venerdì 19 dicembre 2014

Antonello Silverini: La svastica sul sole



Colpisce osservare come nelle copertine dickiane di Silverini più l’opera è tra quelle generalmente riconosciute maggiori più gli elementi rappresentativi si riducano privilegiandone spesso uno solo. E’ il caso di Ma gli androidi sognano le pecore elettriche? come abbiamo già visto1, di Ubik e di  La svastica sul sole che di seguito andiamo ad affrontare. A questo proposito lo stesso Silverini in un’intervista2 “per La svastica sul sole, volendo evitare quello che fino ad oggi ho visto sulle varie copertine di questo romanzo (svastiche, castelli e ogni sorta di elementi troppo didascalici), ho trovato questa cosa dell’orologio di topolino che diventa nel contesto ucronico del romanzo un pezzo di antiquariato americano, un feticcio indigeno per i vincitori”. Ecco allora molto semplicemente la genesi di una copertina. Un’idea chiave, la più rappresentativa possibile, individuata in quel feticcio indigeno con all’interno quel “saluto nazista del topo di Disney (anche lui sospettato di essere filo-hitleriano), che suona assai sinistro.” Facile certo, ma non così scontato come si vorrebbe. Perché poi quell’oggetto? Giustamente Silverini scansa a priori i facili accostamenti: la svastica, il castello; ma avrebbe potuto sceglierne altri meno scontati ma di ben altra forza rappresentativa. Penso agli esagrammi degli I King, particolare tutt’altro che secondario del romanzo. La svastica sul sole è si romanzo della storia alternativa possibile ma è anche rappresentazione per eccellenza di un mondo culturale in cui coabitano universi multipli, assoggettato alla pratica divinatoria contrariamente a un mondo, come il nostro, a universo unico in cui ci si affida alla tecnica diagnostica3. Oppure ribadendo la scelta ucronica far marciare i soldatini nipponici nelle strade di Washington, con un richiamo più o meno esplicito ai filmati di propaganda bellica di Fank Capra4. O l’autentica pistola falsa che mette a repentaglio la vita dell’ebreo americano Fink e così via, si potrebbe continuare a lungo. Perché allora una scelta così minimalista come l’orologio con Mickey Mouse? Ed è stata una scelta poi così azzeccata? L’immagine è bella, forse addirittura poetica; quel rosso vibrante su un campo verde, carte di giornali con scritte in varie lingue che si sovrappongono, si fondono; il tempo segnato da un personaggio popolare dei comics.                                                                                          Personalmente credo che il creatore di figure, il fabbricante di immagini lavori un po’ come Philip K. Dick immaginava lavorasse l’inventore di armi alla moda Mr. Lars, cioè entrando, in stato di trance, nella testa di qualcun altro che sta ideando, progettando cose di tutt’altra natura; nel caso specifico fumetti di fantascienza. Nel mondo delle immagini quest’idea della trance si può accostare a quella parola così abusata che è la cosiddetta ispirazione, la trovata, il colpo di genio. Tema spinoso ma non riconducibile al livello della spiegazione della pura tecnica. Qualcosa ha guidato la testa e la mano di Silverini nello scegliere e disegnare quel semplice oggetto a discrimine di tutti gli altri. E quel Mickey Mouse è si inquietante ma non per il saluto nazista, che con quel guantone, va detto, potrebbe essere scambiato più facilmente per un gesto che vuole intercettare la palla  in una partita di baseball, ma per ben altro. E’ inquietante perché allude, anzi evidenzia, la più sofisticata macchina ideologica del mondo, quella degli USA. La svastica sul sole che vorrebbe essere romanzo ucronico5 e cioè che ci racconta come la storia sarebbe andata se… (o meglio come sarebbe potuta andare) introduce con questo gadget un primo elemento antiucronico e ci racconta come la storia è andata veramente e cioè che la presunta invasione dell’immaginario giapponese, i vari Mazinga, manga, anime e quant’altro che l’Occidente ha più volte lamentato negli ultimi decenni del Novecento, in realtà sono stati il prodotto della potente macchina mitologica americana. Come scrive Hiroki Azuma, studioso giapponese della postmodernità “se si considerano separatamente  il manga, l’anime o le riviste amatoriali, è possibile individuare un’influenza americana che inizia negli anni Trenta”.  Un’influenza che “interrotta temporaneamente durante il conflitto, è rinvigorita in un contesto diverso nel dopoguerra.”6 Ecco allora l’ucronia raccontarci come veramente si sono svolti i fatti della storia e che quel topolino possa anche alludere a un saluto nazista fa si che questa si sfaldi definitivamente nella rappresentazione molto realistica di un’America che sconfiggendo il nemico pare essersi trasformata essa stessa nel nemico, come Philip K. Dick temeva fosse realmente accaduto.
2 Intervista di Alessandro Conti in “Delos rivista di fantascienza”
3 Sulla differenza tra mondo plurimo e mondo univoco: Tobie Nathan e Isabelle Stengers, Medici e stregoni,  Bollati Boringhieri, Torino 1996 pag. 24-5
5 “La letteratura ucronica è un insieme di opere narrative costruite intorno a un’ipotesi retrospettiva e alternativa allo svolgimento consolidato di un fatto storico.” Emiliano Marra, Il caso della letteratura ucronica italiana. Ucronia e propaganda nella narrativa italiana”, Between, IV.7 (2014), http://www.Between-Journal.it/

