domenica 29 marzo 2020

Dottor futuro. La cura di non curare: paradossi di un futuro in atto.


                                                                                                                “Tanto ormai se ne sono
                                                                                                               accorti tutti che si muore.”
                                                                                                                             Giorgio Manganelli

Siamo nell’anno 2010, il medico Jim Parsons viene catapultato nel 2405. Qui egli scopre che la sua professione non solo è diventata inutile, ma persino vietata. Il mondo del futuro è basato su una società che predilige la morte. Una persona ferita non chiama il medico ma l’eutanasista per farsi sopprimere. È un mondo in cui le nascite sono rigidamente controllate, tutti i maschi sono sterili e gli zigoti sono conservati nel cubo dell’anima; ad ogni decesso ne viene prelevato uno per concepire una nuova vita. Questo è lo sfondo su cui si innesta la trama del romanzo di Philip K. Dick “Il dottor futuro” del 1959. È ancora il primo Dick, impigliato nelle maglie grosse della fantascienza ma già capace di rovistare nelle pieghe del genere per andare oltre il genere stesso. Si può dire che Dick è stato infettato dal genere quanto viceversa lo ha a sua volta infettato fino ad accompagnarlo dolcemente ad esaurirsi, in quasi concomitanza con la propria fine. Conclusasi la capacità di anticipare perché tutto ormai è anticipato, nulla può più succedere nel futuro che non sia già iscritto nel presente e così il viaggio temporale di Dick dal 1959 al 2010 e infine al 2405 forse delinea un filo rosso che collega al di là delle apparenze mondi così apparentemente opposti e lontani. Nella nostra società attuale è sempre meno possibile, e sempre meno lecito, prevedere; possiamo e dobbiamo solo imparare a prevenire. Questo significa che nel nostro operare quotidiano non abbiamo più a che fare con la “cautela”, ma bensì con “la precauzione, non l’articolazione contestuale del dato, ma l’assunzione di questo come fatto compiuto autosufficiente” Il vecchio adagio ‘prevenire è meglio di curare’ si sta massimalizzando a un ritmo esponenziale; non serve più prevedere i pericoli, vanno anticipati per poterli disinnescare. “La prevenzione è un atto che anticipa ciò che può o può non svilupparsi in un certo modo. La prevenzione è l’anteposizione dell’atto alla potenza (cfr. Giorgio Agamben, La potenza del pensiero, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 276-277) o anche l’attualizzazione di una possibilità della potenza che scarta le altre possibilità e che attraverso lo scarto di queste si assicura di escludere una specifica possibilità. La previsione è invece aver cura di capire quali possibilità o impossibilità si possono sviluppare dalla potenza. La prevenzione è la completa trasformazione della potenza in qualcosa che la renda percepibile già come atto. Questo qualcosa è il rischio.”1 Il dottore che dal futuro di Dick si sposta ancora più in là nel futuro non trova il progresso auspicabile della sua arte di guarire ma all’opposto quella dell’arte del morire; una società alla cui base c’è “l’ethos della morte”, una società in cui “gli individui morivano e nessuno ne era turbato, nemmeno le vittime. Morivano felici e contenti.” Qualcosa di inaccettabile per il dottor Parsons che dice a un abitante del futuro: “forse noi ignoriamo la morte, forse siamo così immaturi da negare l’esistenza della morte, ma almeno non la cerchiamo”. E di contro l’interpellato risponde: “indirettamente l’avete fatto (…) negando una realtà così potente avete minato le basi razionali del vostro mondo. Non sapevate in che modo affrontare la guerra, la fame e la sovrappopolazione perché non riuscivate a discutere di questi problemi. Quindi per voi la guerra capitava e basta, era una sorta di calamità naturale e non l’opera dell’uomo. È diventato un fattore esterno. Noi controlliamo la nostra società. Noi contempliamo tutti gli aspetti della nostra esistenza, e non soltanto quelli belli e piacevoli.”2 Finita l’era dell’incerto e del casuale la governance si distende come un sudario sull’intero pianeta senza residuo alcuno. Ovviamente nel romanzo c’è un’altra storia, una resistenza, ma questa è appunto un’altra storia. Come spesso è uso in Dick, più storie convivono, si intersecano, confliggono e anche stridono, ma ognuna gode anche di un’esistenza propria. La morte e la cura attraversano gran parte della produzione dickiana; qui la morte la fa da padrona, pretende, se non fosse un controsenso, di vivere di vita propria e getta una luce sinistra sulla nostra pretesa prevenzione per la vita. A forza di prevenire la vita forse la stiamo solo esaurendo, sfibrando la sua forza e rischiandone l’estinzione. La fantascienza, nella sua breve ma feconda esistenza, ha scommesso invece sulla capacità di prevedere e grazie alla “capacità di dilatare o restringere il tempo e lo spazio della realtà” è riuscita ad avere “una dimensione filosofica oltre che inventiva” capace di favorire la ricerca di un antidoto al veleno di chi vuol “rovesciare e far coincidere ciò che è con ciò che può essere” e a “non lasciare quello spazio/tempo intermedio dove si articolano l’etica e la politica”3. Prevenire allora non è necessariamente meglio che curare, occorre anche prevedere per darsi il tempo di riflettere e di scegliere. Prima che la morte stenda su tutti noi il mantello che definitivamente ci metterà al riparo da qualunque possibilità di rischio.

Il titolo di questo articolo rimanda volutamente al libro di S. Iaconesi e O. Persico, La cura (qui recensito http://www.labottegadelbarbieri.org/la-malattia-e-un-evento/) libro, strumento per imparare a prevedere, riflettere, scegliere.
  1. Marco Pacioni, Neuroviventi, Mimesis, 2016 (recensione: http://www.labottegadelbarbieri.org/cervello-controllo-corpi/)
  2. Philip K. Dick, Dottor futuro, Fanucci, 2011
  3. M. Pacioni, op. cit.