martedì 31 marzo 2015

Bibbia


Non c’è verità più vera della verità rivelata e questa à depositata una volta per tutte nelle sacre scritture. E’ per questo che in DIVINA INVASIONE (1980) “la chiesa cristiano-islamica non permetteva la traduzione della Bibbia in un ologramma con un codice di colori. Con un po’ di pratica si imparava gradualmente a inclinare l’asse temporale, l’asse della vera profondità, finché diversi strati successivi non si trovavano sovrapposti e appariva un messaggio verticale, un nuovo messaggio. In questo modo, si entrava in comunicazione con la Scrittura, che diventava viva. Diventava un essere senziente che non era mai lo stesso. La chiesa cristiano-islamica, naturalmente, voleva Bibbia e Corano bloccati nell’immobilità per sempre. Se la scrittura le fosse sfuggita, la chiesa avrebbe visto svanire il suo monopolio.” Ma c’è anche chi aggira l’immobilità biblica usando il sacro libro come uno strumento di divinazione, “trovò una Bibbia di Gideon, - Potrei leggere questa – disse lei, sedendosi di nuovo. – Formulerò una domanda e poi l’aprirò a caso; si può usare la Bibbia in questo modo. Io lo faccio    sempre.–“ IN SENSO INVERSO (1965). Un uso certo un po’ spregiudicato, ma la cosa più sorprendente che ci rivela Dick sulla Bibbia riguarda la sua creazione. Nel racconto UN AUTORE IMPORTANTE (1954), ripreso e inserito nel romanzo SVEGLIATEVI DORMIENTI (1963), la Bibbia risulta essere l’invenzione di un riparatore di lampobolidi. Questi trovo, grazie a un difetto di uno di questi veicoli, un passaggio verso il passato della Terra e comunicando con gli abitanti (gli antichi israeliti) con un traduttore universale, produsse le storie narrate dalla Bibbia. O almeno questa è la leggenda che viene raccontata.

venerdì 27 marzo 2015

Antonello Silverini: L'occhio nel cielo


L’omino gobbo, il ferro di cavallo, la civetta, un cornetto, uno scarabeo e tanti altri simboli su altrettanti foglietti di carta attaccati all’interno di una giacca e sulla maglietta di un signore, un uomo dal volto oscurato dall’ombrello che tiene aperto per l’evenienza di un improvviso temporale. Prevenzione, prudenza, meticolosa assicurazione contro i possibili inconvenienti della vita. L’uomo si apre, evidenzia la sua natura fragile, paurosa nuda vita; il trance, soprabito che si spalanca è gesto di scandalo, già usato da Karel Thole per un altro romanzo dickiano, “Redenzione immorale”1 . Come per il sesso che il vecchio satiro mostra alle fanciulle che passeggiano indifese nei parchi, Silverini ci spiattella in faccia  qualcosa di altrettanto scandaloso, una miriade di simboli al servizio di colei che rende la nostra vita soggetta al dominio del puro caso, la fortuna. L’immagine è forte, atterrisce e attrae allo stesso tempo; appartiene a quel caravanserraglio delle immagini da circo, di illusionisti e ciarlatani di strada, pronti a venderci, con le loro chincaglierie, illusioni di felicità. Il mondo circostante è cupo, turbolento, macerato da tutte quelle utopie umane andate a male. Ma la cosa più inquietante è quella mano che tiene aperta la giacca e allunga il braccio in modo inverosimile. Anche la stoffa si allarga, ma al posto di nuovi oggetti, di nuove offerte simboliche, un buco. La stoffa si lacera, al troppo tirare, la realtà, infine scompare.

