non era stata di alcun aiuto né a lui né a nessun altro.” Solo la compassione può evitare all’uomo la visione della realtà, la realtà della creazione “un’illusione orrenda da disprezzare” DIVINA INVASIONE (1980). Strana cosa la compassione in Dick, sembra quasi possa provenire solo da esseri non umani. I vari Palmer Eldritch duplicati nei corpi di uomini e donne provano compassione per Barney mayerson, il protagonista di LE TRE STIMMATE DI PALMER ELDRITCH (1964) nonostante lo vedessero come un fantasma “non veste più un corpo terreno, corruttibile… ha indossato un corpo celeste. Le piace Mayerson? –Il tono era ironico, ma sui loro volti si vedeva la compassione; si vedeva in quegli occhi meccanici, che non erano altro che fessure.” E in MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? (1966) l’unico a provare un senso di vera compassione per il cervello di gallina Isidore è proprio un androide “Pris, non chiamarlo così- la rimproverò Irmgard; lanciò a Isidore un’occhiata piena di compassione. –Pensa a come potrebbe chiamare te.-“

venerdì 16 ottobre 2015

Antonello Silverini: E Jones creò il mondo


Se c’è una cosa rispetto alla quale uno strumento come una chiave inglese non può essere utile è un oggetto a forma di sfera. Come afferrarlo, come stringerlo? Scivola via comunque, inesorabilmente. L’omino coi baffetti che faceva ridere tutti, fino a che un altro omino altrettanto piccolo e con gli stessi baffetti ha smesso di far ridere il mondo, presta qui, in questa copertina, la propria immagine per rappresentarci il dilemma, il dilemma forse insolubile dell’umanità. Come afferrare il reale, il mondo nella sua totalità, verità ultima, metafisica, insieme con la sua apparenza fenomenica, concretezza dell’esistere, avendo a disposizione solo lo strumento della logica, del conoscere razionale, certo? L’omino buffo, più indispettito che perplesso, sembra armato delle più serie intenzioni. Indossa anche un casco da minatore, a segnalare la sua disponibilità a scendere verso le profondità più estreme del sapere. Ma quel mondo, tenuto su più per quel pezzettino di nastro adesivo trasparente che per il dito esitante dell’omino, insieme a quell’arnese piantato in un inesistente terreno, privo di solidità alcuna, stanno a indicare lo scacco a cui l’umanità è condannata. Quell’inutile ricerca di una qualsivoglia fondata certezza che non sia quella dell’umile e precaria pratica dell’esistere quotidiano. 

martedì 13 ottobre 2015

Certezza


Un mondo di certezze è un mondo rigido, paranoico “per un maniaco, così come per un Para (paranoico), dubitare di se stessi era inconcepibile; la loro intera struttura emozionale si basava su un senso di certezza.” FOLLIA PER 7 CLAN (1963-4). La certezza è anche legata all’idea di verità e in tal senso è l’aspirazione massima di tutte le fedi religiose, nel romanzo IN SENSO INVERSO (1965) se le cose fossero andate nel verso giusto, cioè se si fosse riusciti a salvare l’Anarca Peak “il profeta nero che sembra in grado di anticipare la seconda venuta di Cristo”1 “si sarebbe posta una base del tutto nuova per il credo religioso. La certezza avrebbe rimpiazzato la mera fede, e si sarebbe formato un corpus completamente nuovo di scritture.” La certezza infine è cosa per uomini straordinari, superiori come il Jones di E JONES CREO’ IL MONDO (1954), per lui “non c’era da indovinare, non esisteva l’errore e la conoscenza fallace. Lui sapeva; con certezza assoluta.”

  1. Carlo Pagetti, introduzione, In senso inverso, Fanucci editore, Roma

venerdì 9 ottobre 2015

Antonello Silverini: Scorrete lacrime, disse il poliziotto


Si sa, il successo è una droga. In una prima e più facile lettura di questa copertina, la condanna, denuncia di un mondo eticamente discutibile è la cosa che si coglie più facilmente. Ma insomma, è un po’ troppo semplicistico. Avviciniamoci con un po’ di circospezione in più, osserviamo questo omino alla Baj che con un arto meccanico manovra una siringa che può iniettare (lacrime?) ma anche incidere (la voce che si amplifica col microfono?) in una sorta di occhio/disco. Non più il taglio del Bunuel surrealista; la visione della nuova modernità, post o post-post che dir si voglia, non cerca più in profondità, non taglia per cercare quel che c’è dietro, ma più prosaicamente incide la sola superficie. Registra, archivia sofferenze, miserie, paure, in definitiva i rumori della vita. L’essenza della vita di oggi e di sempre. 

