venerdì 27 febbraio 2015

Antonello Silverini: Noi Marziani


“Una creatura vivente, un vecchio, solo dal petto in su, il resto era un groviglio di pompe, tubi e quadranti, un macchinario incessante attivo che ticchettava.” E’ Manfred, il bambino autistico nella sua “apparizione finale come uomo-macchina, fatto di carne e metallo” (Pagetti). Una visione insostenibile che provoca la fuga della madre nella notte marziana. Tutti ingredienti per un’immagine forte, con tutte le possibili commistioni da incubo incarnato a cui la moderna cinematografia fantascientifica ci ha abbondantemente assuefatto. La soluzione di Silverini scarta il facile immaginario cyborg-horror, pur privilegiando il tema corpo-macchina, presentandoci il Manfred bambino seduto su una antiquata sedia da barbiere in uno stile che evoca le figure infantili di Norman Rockwell e il macchinario accozzaglia di ingranaggi, pompe, fili, un obsoleta macchina da scrivere e altro non meglio identificato collegato a un grosso orologio. Nell’insieme, guardando a occhi socchiusi, sembra configurarsi una mappa, una sorta di carta con una bussola posata su di essa. La carta di un pianeta, Marte, con i suoi canali, alcune macchie scure che potrebbero essere agglomerati urbani, un immenso deserto che circonda il tutto, una landa grumosa, lattiginosa, piena di asperità e screpolature con ai bordi il disegno di una creatura fantastica, come d’uso nelle antiche mappe, sconosciuta e più aliena nella sua glaciale normalità di un qualunque altro mostro con ali e artigli. Ma rispalancando gli occhi e ricominciamo a immaginare che il bimbo non sia Manfred ma un bambino qualunque della scuola marziana e il mucchio di ferraglia i vari robot-maestri ridotti a informe poltiglia. Ma se poi ancora volessimo soddisfare il nostro innato bisogno di senso potremmo vedere noi stessi in quel bambino, intenti nel laborioso e interminabile tentativo di arginare l’entropia ricostruendo forme disponibili a nuove utilizzazioni. E’ un gioco che potrebbe continuare a lungo e che potremmo definire, parafrasando Jung, di ‘immaginazione attiva’1 e che se tanto si adatta all’opera di Dick, altrettanto vale per l’immaginario figurativo di Silverini.

1 La tecnica di immaginazione attiva è stata esplicitamente citata in Le tre stimmate di Palmer Eldritch “active immagination” tradotta nella nuova edizione di Fanucci con “immaginazione vivace”, una svista che evidenzia la scarsa considerazione dell’influsso junghiano sull’opera di Dick presente in gran parte della critica italiana.


Venerdì 6 marzo: Antonello Silverini – Labirinto di morte

martedì 24 febbraio 2015

Arte


Nel romanzo DEUS IRAE (1964-75) scritto in collaborazione con Roger Zelazny, c’è un dialogo tra il pittore focomelico Tibor Mc Master, incaricato dalla Chiesa dei Servi dell’Ira di cercare il loro Dio  per fargli il ritratto e Pete Sands, seguace della chiesa concorrente (la cristiana, divenuta minoritaria), in cui quest’ultimo parlando dei quadri del pittore americano Wyeth1 spiega perché questi gli siano sembrati eccezionalmente reali. “- Reali in che senso? - - Mostravano le cose come sono veramente. – “  Tibor non può trattenersi dal ridere e spiega a Pete che: “C’è un numero infinito di modi per mostrare come sono veramente le cose. E vanno tutti bene. Eppure ogni artista lo fa in un modo diverso. Un po’ conta quello che decidi di porre in risalto, un po’ come lo fai. Si capisce subito che tu non hai mai dipinto.”  Ma in questo modo ribatte Pete “se… quando troveremo Lufteufel, come farai a eseguire onestamente la commissione, se c’è un numero infinito di modi per farlo? Quando si mette in risalto una cosa, lo si fa a spese di un’altra. Come realizzerai un vero ritratto in questo modo? –“  E alla risposta di Tibor che ai tanti modi per farlo uno solo risulta il migliore, il perplesso Pete incalza: “- E come puoi sapere qual è? – (…) – Tibor tacque a lungo. Poi: - Ecco, - disse. – Tu fai… e senti che è… giusto. - - Non capisco ancora. – Tibor tacque  di nuovo. – Neppure io, - disse finalmente.”  L’arte rimane un mistero. Per il giapponese Tagomi LA SVASTICA SUL SOLE (1961) è la trasformazione di una cosa morta che diventa viva: “questo è il lavoro dell’artista; prende la roccia minerale della terra silenziosa e scura, la trasforma in una forma celestiale che splende e riflette la luce. Ha portato i morti alla vita. Un cadavere trasformato in qualcosa di fiammeggiante; il passato ha ceduto al futuro.” Ma occorre stare attenti a non porre l’arte al di sopra di tutto, in una sorta di autoreferenzialità che la priverebbe di qualunque valore significativo. “Per quanto riguarda poi le – inestimabili opere d’arte – non ne era troppo certo, perché non sapeva esattamente che cosa volesse dire l’espressione. A My Lai durante la guerra del Viet-Nam, quattrocentocinquanta inestimabili opere d’arte erano state vandalizzate a morte agli ordini della CIA – inestimabili opere d’arte, più buoi e polli e altri animali mai elencati. Quando pensava a queste cose il suo umore si faceva sempre po’ cupo e diventava irragionevole se si parlava di dipinti tenuti in musei e cose del genere.” UN OSCURO SCRUTARE (1973)

