mercoledì 28 febbraio 2018

Ubik: la sceneggiatura



Iniziata a fine settembre e completata entro l’ottobre del 1974 la sceneggiatura di Ubik, a Philip K. Dick mancava solo di ricevere il saldo del pagamento pattuito con il regista francese Jean-Pierre Gorin.1 Come ricorda Paul Williams2 “ahimè, il pagamento non arrivò mai; dapprima Gorin addusse una malattia di fegato, poi la perdita di entusiasmo da parte dei suoi sostenitori finanziari, e infine sparì dalla scena. Il film non venne mai girato.” Questa sceneggiatura è stata pubblicata un’unica volta in Italia da Fanucci nel 1998 insieme al romanzo nella traduzione di Gianni Montanari per poi scomparire nelle nuove edizioni delle opere complete di Dick da parte della stessa Fanucci. Strano destino per un’opera così importante, la riduzione filmica di uno dei romanzi chiave di Dick (del 1966) scritta alla fine di quell’anno, il 1974, cruciale per lo stesso Dick. Il 2.3.74 segna un punto di svolta per la vita e l’opera di Dick e quel lavoro di adattamento cinematografico, a ragion di logica, non può non contenere al proprio interno elementi più che significativi per lo svolgersi successivo della sua produzione letteraria. Tentare un primo confronto tra romanzo e sceneggiatura, in quest’ottica, può rivelare sorprese e spunti essenziali ancora assenti dall’indagine critica svolta sulle sue opere.
Ubik inizia nella sala delle mappe (predisposte al monitoraggio della collocazione spaziale dei telepati dell’organizzazione spionistica di Hollis) negli uffici della Runciter Associates a New York, l’organizzazione antispionistica di Glen Runciter. Al posto del solo tecnico incaricato al turno notturno del romanzo nella sceneggiatura si trovano tre addetti che “ricordano le streghe dell’inizio del Macbeth, tranne che sono tutti uomini”. Vale la pena riportare per esteso la loro descrizione e quella dell’ambiente di lavoro: “I loro abiti sono diversi dai nostri, ma non sono come le uniformi da sala di comando di Star Trek nei film di fantascienza; l’UOMO BIONDO indossa una camicia di velluto scuro e pantaloni sportivi gialli, l’UOMO CALVO una camicia di seta bianca con maniche pieghettate, l’UOMO MAGRO un comune camice da lavoro con le stesse iniziali R.A. cucite sul petto. La stanza è di medie dimensioni. Sentiamo un ronzio di apparecchiature. Le posizioni delle luci cambiano incessantemente; ogni tanto uno dei tre uomini indica con una penna, o fa un cenno col capo, verso una particolare luce colorata che ha cambiato posizione. Di quando in quando le loro labbra si muovono come se i tre uomini discutessero di ciò che vedono, ma non sentiamo nulla a causa del continuo rumore elettronico di sottofondo. Insieme ai tre uomini notiamo sempre più che una luce verde si sposta da sinistra a destra. Poi di colpo la luce scompare; si ode un suono simile a un gong, soffocato, ma tutti e tre sobbalzano visibilmente.” (p. 279) Il resto corrisponde: S. Dole Melipone, il maggior telepate dell’organizzazione avversaria è scomparso. Runciter, svegliato nel cuore della notte, decide di andare a trovare la moglie defunta tenuta in semi-vita al Moratorium di Zurigo. Non viene ripreso dal romanzo il particolare che Melipone cambi profilo fisionomico ogni mese; evidentemente  l’idea stava per essere usata, con ben altro peso, nel romanzo Un oscuro scrutare.
Il Moratorium Diletti Fratelli viene descritto come “una via di mezzo fra il Tempio Mormone e il drive-in californiano. Al suo esterno, tra i viali percorsi dalle persone in visita “ci sono animali impagliati che si muovono quando qualcuno si avvicina, con gesti rigidi e meccanici, dando all’intera struttura – incluse le stesse persone – un aspetto curiosamente artificiale.” I volti delle persone sono seri “l’unica gioia autentica è quella che appare sul viso di un bimbetto che insegue un papero bianco…. Il quale si rivela dotato di ruote quando si allontana rapido. È fasullo.” Un richiamo agli animali artificiali di Ma gli androidi sognano le pecore elettriche?