Venerdì 16 ottobre: E Jones creò il mondo

martedì 6 ottobre 2015

Caso


“Sono due secoli che la nostra società si basa sui rapporti statistici. Abbiamo banche dati immense. Le macchine sono in grado di prevedere ciò che una singola persona o un singolo gruppo faranno in un dato momento e in una data situazione. Ma quest’uomo è al di là di tutte le previsioni. È una variabile. È opposto alla scienza.- -La particella indeterminata.- -Cos’è?- La particella che si muove in modo tale che da non poter prevedere la posizione che occuperà in un dato secondo. A caso. La particella che si muove a caso.- -Proprio così… È innaturale.- Sherikov fece una risata sarcastica. –Non si preoccupi, commissario. Verrà catturato e ogni cosa tornerà al suo stato naturale. Lei riuscirà nuovamente a fare previsioni sul conto degli uomini, come fossero cavie da laboratorio dentro un labirinto.-“ L’UOMO VARIABILE racconto (1953). Il caso, l’imprevedibile è l’antidoto al mondo regolato dell’algoritmo. In LOTTERIA SPAZIALE (1953) e GIOCATORI DI TITANO (1963) sequenze casuali contrastano efficacemente la forza della telepatia. Il caso, ancora, costringe a scegliere; se siamo sotto l’effetto di una droga potente come il KR-3 “trilioni di possibilità diventano improvvisamente reali. Entra in gioco il caso, e il sistema percettivo della persona sceglie una possibilità fra tutte quelle che gli si presentano. Deve scegliere, perché se non lo facesse, gli universi alternativi si sovrapporrebbero e svanirebbe il concetto stesso di spazio.” SCORRETE LACRIME, DISSE IL POLIZIOTTO (1970).

venerdì 2 ottobre 2015

Antonello Silverini: Tempo fuori di sesto


Il tempo corre inesorabile. Come un autobus di linea imbarca passeggeri. Ma, stranamente, invece di vederli svanire man mano lungo il percorso del suo tragitto, è lui a svanire progressivamente. Il tempo tende a scomparire lasciando i suoi abitanti orfani, immobili in una sorta di ‘istantanea’ di un presente che, se pur congelato, tende a dilatarsi all’inverosimile. È un inganno che siano le cose a svanire col tempo. La fragilità del reale è pura apparenza; questo persiste nella sua essenza imperscrutabile. È il tempo che collassando lascia intorno a noi un deserto che sembra voler nascondere le cose, mentre invece le rende semplicemente irriconoscibili, spaesate, come appartenessero a un tempo fuori di sesto. 

martedì 29 settembre 2015

Caritas

Caritas è una parola chiave che Dick coniuga con amore, amicizia, preoccupazione, cura, empatia. Nessuno ne è completamente privo, neanche gli alieni, come quelle “creature marziane a otto gambe, così piene di carità all’interno dei loro corpi bitorzoluti, di quelli organismi cefalopodi univalvi simili a molluschi” I GIORNI DI PERKY PAT racconto (1963), o come nei ganimediani, tra cui spicca quel Lord Running Clam che “è veramente un buon amico; ha aiutato tante persone. Gli abitanti di Ganimede possiedono quella che San paolo chiamava caritas… e Paolo diceva che la caritas è la più grande delle virtù.– Poi aggiunse: -L’equivalente moderno sarebbe ‘empatia’ suppongo.–“ FOLLIA PER 7 CLAN (1963-4). I personaggi dickiani si interrogano continuamente sul significato della parola caritas, persino in un mondo in cui la religione ufficiale è il buddismo zen “Prendiamo la parola caritas- stava dicendo Crofts. -Secondo lei, cosa significa esattamente, nel senso in cui la usa San Girolamo? Carità? Non direi. E allora cosa? Amicizia? Amore?” I SEGUACI DI MERCER racconto (1964). E ancora si chiede: “Lo sai da dove viene, secondo alcuni studiosi, la parola inglese ‘care’, ‘avere cura’, ‘curarsi di’?– (…) –No– (…) – Viene dalla parola latina ‘caritas’. Che significa amore e considerazione.- -Bene—San Gerolamo- Lars disse –La impiegò come traduzione dal greco ‘agape’ che ha un significato ancora più forte.- Lilo bevve il suo caffè in silenzio. – Agape- disse Lars (…) –significarispetto profondo per la vita; qualcosa di quella portata. Non c’è alcun termine corrispondente nella nostra lingua. Tuttavia, ne conserviamo l’espressività.-“ MR. LARS SOGNATORE D’ARMI (1964). Ma l’intuizione più significativa in Dick sta nell’associare la caritas con la capacità di trascendere: “Allora com’è potuto nascere il Cristianesimo?- chiese Joe. –E’ nato perché Cristo fece una cosa: si preoccupò degli altri. Preoccupazione è la vera traduzione del greco ‘agàpe’ e del latino ‘caritas’. Cristo si presenta a mani nude, non può salvare nessuno, nemmeno se stesso. Tuttavia con la sua considerazione, la sua preoccupazione per gli altri, Cristo trascende…” GUARITORE GALATTICO (1967) La caritas non salva ma permette di trascendere, di andare oltre, ancora una volta. Vero e proprio ethos del trascendimento.   

giovedì 24 settembre 2015

Antonello Silverini: La conquista di Ganimede


Figura ambigua: una lumaca gigante copre la testa di una giovane donna, ma si può leggere anche come giovane donna con avveniristici occhiali stereoscopici  e una folta chioma di capelli spiralica. Questa ibridazione fantascientifico-barocca col rinascimentale “ritratto femminile” del Pollaiolo1 sembra alludere a quella “carica creativa dei due scrittori (o dello scrittore Dick) che sembra talvolta torcersi su se stessa _ come appunto si trattasse metaforicamente del corpo di un verme “ (Pagetti). Creatività espansa, multiforme o vermiforme, comunque ibridazione come essenza del lento e tenace lavorio dell’immaginazione. Copertina più propriamente fantascientifica di altre ma anche, per usare un aggettivo molto caro a Pagetti, con un carattere squisitamente parodistico rivolto agli stilemi del genere stesso.