1 I  Wyeth sono una famiglia di artisti, N. C. Wyeth, suo figlio Andrew e il figlio di quest’ultimo James. Dalla descrizione dei dipinti si capisce che Dick si riferisce a Andrew Wyeth.

venerdì 20 febbraio 2015

Antonello Silverini: Cronache del dopobomba


Un ratto astuto e feroce sopra una lattina di olio per motori; la coda come una frusta taglia orizzontalmente l’intero campo dell’immagine. Sullo sfondo rossastro, in evanescenza, tubature e valvole. Il tema della mutazione genetica è colto qui nel suo aspetto più inquietante, quella di un topo dalla testa scheletrica ma dall’aspetto ben vivo, vibrante, come nell’attesa di ghermire una preda. Per capire Dick, come molto giustamente osserva Antonio Gnoli nella postfazione, prima ancora che interpretazione occorre complicità. Ed è complicità quella che mette in atto Silverini nella realizzazione delle sue copertine. Qui la complicità è sottile, sa quasi dell’astuzia del ratto. L’olocausto atomico è tra i temi più battuti, e anche tra i più triti, della narrativa fantascientifica; Dick lo incornicia in un paesaggio rurale, in una “visione pastorale” (Pagetti) in cui l’eccezionalità della catastrofe, per citare ancora Gnoli, non è tale rispetto alla normalità bensì “abita nella normalità”. Silverini si rende complice, ascolta il lucido delirio dell’autore, ne vede il responso finale, che è terribile e senza scampo. La fine del mondo è sempre presente nell’umanità come crisi che impone una scelta; una morte e una rinascita. Ma l’olocausto nucleare è una scelta che non prevede ricominciamento, qui la fine del mondo è definitiva e l’astronauta Dangerfield, costretto a girare all’infinito intorno a una terra devastata, manda il suo ultimo messaggio-discorso a nessuno, nessuno riesce ad ascoltarlo perché la verità è che nessuno è rimasto per ascoltarlo. Anzi, no qualcuno è rimasto, quel topo famelico che Silverini pone là nel sottosuolo cosparso di tubature, reti fognarie, dove rimangono inutili resti che ricordano un ben più feroce predatore che non ebbe pietà neanche per i suoi simili. “Cronache del dopobomba getta nello sgomento, disorienta e suscita ammirazione” (Gnoli).