(qui) 

venerdì 3 aprile - Antonello Silverini: La penultima verità

lunedì 23 marzo 2015

Bambini


“Lotta lo interruppe, spaventata. –Sento qualcosa sul tetto.- -Uccelli che corrono- disse lui. –No, è più forte.- Timbane si mise in ascolto, e anche lui sentì quel rumore. Piccoli colpi sul tetto; qualcuno o qualcosa che strisciava. –Sono dei bambini.- -Perché?- chiese Lotta. Poi fissò la finestra. –Stanno guardando dentro.- Lui si girò di scatto. Vide un faccino schiacciato contro il vetro.  -Bambini- disse con voce aspra. –Vengono utilizzati dalla Biblioteca. Provengono dal Reparto Bambini.- Tirò fuori la pistola.” Ma è l’agente di polizia Timbane a rimanere ucciso nello scontro a fuoco con i bambini; ha esitato troppo, si è chiesto: “Posso uccidere un bambino?1 Ma deve comunque tornare nell’utero; gli rimane poco tempo.” Nel mondo di IN SENSO INVERSO (1965) le cose vanno alla rovescia e gli esseri umani subiscono la sindrome di Peter Pan in modo totale regredendo fino a tornare in un utero disposto ad accoglierli. In MINIBATTAGLIA racconto del 1952, piccoli soldatini meccanici venduti come giocattoli sono in realtà esseri intelligenti che si prefiggono di sconfiggere gli esseri umani servendosi dei bambini. LA SIGNORA DEI BISCOTTI  (racconto 1953) è un racconto in cui l’insidia proviene da una vecchia signora che offre biscotti a un bambino. Ad ogni incontro lei ringiovanisce mentre lui deperisce. Al ritorno dall’ultimo incontro, davanti alla porta di casa, di lui rimane solo un ammasso di erbacce e straccetti che il vento fa rotolare via. In NUVOLE MARZIANE (racconto 1954), in cui si incontrano quelle spore aliene che poi compariranno anche nel romanzo “E Jones creò il mondo”, un bambino dall’animo poco sensibile (non è ancora il tempo di E.T.) davanti alla comunicazione telepatica del pacifico “cimicione” corre ad avvertire il poliziotto che provvederà a distruggerlo.  Ancora alieni  in LA COSA PADRE (racconto 1954), una storia tipo “invasione degli ultracorpi” ma con i bambini protagonisti e vincitori. La cosa-padre verrà distrutta. In PROGENIE (racconto 1954) e NANNY (racconto 1955) i bambini vengono educati dai robot  con conseguenze disastrose per i genitori. E’ del 1975 il racconto PRE-PERSONE che costò a Dick una lettera di invettive da parte della scrittrice di fantascienza Joanna Russ per la sua posizione sull’aborto. I bambini fino all’età di dodici anni possono essere ancora “ritirati” se i genitori non sono soddisfatti di loro. Ma è in tre romanzi che il ruolo dei bambini gioca la parte più importante. In NOI MARZIANI (1962) sarà un bambino autistico a sventare le mire di uno speculatore privo di scrupoli, facendolo precipitare in un mondo di solitudine, il non-mondo autistico, che farà da specchio al vuoto mondo dell’affarista, uccidendolo. In CRONACHE DEL DOPOBOMBA (1963) abbiamo una bambina, Edie, col piccolo fratellino Bill, che vive dento di lei. Saranno loro a salvare la Terra da Hoppy, un focomelico dotato di poteri straordinari e terribili. E infine in LA CITTA’ SOSTITUITA (1953) un bambino di nome Peter à nientemeno che il dio Ahriman, divinità malvagia della religione mazdeista, e la ragazzina Mary è Armaiti, la figlia di Ormazd, il dio creatore che si oppone a Ahriman. Da questo che è il primo romanzo di Dick si può, idealmente, arrivare agli ultimi romanzi della trilogia di Valis. In DIVINA INVASIONE (1980) il ragazzino Emmanuel, guarendo dalla propria amnesia, scopre che, lui e la propria compagna di scuola Zina, sono in realtà il maschile e il femminile della divinità che finalmente può ritrovarsi e congiungersi.                                                                                               