martedì 22 settembre 2015

Rischio


Il rischio è la caratteristica prima della vita. Ed è una donna, Annette Golding, che nel romanzo FOLLIA PER SETTE CLAN (1963-4) rappresenta il clan degli schizofrenici polimorfi ad affermare che “non esiste una difesa perfetta. Che non esiste protezione. Essere vivi significa essere esposti; è nella natura della vita correre dei rischi. E’ l’essenza del vivere.” Proteggersi dal rischio vuol dire non vivere. E’ quello che un personaggio di NOSTRI AMICI DI FROLIX 8 (1968-69), Zeta, seguace di un movimento politico perseguitato, chiede all’amico Nick, timoroso di prendere un opuscolo di propaganda sovversiva: “Ma come fai ad essere vivo se vivi così?” (…) Si deve correre il rischio. La vita stessa è un rischio. Ti chiedi: - Ne vale la pena? – e tu rispondi: - Sì, perdio, ne vale la pena.” Per gli androidi “il rischio c’è in ogni caso quando si scappa e si viene qui sulla Terra, dove non siamo considerati neanche alla stregua degli animali.” MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? (1966). Il rischio, infine, è la consapevolezza che nell’assumercelo liberamente noi sfidiamo, con la sorte, anche chi ne tira i fili; come quegli alieni abitanti di Titano, giocatori onnipotenti, che proprio per il loro assoggettamento al rischio come caratteristica istintuale, risultano, in ultima analisi, ben più succubi del fato del misero e precario essere umano terrestre I GIOCATORI DI TITANO (1963).

venerdì 18 settembre 2015

Antonello Silverini: Valis



blu, le vedo intorno a me
blu, le mille bolle blu
che volano, mi chiamano, mi cercano
Amor
impazzisco di gioia
se vedo passeggiar
nel vento, le mille bolle blu
un bacio, ancora un bacio
si avvicinano
eccole eccole
sono qui.

Dolce, dolce creaturina con aureola, disposta a farti irretire dal mago incantatore. Nuovo stregone tecnocrate col corpo ripreso in una posa simile a quella dell’altro mago, l’alieno Palmer Eldritch; anche lui dispensatore di promesse di infinita felicità per tutti. E’ immagine di un irriverente kitsch, questa di Silverini, che condensa le tre opere che formano la cosiddetta trilogia di Valis. Certo si sa, seguendo Dick, il divino è più facile trovarlo nella spazzatura che nei luoghi ad esso deputati. Ma comunque, è un’immagine riuscita questa? Rende la complessità dell’opera più difficile , forse la più espressamente filosofica, di questo autore? Forse siamo di fronte alla rappresentazione di una tecnocrazia, nuova e sofisticata forma di religione solo apparentemente secolarizzata. Quel che è certo, del numinoso delle vecchie fedi monoteiste qui è rimasto ben poco. Bolle di sapone mosse da una specie di ciarpame tecnologico a forma semiumana e una piccola tenera figura che ancora vuole e cerca di farsi stupire, come l’umanità tutta, ancora infantile, che non può fare a meno dei trucchi di un qualche mago imbroglione. 