Venerdì 27 febbraio: Antonello Silverini Noi marziani

Karel Thole: Cronache del dopobomba


Su uno scenario apocalittico di edifici distrutti si staglia la figura di un uomo in abito grigio che inforca una specie di bicicletta composta da vari pezzi riciclati. La figura è composta, dignitosa, stridono in lui unicamente quelle scarpe bianche poco in tono con l’abito signorile, così come stride dell’improbabile velocifero la ruota anteriore a forma di rullo, anch’essa rigorosamente bianca. Bianche sono anche le nuvole nel cielo azzurro e bianco infine il colletto della camicia da cui spunta la testa glabra dell’austero superstite di quel mondo del dopobomba di cui il romanzo di Dick vuole narrare le cronache. Insomma siamo già alla ricostruzione e alla dignità di una nuova impresa dell’umano reagire alle disavventure della vita, anche se queste disavventure coinvolgono l’umanità intera e hanno la cifra di un disastro di proporzioni bibliche. Di fatto sembra la speranza a prevalere, anche se…, anche se il diabolico Thole semina qui e là piccoli indizi che provano a inquinare questo quadretto di speranzosa umana ripresa. Non tanto le ovvie rovine, che da quelle necessariamente si deve ripartire, quanto quel colore violaceo delle montagne in lontananza oltre il ponte, oltre il Golden Gate, anch’esso distrutto, anch’esso violaceo; di quel colore alieno, da camera oscura che vieta l’ingresso del sole. E quella ruota, quel piccolo rullo posto d’innanzi piuttosto che dietro, atto più che a rallentare a intralciare, ad alludere a un’idea più distruttiva che costruttiva. Ma alla fine ancor di più quei piccoli tocchi di bianco, innaturali, spettrali e fuori posto quanto quella faccia impassibile, imperturbabile e imperturbata dal disastro che pur circondandolo sembra non riguardarlo.

martedì 17 febbraio 2015

Ateo


“Che valore avrebbe la virtù senza il peccato? Ecco il guaio di voi atei: non afferrate la meccanica del male.”  L’ateo e pure sospetto “Rosso” Jack Hamilton, ingegnere elettronico protagonista del romanzo L’OCCHIO NEL CIELO (1955) non può non sentire come opportunista una fede religiosa che basa la salvezza sulla necessità del peccato. E’ più una censura morale, una critica a una religiosità bacchettona che una dichiarata mancanza di fede. Come ugualmente per Kevin, ad esempio, che è tra il gruppo di amici protagonisti di VALIS (1978) “quello che possiede meno irrazionalità, e, quel che più conta, più fede.”  Fede e razionalità non distinguono il credente dall’ateo, in qualche modo siamo tutti costretti a credere in qualcosa. Ma verrà infine un’epoca in cui incontrare un ateo sarà faccenda piuttosto strana, un epoca in cui avremo “prove concrete dell’esistenza di Dio” come nel pianeta in cui il libro di J. Specktowsky svela tutto quel che è necessario sapere del Demiurgo. Un Demiurgo però che risulterà infine essere nient’altro che il prodotto dell’intelligenza artificiale del computer di un’astronave alla deriva. Oppure no? LABIRINTO DI MORTE (1968).

venerdì 13 febbraio 2015

Antonello Silverini: Vulcano 3



Un piano orizzontale divide in due la copertina di Vulcano 3, uno dei più bistrattati romanzi di Dick, tanto dalla critica che dall’autore stesso. Una delle opere  in cui la matrice fantascientifica tout court si fa sentire di più e in modo decisamente grossolano. Ma per contro, come giustamente fa notare Carlo Pagetti nell’introduzione, il clima paranoico del sospetto ne pervade tutta la struttura narrativa. Un climax che sottende e sostiene tutta la struttura traballante e cialtronesca di quella “serie di episodi bellici talvolta confusi, a metà strada tra la space opera e l’assalto a una roccaforte giapponese del Pacifico”. D'altronde l’intera opera di Dick è composta di tasselli, da quelli più piccoli e apparentemente semplici o ingenui come questo, a quelli più vasti, complessi o addirittura abnormi come l’Esegesi. La copertina di Silverini premia la semplicità esaltandone la varietà dei contenuti. E’ ricca di cose, di situazioni, di eventi. Ed è divisa, come dicevamo, in due parti: una di sotto e una di sopra. Se la guardiamo d’impatto, nel suo insieme ci parla di un mondo in cui succedono tante cose e di un’entità che domina, sovrasta questo mondo. Viene l’idea di una mente che fa succedere le cose, le coordina, le determina. Ma se proviamo a fare un giochetto, che ogni tanto si fa con le immagini, cioè ne copriamo con la mano una parte per evidenziarne l’altra e nel siffatto caso ovviamente copriamo alternativamente una delle metà, scopriamo una cosa interessante. Che se copriamo la parte inferiore la parte superiore mantiene il senso degli avvenimenti descritti mentre al contrario la sola parte inferiore non significa niente. Quasi a volerci dire che tutto si trova in superficie, tutto ciò che ha significato si trova già in superficie. Giù si dovrebbe trovare il “computer Vulcano 3, le sue fondamenta si spingono fino alle viscere della Terra – come fossero grandi radici artificiali – tanto che nessuno riesce ad avere una vista complessiva del mostro.” Del resto la profondità, come ben scriveva Walter Benjamin “è una dimensione a sé, per l’appunto profondità, dove niente viene alla luce.”1 Silverini ci rappresenta questa oscurità mostrandocela nella sua palese insignificanza. E’ una delle più belle rappresentazioni dell’opera di Dick. Del suo senso più vero, mi verrebbe da dire autentico se non fosse palesemente un termine così poco confacente a Dick stesso. Le cose degli uomini, le loro azioni, il ,loro destino in ultima analisi, che sembrano motivate da ragioni e forze fuori dalla loro storia concreta e dalle loro pratiche, in realtà ricadono solo su di loro. La loro storia e la responsabilità di questa ricade su di loro e su di loro soltanto.