C’è anche un inedito paragone tra vita prenatale e semi-vita: “-Herbert: Cosa c’è lì dentro? –Segretaria: Il mio bambino –Herbert: Anche lui è in semi-vita, per così dire. Segretaria: Sì, Herr.”
Jory, l’essere che si intromette nella comunicazione tra Runciter e la moglie Ella, viene descritto con un timbro vocale “più rozzo e goffo, un timbro raschiante e sgradevole, con sfumature di metallica ferocia” e  poco più avanti, ancora un riferimento all’artificiale e al non umano quando Jory chiede se la sonda pilotata da androidi è stata lanciata verso Proxima. Scompare il tentativo di Von Vogelsang di far ragionare Jory per indurlo ad abbandonare la mente di Ella. Nella versione romanzo c’è una sorta di giustificazione dell’invasione di Jory, come una cosa che va al di là delle sue intenzioni ma che è dovuta solamente a una questione di potenza mentale: una mente più forte che naturalmente sopraffà quella più debole (la semi-vita ha una naturale scadenza e pertanto man mano si esaurisce e indebolisce).
L’evento più importante per lo sviluppo del romanzo è l’incontro tra Joe Chip (il braccio destro di Runciter) e il nuovo talento che deve essere assunto nell’organizzazione, Pat Conley. La descrizione di Pat, invecchiata di cinque anni, nella sceneggiatura si fa più problematica e minacciosa:
Pat (descrizione nel romanzo):                                                                                                              “non più di diciassette anni, slanciata e con due grandi occhi scuri, e la pelle color rame. (….) indossava una camicia di lavoro in un surrogato di tela e un paio di jeans, con due pesanti stivali incrostati di qualcosa che sembrava vero fango. Un groviglio di lucidi capelli spinto indietro sulla nuca era annodato con un fazzoletto di seta rossa. Le maniche arrotolate della camicia mostravano braccia robuste e abbronzate. Alla cintura di finto cuoio portava un coltello, un telefono portatile, un pacchetto di razioni d’emergenza e acqua. Sull’avambraccio nudo e scuro spiccava un tatuaggio. CAVEAT EMPTOR, diceva. Chip si chiese cosa volesse dire.” (p. 40)
Pat (descrizione sceneggiatura):                                                                                                                   “capelli neri, grandi occhi intensi, snella, sui 23 anni – ma la sua espressione è rigida e affilata, uno sguardo cattivo, uno sguardo da stronza, uno sguardo che tradisce potere più che calore. È un viso rannuvolato, oscurato da un’aurea di indifferenze; c’è intelligenza, e la capacità di essere gentile, ma il motore che lo spinge è teso più al dominio che alla ricerca di un rapporto con coloro che la circondano. Questa è Pat Conley. È come se stessimo guardando una ragazza adolescente cresciuta, quanto a forza e giudizio ma non in saggezza. Più furba e matura delle solite masticatrici di gomma che si vedono per la strada, Pat si presenta quasi palpabilmente come una forza con la quale si devono fare i conti”
Occorrerebbe analizzare nel dettaglio i numerosi cambiamenti nella sceneggiatura riguardanti i rapporto tra Joe e Pat, qui ne evidenzieremo solo altri due momenti:
-         Il ruolo di Pat, la sua capacità di controllare il futuro modificando il passato, descritto come un fattore anti-psi necessario per ristabilire quell’equilibrio messo in crisi dai vari telepatici, precog, ecc., viene nella sceneggiatura ridotto a una semplice battuta tra Joe e Ashwood (lo scopritore di talenti): “- Chip: Runciter non avrebbe dovuto assumerti a provvigione, Ashwood. Un giorno o l’altro entrerai qui tirandoti dietro un caprone. (…) Un caprone capace di resuscitare i morti. – Ashwood: (soddisfatto) un caprone capace di impedire a qualcuno di resuscitare i morti.” (p. 317) Il ‘pungiglione della morte’ non può essere sconfitto perché è intrinsecamente legato alla vita, alla possibilità stessa che la vita non cessi di propagarsi, di continuare a scorrere.