Venerdì 25 settembre 2015: La conquista di Ganimede

martedì 23 giugno 2015

Musica


“Il dottor Labyrinth, come molta gente che legge tanto e che ha parecchio tempo libero, si era convinto che la nostra civiltà stesse prendendo la strada di Roma. Vedeva, io penso, formarsi le stesse crepe che avevano minato il mondo antico, il mondo della Grecia e di Roma; ed era convinto che quanto prima il nostro mondo, la nostra società, sarebbero scomparse come avevano fatto altre, e che sarebbe seguito un periodo di oscurità.” Per salvare almeno una delle più belle creazioni dell’umanità, la musica, Labyrinth inventa una macchina ‘salvamusica’ che trasforma gli spartiti musicali in esseri viventi dotati di istinto di sopravvivenza. Nascono così l’uccello-Mozart, lo scarabeo-Beethoven, l’animale-Schubert, l’insetto-Brahms, l’animale-Wagner, le cimici-Bach, l’uccello-Stravinsky. Ma qualcosa va storto e gli animali si trasformano in animali orrendi. “La musica sarebbe sopravvissuta sotto forma di creature viventi, ma si era dimenticato della lezione del giardino dell’Eden: una volta creata, una cosa comincia a esistere per conto proprio e cessa di essere proprietà del suo creatore, da modellare e amministrare secondo i suoi desideri. Dio, osservando l’evoluzione dell’uomo, dovette provare la stessa tristezza, e la stessa umiliazione, di Labyrinth, nel vedere le sue creature mutare e trasformarsi per andare incontro alle necessità della sopravvivenza.” Come controprova Labyrinth rimette nella macchina salvamusica una creatura e quel che ottiene è uno spartito di musica orribile. Fortunatamente Labyrinth è stato un novello Noè prudente e ha fatto si che tutte le creature nate dalla macchina fossero sterili. LA MACCHINA SALVAMUSICA  racconto del 1953. Ma forse è la musica in sé a contenere una parte impura, caotica, pronta a riemergere da un passato lontano, come quello dei Chupper, neo-neandertaliani nel romanzo I SIMULACRI (1963) oppure come quella tribale e guerriera degli oppositori ai conquistatori vermiformi proveniente da Ganimede LA CONQUISTA DI GANIMEDE (1964-66) “Una seconda voce si unì alla prima, e poi un’altra, e un’altra ancora. Joan non aveva mai udito niente di simile prima d’allora. Un susseguirsi di lamenti che si fondevano l’uno nell’altro in un unico e lungo singhiozzare che saliva e scendeva di tono senza mai interrompersi, come guidato da un ritmo non stabilito, ma interno, un ritmo che faceva pensare al battito di un grande cuore comune. Sembrava non esserci alcuna melodia prestabilita e ogni voce si univa al canto e lo abbandonava a suo piacimento. Molte voci si erano unite adesso. Il ritmo aumentava. Alcuni uomini cominciarono a segnare il tempo battendo i palmi sui corpi. Per Joan la bellezza di quella musica era come una fitta in pieno petto. La sua mente opponeva resistenza dibattendosi come un uomo che affoghi, ma le emozioni furono rapite dalla musica e trascinate via con furia selvaggia, verso il basso, come un bastoncino in balia della corrente.” Ancora ne “I simulacri” troviamo, oltre alla musica primitiva dei Chupper, un duo di Anfora che si esibisce davanti alla First Lady degli Stati Uniti d’Europa e d’America, suonando l’arrangiamento da Die Forelle di Schubert e un virtuoso del pianoforte, psicocinetico e schizoide che non riesce più a reggere le sue esibizioni in pubblico perché convinto di emanare una puzza fobica in grado di contagiare il mondo intero. Se aggiungiamo i messaggi subliminali inseriti nella musica di RADIO LIBERA ALBEMUTH (1976) possiamo forse incominciare a intravedere il profilarsi di una certa inquietudine nel rapporto tra Dick e la musica. Quelli che a prima vista possono sembrare semplici incursioni in un campo estraneo, ma molto amato da Dick, come la musica, diventano, a guardare con più attenzione, una sorta di sintomi di un malessere. Forse il malessere del rapporto che tutti noi intratteniamo col potere e che in un qualche modo può essere sentito come una musica che ci pervade, che ci guida, a nostra insaputa, nelle nostre relazioni. Musica primitiva, musica colta, entrambe portatrici di un pericoloso messaggio subliminale. Il messaggio che siamo tutti eterodiretti? Il rapporto tra la musica e l’opera di P. K. Dick è in gran parte ancora da indagare,1 qui possiamo solo segnalare, in successione, tutta una serie di citazioni musicali, di varia natura, rintracciabili nell’opera dickiana. Un citazionismo che potrebbe rivelarsi utile per un approccio diverso, inconsueto, a un’opera letteraria, soprattutto come in questo caso, considerata di genere. In I GIOCATORI DI TITANO (1963) troviamo un negozio musicale con il disco di Don Pasquale “L’aria di Schipa. Da-dum da-da-da. Splendido brano.” Un cliente chiede il disco di Gigli, Una furtiva lacrima. E ancora: “-Che gelida manina- disse Schilling.2 –La prima delle due incisioni che ne ha fatto Gigli, è di gran lunga la migliore. L’hai mai sentita la seconda? Tratta dall’opera completa, di una bruttezza incredibile. Aspetta.- Tacque, in ascolto. –Un’incisione superba- disse a Pete. – Dovresti averla, nella tua collezione.- -Non mi piace Gigli- replicò Pete. –Singhiozza.- -Una convenzione- fece Schilling, indispettito. – Era un italiano; è la tradizione.- -Schipa non lo faceva.- -Schipa era un autodidatta.- disse Schilling.“ Ma “-Qual è secondo lei la miglior incisione canora di tutti i tempi?- chiese Es Sibley a Pete. –Aksel Schiotz che canta Everey Valley- rispose Pete. –Così sia- disse Les, approvando.” E poi ancora l’aria della Regina della notte di Erna Berger e infine il duetto delle ciliege (da L’Amico Fritz di Mascagni). Si potrebbe continuare segnalando qua e là una Quarta di Mahler GUARITORE GALATTICO (1967), un Arturo Toscanini e il Dies Irae in UBIK (1966) ecc. ma ora arriviamo a concludere con una carrellata a volo d’uccello, in ordine di apparizione, sulla trilogia di Valis. VALIS (1978): Mick Jagger, i Grateful Dead, Handel, Wagner, il Parsifal, Sammy Davis Jr., David Bowie, Frank Zappa, Alice Cooper, Paul Simon, John Lennon. DIVINA INVASIONE (1980): Il violinista sul tetto (versione per soli archi), John Dowland (il suo Scorrete lacrime, fa da titolo anche al romanzo omonimo del 1970), Monteverdi, Penderecki, Beethoven, Mahler, Mozart. LA TRASMIGRAZIONE DI TIMOTHY ARCHER (1981): Paul McCartney, Bach, i Rolling Stones, Henry Purcell, Frank Zappa, Captain Beefheart, Janis Joplin, il Fidelio, Christa Ludwig, Frida Leider, Beethoven, Bing Crosby e Nat Cole, Gian Carlo Menotti, il Dies Irae, Handel, il Wozzeck di Alban Berg, Patti Smith Group, i Fleetwood Mac. E scusate se vi sembra poco.
1 Significativa eccezione nell’Enciclopedia dickiana a cura di Antonio Caronia e Domenico Gallo, la voce di A. Caronia Musica e musicisti  http://www.agenziax.it/wp-content/uploads/2013/03/philip-k-dick.pdf   Per un’indagine su musica e potere in Dick: Massimiliano Viel, Do Androids Sing in the Shower   http://una-stanza-per-philip-k-dick.blogspot.it/2015/06/massimiliano-viel-do-androids-sing-in.html
2 Schilling è anche il nome del commerciante di dischi nel romanzo degli anni ’50 Mary e il gigante pubblicato postumo nel 1987.                                                                 

venerdì 12 giugno 2015

Massimiliano Viel: Do Androids Sing in the Shower?