1 Walter Benjamin, Avanguardia e rivoluzione, Torino, Einaudi 1973 pag. 222


Venerdì 20 febbraio due articoli: Cronache del dopobomba di Karel Thole e di Antonello Silverini

martedì 10 febbraio 2015

Autofac


Come comunicare a una macchina che non vuoi un determinato prodotto o segnalare un particolare difetto se in realtà l’unica cosa che vuoi è che essa cessi di produrre e cioè di esistere? L’autofac è la rete mondiale di fabbriche automatiche costruita durante il Conflitto Totale, resa completamente automatizzata e indipendente dal controllo dell’uomo, una volta finito il conflitto continua a produrre senza sosta beni di consumo divorando quantità sempre maggiori di risorse naturali. Il tentativo di riconquistare il controllo della macchina fallisce scontrandosi con l’impermeabilità di un sistema che per sua natura non ammette alternative alle risposte prestabilite alla voce: “dichiarare la natura del difetto del prodotto” dell’apposito questionario. Al Si-No, 0-1, l’Istituto di Cibernetica Applicata (anch’esso completamente autonomo) che controlla la rete, non ammette alcuna alternativa. La macchina non può essere usata a piacere, la sua costruzione determina a priori il suo uso. Agli umani non resta che tentare di disarticolarla mettendo le varie parti che la compongono in conflitto reciproco, sperando così di incepparne il meccanismo. Ma, almeno nel racconto edito nel ’55 AUTOFAC,sembra essere troppo tardi, la cieca lotta contro l’entropia “che la fabbrica ha sempre odiato, e per combattere la quale era stata costruita” continua nella sua folle corsa fino all’ultima goccia di energia, verso il consumo ultimo e definitivo del mondo stesso. Del resto che l’autofac sia farina del demonio lo testimonia anche il romanzo LE TRE STIMMATE DI PALMER ELDRITCH (1964): “Palmer Eldritch era un individuo pazzo e sorprendente, solitario, che sfuggiva a tutti gli schemi; aveva realizzato dei miracoli veri e propri nell’iniziare la produzione delle fabbriche automatiche, le autofac, sui pianeti coloniali, ma… come sempre era andato troppo oltre, i suoi progetti erano stati troppo complessi ed elaborati. Montagne di beni di consumo si erano accumulate in luoghi impossibili, dove non esistevano coloni in grado di servirsene. Ed erano diventate montagne di immondizia, corrose dal tempo, lentamente e inesorabilmente.”  Farina che per l’appunto si trasforma in crusca. E’ ancora nel mondo del dopobomba di DEUS IRAE  il romanzo scritto in collaborazione con Roger Zelazny, tra il 1964 e il 1975, che l’autofac sopravvive stancamente. Davanti a uno di questi, il pittore senza braccia e gambe Tibor fa delle considerazioni sul rapporto tra l’uomo e la macchina e ha uno scatto d’orgoglio: ”Quanti riti verbali  circondavano l’evocazione dell’intelligenza di quella macchina costruita dagli umani in tempo di guerra? Evidentemente moltissimi. (…) io ho bisogno del suo aiuto, ma non mi prostrerò per supplicarlo di installare cuscinetti a sfera nuovi nel mio carretto. Non ne vale la pena. –Al diavolo, pensò. Sono queste le entità che hanno annientato la mia razza: sono state loro a rovinarci.” E comunque gli autofac sono ormai inefficaci, non più in grado di soddisfare le esigenze del cliente. L’umanità dovrà trovare altrove la propria salvezza cessando di essere un cliente che si serve della natura come di un supermercato che elargisce prodotti all’infinito.