-         L’efficacia del potere di Pat viene subito dimostrato nella riunione con Runciter e l’intero gruppo destinato a partire per la missione sulla Luna, in un veloce flash Runciter ha un’allucinazione e viene improvvisamente catapultato in un altro luogo, in una strada affollata. Al ritorno il passato è stato modificato e si apprende che Pat e Joe sono già sposati da più di un anno. Nella sceneggiatura l’episodio ‘allucinatorio’ si svolge mentre sono sulla Luna, ed è vissuto in prima persona da Joe invece che da Runciter.
Un altro punto importante di divergenza tra i due testi è nella descrizione dello stato di malessere che subentra nei superstiti dell’organizzazione al ritorno sulla Terra. Nel romanzo è un susseguirsi ordinato e progressivo di una sensazione di affaticamento che porterà uno ad uno tutti i protagonisti, ad eccezione di Joe, alla morte. Emblematico l’episodio che vede l’antiprecog Al Hammond accorgersi di percepire la realtà in modo diverso da Joe e divenire “cosciente di un insidioso, filtrante senso di raffreddamento” (p. 146). Al va al gabinetto dell’albergo, vede la scritta di Runciter in cui dice loro che lui è vivo e sono loro ad essere morti, e lo fa vedere a Joe dicendogli: “Così ora conosciamo la verità.” (p. 149) Di lì a poco Al morirà, da solo, nel cesso. Nella sceneggiatura è invece Joe a star male e ad avere percezioni alterate (l’ascensore che regredisce da moderno ad antico), e sarà lui ad andare nel gabinetto e a trovare la scritta di Runciter e a farla vedere a Al. E solo allora romanzo e sceneggiatura ritorneranno  a coincidere. Al dirà a Joe che adesso conoscono la verità e a quel punto comincerà a star male e finirà per morire nel cesso. Nella sceneggiatura Joe sta male da subito e darà la colpa di questo alla sua volontà di fallimento. Ma la scoperta della verità non lo ucciderà, saranno gli altri, quelli più sicuri di loro stessi, a morire. Sono proprio l’insicurezza e il sentirsi continuamente fallito che permette a Joe di sopravvivere; per lui la verità: il fatto che sono già morti, non lo sorprende, o quanto meno, non lo coglie impreparato.
Nel finale la storia cambia completamente; nel romanzo dopo l’ennesimo tentativo andato a vuoto nel cercare l’Ubik in una farmacia, ormai esausto e sentendosi prossimo alla fine, Joe incontra alla fermata di un tram una ragazza che gli consegna un pacchetto. È una bomboletta di Ubik: “Lei mi ha portato qui dal futuro, grazie a quello che ha appena fatto all’interno di questa farmacia. Lei mi ha convocato direttamente dalla fabbrica. Signor Chip, posso spruzzarla io, se lei è troppo stanco.” (p. 252) L’Ubik ridona vita a Joe che potrà ancora, quando ne avrà necessità, richiamare la ragazza grazie all’appunto scritto sull’etichetta della bomboletta: “Credo che si chiami Myra Laney. Guarda sul lato opposto del contenitore per l’indirizzo e il numero di telefono.” (p. 254) L’ultimo sintetico capitolo ci riporta al mondo dei vivi, nel Moratorium, dove Glen Runciter richiede di parlare con la moglie Ella. Nel dare una mancia al tecnico si accorge che le monete portano l’effigie di Joe Chip. Una trasformazione della realtà era in atto e quello “era soltanto l’inizio” (p. 256). L’ultima parola del finale è ‘l’inizio’ di una nuova storia, di un nuovo mondo; probabilmente non più bello né più brutto dell’altro, comunque diverso. La sceneggiatura rimescola completamente le carte. Joe non incontra alla fermata del tram una ragazza con l’Ubik, incontra direttamente Ella che non ha nulla da