6 Hiroki Azuma, Generazione Otaku, Jaca Book, Milano 2010 pag. 57

La prossima copertina "Redenzione immorale" venerdì 9 gennaio 2015

giovedì 11 dicembre 2014

Armi


“Un mondo dove coloro che hanno cervello progettano le armi, e quelli senza cervello le usano.” COLAZIONE AL CREPUSCOLO racconto (1963).

Il Lanciapiselli Polyphemus x-b, il distributore metabolico invertito, la pistola buffa, il gestalt macher (una invenzione  tedesca che oltre ad uccidere la vittima predestinata, lascia false tracce una pista indiziaria  per accusare una determinata persona) in LA PENULTIMA VERITA’ (1964). I missili cefalotropici in MANZOGNE S.P.A. (1963). Le armi creatrici di illusioni in LA CONQUISTA DI GANIMEDE (1964-6). La grande bomba in DEUS IRAE (1964-75). La bomba capace di viaggiare oltre la velocità della luce nel racconto L’UOMO VARIABILE (1953). La pistola controevolutiva, la pistola a cancellazione psichica, la pattumiera esplosiva, la superpuzza di pecora, il distorcitore d’informazione civica, l’invertitore di fase a contrazione molecolare, i satelliti Giuda Iscariota IV e Giuliano l’apostata mod. VI, sono le armi alla moda che il progettista medium del blocco ovest Lars, in stato di trance, ha inconsapevolmente rubato dalla mente di un disegnatore di fumetti di fantascienza in MR. LARS SOGNATORE D’ARMI (1964).  “E i cittadini comuni andranno a letto felici, nella consapevolezza che le loro vite e quelle dei loro bambini sono ben protette dal martello di Thor contro il Nemico.”

Allucinazione


L’allucinazione è una frattura, un varco che fa intravedere la vera realtà o è un modo per mascherarla, per occultarla più efficacemente?

NOI MARZIANI (1962) Jack Bohlen, l'idraulico schizofrenico, protagonista del romanzo vede d’improvviso il suo capo diventare trasparente e rivelare al suo interno gli organi “rimpiazzati da pezzi artificiali: rene, cuore, polmoni… ogni cosa era fatta di plastica e di acciaio inossidabile, e il tutto funzionava all’unisono, ma senza vita autentica.” L’allucinazione è come “una specie di visione, un’apparizione fugace della realtà assoluta”.  Ma può essere esattamente l’opposto. In LA FEDE NEI NOSTRI PADRI (racconto 1967) proprio le allucinazioni sono garanzia di occultamento della vera realtà e le sostanze antiallucinogene che Chien, il protagonista del racconto, ha assunto, gli causano il crollo dell’allucinazione collettiva in cambio di un ventaglio di realtà plurime: “Un’allucinazione – disse Chien – è misericordiosa. Vorrei averne una. Rivorrei la mia.”