venerdì 6 febbraio 2015

Antonello Silverini: Radio libera Albemuth



Una vasca per pesci “piena d’acqua stagnante e melmosa” immersa in un’acqua stagnante e melmosa; che poi sia quest’ultima contenuta a sua volta in un’altra vasca di dimensioni maggiori non è dato sapere, ma potrebbe darsi se ce la si immagina fuori dai bordi della copertina. La piccola vasca che dall’aspetto potrebbe somigliare a una lampadina rivolta all’insù e con i filamenti elettrici issati all’esterno, a mo’ di antennine, è fissata su di una vecchia radio di epoca incerta.  Al suo interno, in quella specie di brodo primordiale “si potevano scorgere i piccoli crostacei simili a granchi adagiati sulla fanghiglia del fondo”. Radio libera Albemuth, romanzo antesignano di Valis, l’entità artificiale acronimo di Vast Active Living Intelligence Sistem che aprirà la trilogia ‘teologica’ di Dick contrappone al mistico satellite la ben più misera anticaglia tecnologica, la radio a transistor. La copertina di Silverini esaspera il tutto, la pesantezza della futura tecnologia riverbera nello scenario di un futuro arcaico in cui le forme intelligenti prossime venture, simili a granchi un po’ bolliti, cercheranno di guardare quel mondo che, fino a poco tempo prima, ancora credevano fatto a posta per loro.

Venerdì 13 febbraio la copertina di Antonello Silverini: Vulcano 3

martedì 3 febbraio 2015

Artigiano


“Erano tutte persone che possedevano capacità manuali e nessuna competenza intellettuale. Le loro qualità si erano affinate in anni di tentativi e di lavoro, attraverso il contatto diretto con gli oggetti che producevano. Questa gente era in grado di far crescere piante, riparare le perdite delle tubature, utilizzare macchinari, confezionare abiti, cucinare il cibo. Secondo il Sistema della Classificazione erano tutti dei falliti.”  LOTTERIA SPAZIALE (1953-4).  Le capacità manuali non vengono considerate se non nei pianeti da colonizzare o sulla terra del dopobomba, dove l’estremo impoverimento delle risorse rende preziose proprio quelle capacità di utilizzare al meglio quel che si ha. “Chi sa aggiustare le cose è in possesso del valore supremo.” CRONACHE DEL DOPOBOMBA (1963).  Addirittura essere capo del sindacato degli idraulici può portare ai vertici del potere, come nelle colonie marziane, NOI MARZIANI (1962). Ma là dove  il mondo dell’illimitata produzione delle merci non ha subito alcun drastico ridimensionamento, il sapere artigiano continua a non godere di una particolare considerazione. Anzi forse rappresenta una sorta di resistenza antagonista. Nel finale di uno degli ultimi romanzi RADIO LIBERA ALBEMUTH (1976), insieme a Philip Dick condannato ai lavori forzati, c’è proprio un idraulico “che era stato arrestato per aver preparato e ciclostilato lui stesso dei volantini, una specie di rivolta di un uomo solo.”  Ed è proprio Dick in veste di protagonista a descriverlo come “molto più coraggioso di noi: un idraulico che lavora da solo ad un ciclostile nella sua cantina, senza voci dal cielo che lo istruiscano e lo guidino, ma spinto soltanto dal suo cuore umano.”  Una fede tutta terrena, una fede nelle proprie capacità umane, come quella che impedisce al riparatore di vasi Joe Fernwright (in un mondo in cui non ci sono più vasi da riparare) di accettare la proposta di un dio alieno di fondersi con lui, per tentare invece di costruire lui stesso dei vasi. Il primo che riesce a fare è ovviamente orribile. Ma è il suo vaso. GUARITORE GALATTICO (1967). E anche la vasaia Mary Anne Dominic in SCORRETE LACRIME, DISSE IL POLIZIOTTO (1970)  non si arrende alle lusinghe del divo televisivo che la vorrebbe nel suo programma di successo, come gli artigiani americani, sotto il tallone dell’occupante nipponico, in LA SVASTICA SUL SOLE (1961) non svenderanno le loro opere artigianali alla produzione industriale in serie.