LOGIC LANE - ANTONIO CARONIA. Milano 5/6 06 2015 Accademia di Belle Arti Brera

Quando mi è stato chiesto di partecipare a questo incontro ho subito pensato di indagare il possibile legame tra l’opera di Philip Dick, un autore spesso associato al nome di Antonio Caronia e che anch’io ho letto molto, e un tema che mi interessa particolarmente e cioè quello del rapporto tra musica e potere. Non a caso: la musica è sempre presente da qualche parte nelle opere di Dick, un po’ come lo sono i gatti, ed arriva persino a meritare l’apparizione nel titolo di un romanzo; si tratta di Scorrete Lacrime, Disse il Poliziotto, titolo che riecheggia quello di “Flow my tears”, forse la composizione più conosciuta di John Dowland, compositore rinascimentale inglese.
Quello del potere, poi, è un tema addirittura onnipresente e pervasivo nel lavoro di Dick. Lo troviamo a partire dal microcosmo della vita famigliare, tipicamente tra il protagonista e sua moglie o la sua amante, o negli equilibri di un gruppo di amici, come in Un Oscuro Scrutare o più in generale di un gruppo di persone, come ad esempio in Ubik o in Labirinto di Morte, fino a coinvolgere non solo l’intera società spesso ingabbiata in una distopia totalitaria, sia essa di stampo militarista, religioso o consumista, ma anche l’intera esistenza umana, o almeno quella del protagonista, perso tra mondi paralleli, governati da divinità personalzzabilii, come Palmer Eldritch, o ingannato dal velo di illusione intessuto da forme biologiche parassite e aliene per noi inconcepibili, come la Zebra di VALIS.

Ciononostante, è estremamente difficile individuare nel lavoro di Dick una relazione esplicita tra musica e potere, così che forse l’unico esempio che possiamo trovare è nel finale di Radio Libera Albemuth, che è per così dire la “prova generale” di VALIS, trilogia che costituisce l’ultima opera di Dick. Nella conclusione di questo romanzo, la musica di una band pop è l’ultima opzione rimasta ai ribelli per riuscire a delegittimare il dittatore Fremont, attraverso la diffusione di messaggi subliminali. Dunque comunque alla fine non si tratta della musica in sé che ha il potere di indurre la sovversione, ma del testo che in essa può essere nascosto.

Eppure proprio la musica, con la sua complessa architettura di relazioni tra scale, note, accordi, figure e melodie che si ripetono e vengono variate, con le sue forme e i suoi organici vocali e strumentali, ma allo stesso tempo con l’ampiezza della sua diversità interculturale ben si presta a esemplificare il processo di costruzione di un’ideologia e il suo volersi porre come orizzonte di senso nel regime totalitario.
E forse è proprio per questo motivo che ci sembra eccessivo pensare alla musica come uno strumento di soggezione: in fondo la musica allieta, ci emoziona (come vuole la retorica di massa); e se non è così, non è musica: è rumore, non ci dice niente e guardiamo con sospetto chi sostiene che ciò che per noi è un insensata accozzaglia di rumori per altri è musica. Ma anche quando la riconosciamo come musica, la musica degli altri pur aliena ed esotica, spesso non possiamo evitare di considerarla l’espressione di un livello culturale inferiore rispetto al nostro, che è quello di  “esseri civili”. Oppure la facciamo discendere da un concettualismo che interpretiamo più come truffa, come mistificazione, che come genuina manifestazione musicale.

Oggi si litiga molto sulla musica. Anche se siamo lontani dalle risse che scoppiavano durante i concerti di musica contemporanea negli anni ’60, è facile offendere qualcuno dicendogli che non apprezziamo un dato brano musicale che magari viene adorato dal nostro interlocutore o peggio se gli smontiamo il brano e lo riportiamo a banali cliché. Ciò avviene tipicamente perché ci identifichiamo con la musica che ascoltiamo e se qualcuno rifiuta la nostra musica è un po’ come se rifiutasse noi stessi. Siamo in genere disposti a tollerare chi ha gusti alimentari diversi dai nostri, ma per qualche motivo con la musica questo ci riesce più difficile; come diceva un meme di qualche anno fa: “se ci devono mettere in prigione perché scarichiamo musica, che almeno ci dividano a seconda dei generi musicali”.
Dunque oggi sembra che l’ascolto musicale si stia spostando dal riconoscimento di strutture al riconoscimento di generi, operando una formazione identitaria, una distinzione sociale, non più attraverso il grado di sensibilità, ma attraverso l’orientamento di questa verso specifici target, che formano le coordinate sempre diverse di ciò che chiamiamo “musica”. Insomma, la musica oggi viene in qualche modo reificata: diventa parte di un arredo, viene indossata come un indumento, o un tatuaggio.