giovedì 19 marzo 2015

Antonello Silverini: Deus Irae


Figura ieratica l’Ofelia che ci propone Silverini per il Deus Irae di Dick e Zelazny. Opera ghiotta di teologia postmillenaristica; è ancora possibile un credo religioso dopo la fine del mondo? Le motivazioni per la scelta di questo personaggio femminile sono raccontate dallo stesso Silverini in una sua intervista1 “questa tavola è il frutto di una suggestione. Nella prefazione di Carlo Pagetti si parla di –(…) parodia in chiave postmoderna di Alice in Wonderland- e ancora nella quarta di copertina troviamo –Ed eccola che arriva, i capelli fulvi e l’ossatura talmente sottile da fargli sempre credere che potesse spiccare il volo…- Questa donna è (cito ancora Pagetti) -…Lurine Rae, la ragazza dai capelli rossi che assomiglia a una strega, L’Ofelia del mondo postapocalittico abbandonata da quell’improbabile Amleto che è Pete-. Trovarmi di fronte a una possibilità immaginifica così varia, questa specie di antologia letteraria di citazioni e contaminazioni, è stata per me una tentazione irresistibile; quello che volevo che venisse fuori, quindi, era un’immagine poetica, evocativa, mi sono rifatto a un immaginario pittorico preraffaellita cercando di evitare un’estetica ‘fantasy’ che detesto profondamente.” Tanto basterebbe, ma forse possiamo aggiungere ancora qualcosa. Innanzitutto è questa un’Ofelia dickiana, cioè tutt’altro che remissiva, succube e condannata; sembra fatta piuttosto della stessa fredda enigmaticità del gatto del Cheshire che stringe tra le braccia e a cui pizzica con noncuranza un orecchio. Allo sguardo fisso e vitreo del gatto contrappone però uno sguardo altero, se non proprio sprezzante. L’abito scuro, sfumato, a cono, la definisce idolo, figura mitica di antichi poteri arcani, ma anche di antiche e accese passioni, come il rosso vivace della fluente chioma sembra confermare. Una chioma fiume, il fiume di Ofelia; ma anche qui un fiume non adatto a trasportare corpi di remissive e giovani fanciulle, quanto piuttosto, col suo turbinio vorticoso, il denso sangue della storia del mondo. Ed ecco, alla fine, tra due volute dei capelli comparire due occhi, deliranti; gli occhi folli del demiurgo creatore di un mondo senza senso e senza scopo. Silverini per contro, improvvisandosi a sua volta nel ruolo di demiurgo, cerca di ridare forma e quindi senso al riproporsi incessante di queste vecchie, consunte ma pur sempre tragiche, storie.


Venerdì 27 marzo: Antonello Silverini - L'occhio nel cielo

martedì 17 marzo 2015

Androidi


“- Allora, chi è? – Nessuno. E’ un androide.” ILLUSIONE DI POTERE (1963).