domenica 7 dicembre 2014

Robot


I robot avranno infine cura di noi? Come scriveva Samuel Butler alla fine dell’Ottocento in Erewhon “c’è motivo di credere che le macchine ci tratteranno con bontà, perché la loro esistenza dipenderà in larga misura dalla nostra. Ci governeranno con severità, ma non ci mangeranno.” Nel racconto del 1953 I DIFENSORI DELLA TERRA Dick immagina che gli abitanti della terra, durante la guerra nucleare, si siano rifugiati nelle viscere del pianeta e abbiano lasciato in superficie solo i robot a combattere quella guerra che devastava tutto e sembra ma non volesse mai finire. Ma in realtà i robot, più giudiziosi de4gli umani, l’aveva già fatta finire e ingannavano quest’ultimi facendo credere loro il contrario. La stessa trama sarà alla base del romanzo LA PENULTIMA VERITA’ (1964), così come le città con i robot che sostituiscono i loro abitanti in tutte le funzioni necessarie si ritroverà anche nel romanzo I GIOCATORI DI TITANO (1963). Altri robot che sopperiscono alla responsabilità e fatica del lavoro si trovano nei primissimi racconti, come L’UOMO VARIABILE e IL MONDO IN UNA BOLLA, entrambi del 1953. In pochi casi i robot rappresentano una vera e propria minaccia, nel 1954 abbiamo i racconti IL MONDO DI JON e soprattutto JAMES P. CROWN  in cui riescono addirittura a prendere il sopravvento e a rendere servi (anche se non proprio schiavi) gli umani. Ma sostanzialmente il robot non è un essere pericoloso, “E’ interessante che io mi fidi di un robot e non di un androide. Forse perché un robot non cerca di ingannarti sulla sua vera natura” scrive lo stesso Dick in una nota del 1978 al racconto L’ULTIMO DEI CAPI (1954) in cui in una terra regredita rimane in una sola città nascosta in una valle un robot detentore delle antiche conoscenze, “Lui manteneva vivo un mondo razionale, evoluto. Un’oasi di produttività in un deserto di decadenza e silenzio”; ma oramai purtroppo era vecchio e arrugginito. Un ruolo importante assolto dai robot è l’insegnamento come avviene nella colonia di Marte, NOI MARZIANI (1962) in cui gli insegnanti sono meccanici e si chiamano: Aristotele, Sir Francis Drake, Abramo Lincoln, Giulio Cesare, Wiston Churchill, Thomas Edison, Whitlock, Babbo benevolo, Mark Twain, l’Imperatore Tiberio, Immanuel Kant, Filippo II di Spagna e infine il bidello iracondo. Ma è un ruolo difficile e non privo di inconvenienti, nel racconto PROGENIE (1954) l’educazione dei bambini è affidata fin dalla nascita ai robot ma alla fine i bambini trovano che i loro genitori emanino un odore particolare, forse l’odore sgradevole dell’essere vivi. Ogni tanto si incontrano anche robot coscienti della loro condizione, diciamo non proprio felice, come nel racconto UN REGALO PER PAT (1954) in cui il protagonista chiede al robot che conduce il taxi: “_possono essere licenziati i robot?_  _A volte. (…) Però consideri che i robot vengono frequentemente smantellati, fusi, e dai loro resti vengono fatti nuovi robot. Ripensi al Peer Gynt di Ibsen, alla scena del Foggiatore di Bottoni. Quel passaggio anticipa chiaramente in forma simbolica il trauma dei futuri robot.” Ma bisogna arrivare al 1967 col romanzo GUARITORE GALATTICO per trovare un robot cosciente della propria natura artificiale e che in un qualche modo ne reclama il diritto d’esistenza; all’affermazione del riparatore di vasi Joe Fernwright “Visto che sei un robot, non capisco perché tu sia coinvolto emotivamente in questa faccenda. Tu non hai vita.” Il robot Willis controbatte che “Nessuna struttura, nemmeno una artificiale, gradisce il processo entropico. E’ il destino ultimo di ogni cosa, e ogni cosa vi si oppone.”

venerdì 5 dicembre 2014

Antonello Silverini: Menzogne S.P.A.


Un mondo, una navicella, una sfera che si apre lungo la circonferenza mediante un congegno meccanico. La sua apertura rilascia una nuvola di orologi, vecchie cipolle prive di quelle catenelle che le vincolano in un qualche posto, di solito nel taschino di un provvidenziale panciotto. La navicella terrestre a forma di sferoide, a tale improbabile veicolo di terra la identificano le ruote sottostanti, ha la parte superiore spalancata come una bocca che assume le sembianze di una testa che a partire dal naso arriva a un cucuzzolo perfettamente glabro. Facile allusione alla colonia utopica che nel romanzo si chiama appunto Bocca di Balena. Come tutte le balene che si rispettino al suo interno cova il suo piccolo Giona, un piccolo ometto con berretto a forma di coppola e un binocolo in mano con cui scruta… e qui è lecito chiedersi cosa mai possa scrutare , quale orizzonte mai possa vedere, dato che la direzione della sua attenta indagine è rivolta alla parte interna della faccia/coperchio. Questo piccolo Giona, rappresentante ideale dei tanti piccoli eroi dickiani, è fissato, forse non solo nel senso di ostinato, a cercare una direzione dove non c’è direzione, nessun orizzonte ma solo uno spazio curvo, concavo in cui ogni tentativo di trovare una strada scivola via, come quegli orologi, quegli atomi di tempo che ruotando schizzano via in tutte, o meglio nessuna direzione. In uno spazio universo terrigno, marrone, ocra, giallo spento, grigio, grigio cenere, questo viaggiatore, deciso a non cedere, a non arrendersi, interroga, si interroga su quale via e la bocca di balena gli risponde: chiedi, chiedi ancora, prova, prova un’altra volta.

Venerdì 12 dicembre la copertina di "Dottor futuro"