Formare le identità, magari identità ad hoc, è uno strumento fondamentale nella dominazione. L’identità non è semplicemente il modo con cui noi ci distinguiamo dagli altri, ma è soprattutto la membrana cognitiva con cui diamo un senso al mondo, è il nostro Umwelt personale. Così che noi non percepiamo la nostra identità in sé, ma piuttosto l’alterità di ciò che ci circonda contro la quale ci ergiamo in difesa, per così dire, della nostra integrità di senso. Non c’è quindi da stupirsi se la musica, con la sua liquidità inafferrabile e la sua pervasività inevitabile, possa divenire lo strumento ideale per formare i cittadini del regno, della Prigione di Ferro Nera, come la chiama Philip Dick, entro la quale siamo rinchiusi. E questo vale anche se la finalità diretta è semplicemente quella di diffondere il più possibile un’opera musicale per avere maggiori profitti, anzi, vi è una precisa connessione tra ripetizione e modulazione della coscienza. Ed è proprio questo il punto: è attraverso la ripetizione che si forma l’universo che incontriamo, come uno specchio sempre incrinato.

Insomma, è naturale quindi che mi sarebbe piaciuto leggere un romanzo di Philip Dick, in cui per una volta fosse proprio la musica a squarciare il velo dell’illusione costruito dal demiurgo parassita per dominarci e trasformarci in un docile e insensibilmente felice gregge.
Magari la storia sarebbe potuta iniziare a partire dal finale di Radio Libera Albemuth, quando il protagonista, che è lo stesso Philip Dick, dall’interno della prigione in cui è stato rinchiuso si rende conto che i messaggi subliminali non sono bastati a sconfiggere il dittatore e che anzi, sono gli stessi giovani, i destinatari di questi messaggi sovversivi, a consolidare il potere del tiranno.
In prigione però, lo scrittore si accorge del dilagare di uno strano culto i cui adepti si riuniscono segretamente per ascoltare in silenzio un singolo suono o a volte un accordo che continua per ore e ore, apparentemente senza minime variazioni. Ovviamente Philip Dick, grande appassionato di Wagner e di Linda Ronstadt, rifugge da questa setta, ma tra i detenuti incontra una giovane ragazza, che è stata incarcerata per aver spacciato vinili di musica degenerata. Questa introduce il protagonista a un mondo di culti e di pratiche di ascolto di cui non aveva mai nemmeno sospettato l’esistenza: chi ha fatto voto di ascoltare per il resto della propria vita solo Gute Nacht di Schubert, il primo Lied del Winterreise, chi invece è devoto al rumore bianco, che per definizione contiene tutte le musiche del passato e del futuro e cerca di recuperarle scolpendo con l’ascolto il rumore bianco come un blocco di marmo, chi si riunisce per ascoltare le musiche portate dai singoli adepti, però tutte insieme contemporaneamente, e tanti altri culti ancora.
Il romanzo poi avrebbe potuto seguire il percorso esistenziale di Dick mentre si addentra in queste pratiche vietate dal regime, descrivendo come ogni nuovo esercizio dell’ascolto lo conduce a una diversa percezione del mondo intorno a sé, un po’ come un’esperienza psichedelica. E piano piano il mondo si trasforma. Il meccanismo di proiezione della realtà fittizia, il Vasto Sistema di Intelligenza Vivente Attiva o VALIS come lo chiama Dick, sembra vacillare perché non riesce a sostenere i continui cambiamenti cognitivi del protagonista: dove prima c’era una cella ora c’è una palude, dove c’era un secondino ora c’è una sorta di legionario romano da incubo, nel cielo ogni tanto si può scorgere un gigantesco sguardo malevolo e sogghignante, ma soprattutto al posto dei muri della prigione ora c’è lo spazio aperto. Che quello che si percepisce sia la vera realtà, il sostrato, non è certo. Quello che è invece certo è che il velo di Maya è stato squarciato. Ma solo per un momento.
Ora però la resistenza sa finalmente cosa deve fare per sconfiggere il tiranno. Non c’è bisogno di sottoporre gli ascoltatori a messaggi subliminali, tutto il contrario: occorre far ascoltare a tutti i suoni e le musiche del mondo. Bisogna occupare le televisioni, le radio, le sale da concerto e fare musica, suoni, rumori di tutti i tipi. Certo anche Wagner e Linda Ronstadt hanno il loro posto in questa babele sonora, ma il loro ruolo è cambiato: ora sono una voce tra un miliardo, tra mille miliardi. Sono una possibilità, un percorso sonoro unico. Ancora di più perché l’ascolto liberato delle persone può trovare in questi brani ogni volta suggestioni diverse.
E così alla fine, con il diffondersi di questa esplosione di diversità di ascolti e pratiche, tutti riescono finalmente a vedere il tiranno per quello che è, la Prigione di Metallo Nera viene distrutta e ora è possibile costruire una nuova società. Ma un nuovo tiranno si sta già preparando per salire al potere.