In una nota del 1978 a un racconto scritto nel 1953 L’ULTIMO DEI CAPI Philip Dick osserva che: “E’ interessante che io mi fidi di un robot e non di un androide. Forse perché un robot non cerca di ingannarti sulla sua vera natura.” Un inganno che può risultare fatale per gli esseri umani come succede nei racconti IMPOSTORE (1953) (un androide bomba, terrificante anticipazione dei moderni terroristi kamikaze) e AL SERVIZIO DEL PADRONE (1956) in cui un ingenuo essere umano aiuta un infido androide che lo inganna e sarà causa della sua crudele morte. L’androide è l’impostore, colui che vuole soppiantarci, sostituirsi a noi, così come per Kleo, l’androide è l’amante del marito Nick Appleton “Lei è soltanto un muro coperto di trucco, come un robot o qualcosa del genere, dipinto in modo da sembrare umano. – Un androide – disse lui.” NOSTRI AMICI DA FROLIX 8 (1968-9). Ma fondamentalmente l’androide è un ibrido, un essere in bilico tra il naturale e l’artificiale. “Un androide è qualcosa che puzza – disse”  Eric Sweetscent, chirurgo specializzato in trapianti di organi “parafrasando T. S. Eliot” ILLUSIONE DI POTERE (1963). Ma sentire la puzza di un androide è più facile per un animale che per un essere umano. Lo sciacallo marziano, pur affamato, si guarda bene dal voler mangiare il precog Barney Mayerson, contaminato dalle stigmate artificiali di Palmer Eldritch. “- Sporco – pensò tra sé l’animale; si fermò a distanza di sicurezza e lo guardò spaventato, con la lingua a penzoloni. – Tu sei una cosa sporca – lo informò, deluso.” LE TRE STIMMATE DI PALMER ELDRITCH  (1964). Ma per gli esseri umani l’unico modo per individuare un androide è trovare il confine che li separa da essi. E’ vitale per l’umano determinare ciò che fa la differenza. Nel primo dei due romanzi aventi come argomento principale gli androidi, L’ANDROIDE ABRAMO LINCOLN (1962), l’androide è immediatamente riconoscibile, essendo costruito sull’immagine di antichi personaggi storici. In questo caso il presidente Lincoln, il suo assassino John Wilkes Booth e il suo Segretario di Guerra Edwin M. Stanton. Ma è un’evidenza che non rassicura nessuno. Il Lincoln artificiale non capisce perché lui non dovrebbe essere umano se nessuno è in grado di spiegargli “che cos’è un uomo?”  E alle certezze di un individuo che gli spiega come la differenza tra umano e artificiale sia costituita dal fatto che quest’ultimo non ha un’eredità biologica ma sia stato costruito da qualcuno, il Lincoln osserva allora che anche l’uomo è una macchina in quanto anche lui ha un creatore. Così come sosteneva Spinoza a proposito degli animali che sono macchine intelligenti, a questo punto forse il nodo critico è rappresentato dall’anima. “Una macchina può fare tutto quello che fa un uomo… lei è d’accordo. Ma non ha un’anima. – L’anima non esiste – replicò Barrows. – Sono tutte fandonie. – Allora, - riprese l’androide, - una macchina è la stessa cosa di un animale. – E continuò lentamente, con tono ironico e paziente: - E un animale è la stessa cosa di un uomo. Non è esatto?-“ Anche per Louis Rosen, socio della ditta che ha costruito gli androidi, c’è poco da essere rassicurati. In cura dallo psichiatra, gli confida di essere un androide. “Dopo aver detto al dottor Horstowski che ero un androide, non riuscivo a togliermi l’idea dalla testa. Un tempo c’era stato un vero Louis Rosen, ma adesso era sparito e io mi trovavo al suo posto, ingannando quasi tutti, compreso me stesso.” Ma la cosa inquietante sembra essere più che la loro sospetta non umanità, al contrario una eccedenza di questa. “Ancora una volta sperimentai la mia impressione: che sotto molti aspetti esso fosse più umano (che Iddio mi aiuti!) di Pris o di Maury, o perfino di me, Louis Rosen. Soltanto mio padre lo superava in dignità. Il dottor Horstowski, un’altra creatura solo parzialmente umana, scompariva accanto a questo simulacro elettronico.”  E quattro anni dopo il secondo romanzo MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? (1966) esemplifica in modo definitivo l’essenza ambigua di questa creatura artificiale. Il Test a cui debbono essere sottoposti gli androidi per poter essere ritirati (eliminati) non è propriamente sicuro. Infatti il Test della Scala Voigt-Kampff si basa sulla misurazione della capacità empatica, caratteristica degli esseri umani, e dato che la mancanza di questa accomuna gli androidi ad alcuni malati mentali, in particolare agli schizofrenici, la possibilità di errore è sempre presente. In quest’ultima apparizione della figura dell’androide nei romanzi di Dick, invece di precisarsi, si fa sempre più evanescente.