consegnargli. Insieme si dirigono verso un locale, il Matador, e nonostante la riluttanza di Joe “Chip: Questo non è il Matador. Ella: L’insegna dice che lo è. Chip: (afferrandola per un braccio)  È la luce rossa fumosa. Il prossimo grembo…  per te. Quello sbagliato” Ella vi entra e Joe la segue. Nel finale, nel mondo dei vivi, ci troviamo nel reparto maternità (del Moratorium?) dove la segretaria di Herbert ha partorito. “Runciter: È tornata. Ha superato perfettamente il passaggio, e adesso è qui con noi.” L’esperimento è riuscito. “È chiaramente Runciter a dirigere le operazioni; questo è un piano suo… per così dire, la sua creatura.” (p. 491) Ella è tornata in vita, la morte è stata sconfitta, ma il denaro, anche qui, è denaro Joe Chip! “L’inquadratura è ancora sulla moneta Joe Chip; diventa un fermo immagine.” (p. 492) L’ultima sequenza, priva di colonna sonora, è sull’etichetta della bomboletta spray che recita:  IO SONO UBIK, PRIMA CHE L’UNIVERSO FOSSE, IO SONO. HO CREATO I SOLI. HO CREATO I MONDI. HO CREATO LE FORME DI VITA E I LUOGHI IN CUI ESSI VIVONO. IO LE MUOVO NEL MODO CHE PIU’ MI AGGRADA. VANNO DOVE DICO IO, FANNO CIO’ CHE IO COMANDO. IO SONO IL VERBO E IL MIO NOME NON E’ MAI PRONUNCIATO, IL NOME CHE NESSUNO CONOSCE. IO SONO CHIAMATO UBIK, MA QUESTO NON E’ IL MIO NOME. IO SONO. IO SARO’ IN ETERNO. Dissolvenza.

La sceneggiatura di Ubik per un film da fare prepara e anticipa il film Valis che ha un ruolo determinante nel romanzo omonimo del 1978. Noi tutti “facciamo parte di un film” anche se questo è solo “un modo di dire di Berkley”3 e quando qualcosa interrompe lo scorrere di questa “pellicola che chiamiamo realtà” è importante unire tutti gli sforzi perché si ricominci “a proiettare il film”4. Non c’è nulla dietro la pellicola, tranne una luce, quella che ci permette di vivere come immagini proiettate su uno sfondo. Tutto qua! Dopo il 2/3/74 non c’è più commercio possibile di bombolette salvifiche, non ci può più essere; il mondo è quello di Joe Chip e delle sue nuove monete falsificate. L’accento si sposta definitivamente sull’infrazione del nomos, della legge.5 Nulla sarà più come prima, nel bene come nel male, le vecchie utopie ridotte a puri prodotti in vendita anche “on-line” (basta telefonare6  direttamente alla fabbrica se la farmacia ne è sprovvista) sono ormai inefficaci. L’ultima sequenza in dissolvenza sull’etichetta di Ubik è un addio, una fine; il nuovo inizio è il fermo immagine sulla moneta Joe Chip: un nuovo modo di vivere, una nuova forma di vita, tutta da imparare e sperimentare attraverso pratiche di lotta e resistenza a quella cosa che chiamiamo potere, che ci attraversa e si rifiuta di ergersi là, dove noi vorremmo che sia, permettendoci così di affrontarlo e, possibilmente, distruggerlo definitivamente. Dick è uno degli strumenti che, in questa nuova era, possono esserci più utili in questo difficile compito, e Ubik, nelle sue molteplici sfaccettature, nelle diverse prospettive da cui può essere osservato: nel romanzo, nella sceneggiatura, nel ruolo che riveste nell’Esegesi, è, tra le sue opere, forse la più efficace per le domande necessarie alla costruzione di una nuova forma di vita capace di resistere alla cieca distruttività di cui ogni potere, che ha saputo sedare ogni forma di conflitto, è intrinsecamente succube. 

Nota 2: P. Williams, prefazione p. 262 in P. K. Dick, Ubik. Il romanzo e la sceneggiatura inedita. Fanucci, Roma, 2002
Nota 3: P. K. Dick, La trasmigrazione di Timothy Archer, Oscar Mondadori, 2000, p. 179.