Ecco, un romanzo di Philip Dick sul rapporto tra potere e musica avrebbe forse potuto avere una trama come questa. Oppure chissà, forse, anzi molto probabilmente, il romanzo sarebbe stato completamente diverso.

venerdì 22 maggio 2015

Antonello Silverini: Abramo Lincoln androide



Abbiamo qui il primo dei due romanzi dedicati da Dick  agli androidi; al contrario che in "Ma gli androidi sognano le pecore elettriche?"  Silverini accentua in questo caso la componente meccanica, esaspera il lato robotico ad emblema dell’artificialità. Uomo, androide, robot, un’ambiguità che ben si sposa con l’ambiguità del personaggio storico, un liberatore di schiavi che li credeva comunque esseri inferiori. Come rendere figurativamente questa icona della verità non vera, dell’umano non umano, perfetta sintesi dell’ambiguità dickiana? Raffigurando la grandezza reale (fisica) dell’uomo Lincoln come handicap; ieratica figura, irrigidita su una sedia che funge da carrozzella guidata da un servomeccanismo che fa muovere i piedi a mo’ di ruote. Il farsi umano dell’artificiale, il divenire simbolo da parte di una reale figura storica, il materializzarsi e lo smaterializzarsi vengono resi qui in una serie di trasparenze. La poltrona (la staticità) che svanisce, gli arti inferiori (il movimento) che devono prolungarsi, quasi distaccarsi, per tentare di camminare. Il mezzobusto imbalsamato del presidente, di profilo, attonito, attesta la solitudine, in un’atmosfera grigio-sporco, della natura umana. Natura impossibile da definirsi una volta per tutte; processo di un complicato gioco di evanescenze, tentativi di stare e al contempo di andare.   

Il prossimo appuntamento il 22 settembre con Antonello Silverini - La trilogia di Valis.
Per chi fosse interessato il 28 maggio si inaugurerà la mia mostra (qui) e il 5 e 6 giugno si svolgerà un convegno su Antonio Caronia (qui) 

martedì 19 maggio 2015

Fantascienza



Quanto sia pericoloso leggere le storie di Philip K. Dick ce lo racconta lui stesso in IL GIORNO CHE IL SIGNOR COMPUTER USCI’ DI TESTA, un racconto del 1977: “Giosé Criticabile andò in bagno a lavarsi, e scoprì che il liquido che si stava spruzzando in faccia era una bibita alle radici tiepida. Cristo, pensò. Questa volta il Signor Computer è ancora più balordo del solito. Avrà letto vecchi racconti di fantascienza di Phil Dick, decise. Ecco cosa ci guadagniamo ad aver fornito al Signor Computer tutta la vecchia spazzatura di questo mondo da leggere e immagazzinare nelle sue banche della memoria.” Confessione simile aveva fatto in precedenza nel racconto L’OCCHIO DELLA SIBILLA (1975) “mi chiesero di scrivere su un modulo cosa volessi fare da grande, e io ripensai al mio sogno sull’uomo venuto da un altro universo, e così scrissi: FARO’ LO SCRITTORE DI FANTASCIENZA. La mia famiglia si arrabbiò molto, ma il fatto è che quando loro si arrabbiavano io mi intestardivo, e poi la mia ragazza, Ysabel Lomax, mi disse che non ce l’avrei mai fatta e comunque in quel campo non si facevano soldi e la fantascienza era idiota e soltanto i tipi foruncolosi la leggevano. Così io decisi di scriverla senz’altro, perché i tipi foruncolosi devono avere qualcuno che scriva per loro; non sarebbe giusto scrivere solo per chi ha la carnagione liscia. L’America si fonda sul concetto di giustizia”. Ma è nel racconto del 1964 ORFEO DAI PIEDI D’ARGILLA che abbiamo l’analisi più spietata del genere fantascientifico: “Jack, se posso permettermi di chiamarla così, mi chiedo perché diavolo lei non abbia mai tentato con la fantascienza. Secondo me… _Te lo dico io perché_ lo interruppe Jack Dowland. Si mise a passeggiare avanti e indietro, con le mani infilate nelle tasche dei calzoni _Perché ci sarà una guerra nucleare. Il futuro è nero. Chi ha voglia di scriverne? Criiiisto._ Scosse la testa. _E comunque, chi la legge quella roba? Adolescenti coi brufoli. Disadattati. Ed è pattume! Citami un bel racconto di fantascienza, uno solo. Una volta quando stavo nello Utah ho trovato una rivista su un autobus. Pattume! Non scriverei quella spazzatura nemmeno se mi pagassero bene, e mi sono informato e non pagano bene. Qualcosa come mezzo cent a parola. E chi riesce a vivere con quei soldi?_ Disgustato si avviò alle scale.” Nel racconto PULCE D’ACQUA (1964) il protagonista è lo scrittore di fantascienza Paul Anderson che viene rapito e trasportato nel futuro. Nello stesso racconto si trovano citati anche Ray Bradbury, A. E. VanVogt, Isaac Asimov, Murray Leinster, Jack Williamson, Damon Knight, Alfred Bester e lo stesso Dick. Infine in MA GLI ANDROIDI SOGNANO PECORE LE PECORE ELETTRICHE? (1966) il genere letterario fantascientifico viene definito “narrativa precoloniale”, cioè “storie scritte prima dei viaggi spaziali ma che parlano di viaggi spaziali.” In cui veniva “descritto Venere come una giungla del paradiso, popolata da mostri enormi e da donne vestite di corazze lucenti”, una letteratura buona per essere contrabbandata su Marte, perché sulla Terra non valeva niente, mentre tra i coloni era molto richiesta e valeva una fortuna.  

Le voci di Dick riprenderanno martedì 22 settembre. Per chi fosse interessato il 28 maggio si inaugurerà la mia mostra (qui) e il 5 e 6 giugno si svolgerà il convegno su Antonio Caronia (qui) 

venerdì 15 maggio 2015

Antonello Silverini: Un oscuro scrutare


A colpo d’occhio sembrerebbe quasi la tuta di un’astronauta; una tuta piena di elio che a causa di uno strappo prende il volo, schizza via in una fuga incontrollabile. La abita una figura umana dal volto offuscato da una macchia bianca , ectoplasmica. E’ in realtà un alterabito che grazie a un sofisticato sistema “crittante” rende irriconoscibile chi la indossa. Unico segno di riconoscimento, una pianticella, un ben noto ramoscello di una pianta dai poteri stupefacenti, che sta come emblema, sulla mano destra, aperta, del fantoccio. Perché di un fantoccio si tratta, di un essere assuefatto dalle sostanze lisergiche, il cui emblema, appunto, lo identifica come vegetale; ultimo stadio di un processo di degradazione inarrestabile. Ma c’è anche qualcosa che resiste alla degradazione, qualcosa che allude al sacro. Un che di sacrificale, un essere umano crocifisso dalle cui stimmate di una mano spunta il virgulto della pianticella meravigliosa che offre consolazione a buon mercato. Immagine ambigua per un mondo di realtà ambigue, il mondo di Philip K. Dick, cioè il nostro. 

Venerdì 22 maggio: Antonello Silverini - Abramo Lincoln androide

martedì 12 maggio 2015

Kafka


Il protagonista di GUARITORE GALATTICO (1967) Joe Fernwright, fermato dalla polizia per un’infrazione è condannato seduta stante a un anno con la libertà condizionale. Alla sua domanda “Senza un processo?”, “Vuole essere processato?”  gli risponde l’ufficiale con un’occhiata penetrante, e Joe, molto più saggiamente del signor K protagonista del Processo di Kafka, risponde decisamente “No!”. Per il protagonista del racconto AL SERVIZIO DEL PADRONE (1956) va invece peggio e la sua fine riecheggia quella terribile di K;  Applequist dopo esser stato massacrato di botte viene lasciato ferito vicino a una bomba innescata “era solo, con la bomba semisepolta nel terreno e il calare delle ombre. E il grande buio morto che stava sommergendo tutto.” Suggestioni, contaminazioni kafkiane come quelle che ricordano il racconto La tana: “_Ho una tana_ disse Ild _vado dentro quando piove. Sto al caldo.” I NOSTRI AMICI DI FROLIX 8 (1968-9). O nel racconto FORSTER SEI MORTO (1956) “Poteva restare lì in eterno, senza muoversi. Sicuro e protetto. Senza che gli mancasse nulla, senza aver paura, con il mormorio dei generatori sotto di lui e quelle semplici, ascetiche pareti tutt’intorno e sopra di lui, tiepide, amichevoli, come un utero accogliente.” E in LA SVASTICA SUL SOLE (1961) “Siamo talpe cieche. Che strisciano dentro le loro tane sottoterra, e trovano la strada a tentoni, con il muso. Non sappiamo niente. Io l’ho percepito… adesso non so dove andare. Posso solo urlare di paura. Fuggire.” E ancora in UN OSCURO SCRUTARE (1973) l’ossessiva sorveglianza “La sorveglianza, pensò, dovrebbe essenzialmente essere mantenuta. E, se possibile da me. Dovrei stare sempre a controllare…” e sempre nello stesso romanzo il racconto Davanti alla legge fa capolino in un incubo lisergico in cui la porta per un altro mondo “si aprì per lui per alcuni giorni e poi venne chiusa e sparì per sempre.” Così come La colonia penale si evidenzia in un test di Rorschach in L’ANDROIDE ABRAMO LINCOLN (1962) “Nel test di Rorschach , per esempio, aveva interpretato ogni macchia e figura come un groviglio di macchinari fragorosi e martellanti e dentellati, progettati fin dall’inizio dei tempi per oscillare con movimenti frenetici e letali allo scopo di procurarmi danni fisici.” E per ultimo, ma si potrebbe continuare ancora, uno dei primissimi racconti dickiani ROOG (1953) non può non ricordarci le disperate Indagini di un cane

venerdì 8 maggio 2015

Antonello Silverini: I simulacri


Enigmatica e misteriosa. Un cartello stradale indica una via a senso unico. Una giromobile…; questa è la meraviglia delle immagini di Antonello Silverini, quando non sai che scrivere, quale spiegazione darne, ti lasci andare e accetti di addentrarti in un immaginario ricco e generoso che ti permette comunque di dire qualcosa. Non c’è nessuna giromobile nel romanzo di Dick? Poco importa, sarà allora una cronosfera che viaggia nel tempo, ripercorrendo a ritroso quella inesorabile one way. Il pilota vintage, probabile reduce di un’arcaica pubblicità Pirelli, rimane inquadrato in una vecchia lastra per dagherrotipo tenuta su da un precario frammento di adesivo. Presi di per sé  sono elementi di una banale realtà, ma nel loro bislacco assemblaggio assecondano il compito che Jean Baudrillard assegna all’immaginario fantastico nella nuova era dell’iperrealtà, la nostra: “realizzare situazioni decentrate, modelli di simulazione e (…) ingegnarsi a dar loro i colori del reale, del banale, del vissuto, (…) reinventare il reale come finzione”1 Proprio come Silverini ha fatto sin dalle prime copertine dickiane.

1. Jean Baudrillard, Simulacri e fantascienza, Postfazione 

Venerdì 15 maggio: Antonello Silverini - Un oscuro scrutare