Nota 4: P. K. Dick, Scorrete lacrime, disse il poliziotto, Oscar Mondadori, 2000, p.132.
Nota 5: http://una-stanza-per-philip-k-dick.blogspot.it/2014/08/ubik_30.html  
Nota 6: In Dick la rete telefonica è anticipazione della rete informatica (v. http://una-stanza-per-philip-k-dick.blogspot.it/2016/06/telefono.html )

martedì 6 febbraio 2018

Umano


“Insomma, dovete tener presente che dopo tutto siamo fatti solo di polvere. Ammetterete che non è molto se si vuole tirare avanti; e non dovremmo dimenticarcelo. Ma anche tenendo conto di questo, che non è certo un bell’inizio, non ce la stiamo cavando tanto male. Insomma, personalmente sono convinto che ce la possiamo fare anche in questa situazione del cavolo in cui ci troviamo. Mi seguite?” LE TRE STIMMATE DI PALMER ELDRITCH (1964). Detto in altre parole da un altro autore mezzo secolo prima: “’L’uomo è fatto di vile materia!’ Che noi stendiamo o abbassiamo le braccia, che non sappiamo se volgerci a destra o a sinistra, che siamo fatti di abitudini, di pregiudizi e di polvere, e tuttavia avanziamo secondo le nostre forze per la nostra strada; qui sta appunto l’umano!”(nota 1) Ma se questo essere polvere non ci impedisce di percorrere quella strada che sentiamo come umana (se non proprio al di sopra, comunque altra da quella specificamente animale e istintiva) in che cosa potremmo distinguere tale natura particolare dalle altre? “-La misura di un uomo non è la sua intelligenza. Non è il livello che può raggiungere nel sistema dei fenomeni di natura. La misura di un uomo è questa: con quale rapidità sa reagire ai bisogni di un’altra persona? E quanto di se stesso può dare? Quando il dare è autentico dare, non riceve nulla in cambio, o almeno…”-“ NOSTRI AMICI DI FROLIX 8 (1968-9) I nostri amici alieni di Frolix 8 ci forniscono una risposta saggia, la capacità di aver cura dell’altro è ciò che ci rende umani. È una risposta che in Dick è già presente fin dai suoi primi racconti come UMANO E’ del 1955 in cui una donna, il cui marito odioso all’improvviso diviene affettuoso e premuroso, scopre che questo è dovuto al fatto che un alieno si è sostituito a lui. Sospettato dalla polizia, la moglie ne garantisce l’identità umana. Essere alieni non preclude necessariamente possedere quelle caratteristiche che noi attribuiamo, o vorremmo attribuire, all’umano in quanto tale. Ma Dick ci ha anche abituato a non renderci le cose troppo facili e tutto si complica quando la natura dell’altro si configura come artificiale (artefatto, costruito e quindi non naturale). I replicanti o androidi, sono esseri artificiali, prodotti di laboratorio, e sono privi di empatia. Se hanno ricordi, emozioni o altro, questi sono stati implementati, a monte, nel loro programma. E se con gli animali possiamo provare un certo disagio nello sfoggiare una nostra pretesa superiorità, in quanto ‘umani’, con degli esseri artificiali, in qualche modo inautentici, queste remore non possono sussistere. Ma Dick riesce a complicare anche questo. “-Se risulto essere un androide,- continuò a dire Phil Resch –la tua fede nel genere umano subirà un rafforzamento. Ma siccome non credo che andrà così, ti suggerisco di cominciare a farti un quadro ideologico che giustifichi” la crudeltà e la mancanza di empatia anche in un essere autenticamente umano, MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? (1966) Un essere che in tutto ci assomiglia, per quanto crudele possa essere, è giusto che non venga considerato umano? Su quali basi possiamo farlo? Se non riconosciamo come umano un essere che in tutto è simile a noi tranne per una presunta natura non umana, come potremmo garantirci di non essere a nostra volta esclusi, non riconosciuti in base a una qualche altra presunta differenza? Razza, cultura, religione, colore…

Nota 1: Robert Musil, L'uomo senza qualità.