giovedì 12 marzo 2015

Antonello Silverini: Il trittico del gioco


Una sfida! Come si fa a parlare di un’immagine che è servita per illustrare tre copertine di tre diversi romanzi dickiani? Un’immagine sola concepita per tre diverse storie. Un’immagine unica da smembrare, da suddividere, da piegare a tre esigenze narrative che hanno solo vagamente come minimo comun denominatore il gioco. Il gioco è per “Lotteria spaziale” quel sistema di lotteria del potere su cui si basa l’elezione del Quizmaster, l’essere umano designato dalla sorte a governare il mondo. In “I giocatori di Titano” è il gioco d’azzardo che gli alieni padroni della Terra, i Vug, ectoplasmi abitanti di Titano, hanno insegnato ai terrestri resi sterili dalle radiazioni della guerra, per operare una specie di scambismo delle coppie e aumentare la possibile fertilità. E infine “Nostri amici di Frolix 8” in cui il gioco è rappresentato dal sistema usato per rendere possibile la scalata sociale ed è basato su una serie di test, che poi si riveleranno truccati. A prima vista, quella di Silverini, sembra una operazione al risparmio e forse, chissà, in parte può essere stata dettata da una possibile stanchezza, un bisogno di risparmiare energie nella lunga e laboriosa avventura di illustrare tutte le copertine di Dick. Certo è che se i tre romanzi in questione perdono il privilegio, che gli altri hanno avuto, di un’attenzione mirata, per contro il corpus dell’opera dickiana acquista una focalizzazione particolare su uno dei temi cardine che sottende l’intera filosofia della narrativa dickiana. Quella del caso, del fortuito, del gioco appunto.1 Se mai fosse necessario scegliere un’immagine per un ipotetico cofanetto contenente tutti i romanzi di Dick, questa sarebbe la cover più appropriata. “A Dio piace giocare”2 e Dick non perde occasione per ricordarcelo. Il tappeto magico che ospita il gioco dei monopoli con al centro un cerchio che sembra alludere alla roulette contiene tre personaggi, due specie di croupier e un signore di spalle seduto su una mazzetta di fiches  di carta. Ognuno di loro occupa una porzione di spazio che seguirà la naturale divisione per le tre copertine. Particolare curioso ma accattivante, l’uomo in alto, seduto su uno sgabello, a seguito del taglio sembrerà più un pescatore con la lenza che un croupier intento a raccattare i soldi con il suo rastrello. Un pescatore triste, alla Keaton, per la copertina di “I giocatori di Titano”. In piena conformità con l’idea del romanzo di una ricerca spasmodica di futuro, di un futuro che per questa umanità stanca e sfibrata si configura nella ricercatissima e improbabile capacità di procreare nuovi eredi alla razza umana. Attesa di una pesca tanto meravigliosa quanto inutile. Al centro invece si concentra il turbine del gioco vero e proprio, la necessità di aver fortuna. Il croupier ha il volto basso, intento nel suo lavoro rivela fattezze d’automa. E’ un gran gioco quello di “Lotteria spaziale” per un potere fine a se stesso, che più che di prevaricazione sa di morte; il gioco finale, l’ultimo. E infine l’omino pensieroso della porzione in basso, che servirà per “Nostri amici di Frolix 8”, probabilmente è assorto in un sogno, nell’inutile sogno di qualcuno che dall’esterno, da qualche parte lassù, ci venga a salvare.

2 Philip K. Dick, Divina invasione, 1980

Venerdì 20 marzo: Antonello Silverini - Deus Irae 

martedì 10 marzo 2015

Gioco


Nel racconto INVASIONE OCULARE del 1953 il protagonista leggendo un romanzo in cui si parla dell’invasione aliena della Terra rischia di lasciarsi suggestionare a tal punto da non distinguere più la finzione dalla realtà. Terrorizzato abbandona la lettura e trova la quiete unendosi alla moglie e ai figli nel gioco del Monopoli. Tutt’altro che rassicurante, nel racconto del 1955 YANCY, che servirà di base per il romanzo LA PENULTIMA VERITA’ (1964), il Kriegspiel “scacchi giocati su due scacchiere. Ogni giocatore ne ha una, coi suoi pezzi, ma non vede l’altra. C’è un arbitro che le vede entrambe, e avvisa ciascun giocatore quando un suo pezzo è stato mangiato, appena lui ne ha mangiato uno all’avversario, o si è mosso in una casella occupata, o ha fatto una mossa impossibile, o ha dato scacco, o è sotto scacco. (…) Ciascun giocatore deve dedurre lo schieramento avversario. Gioca alla cieca (…) I Prussiani insegnavano in questo modo la strategia si loro ufficiali. E più che un gioco è una specie di lotta libera su scala cosmica.” Ma anche il Monopoli può essere visto come un gioco pericoloso soprattutto nella variante aliena di Ganimede, nel racconto IL GIOCO DELLA GUERRA (1959), in cui vince chi perde e che ha il subdolo scopo di inculcare il desiderio della sconfitta da parte dei terrestri. Gli extraterrestri ci riprovano cercando di impiantare illegalmente delle case da gioco sulla Terra nel racconto PARTITA DI RITORNO del 1967. Insomma agli extraterrestri piace proprio giocare anche se non sempre con scopi maligni; i Vug, ad esempio, gli ectoplasmici abitanti di Titano, I GIOCATORI DI TITANO 1963, dopo aver sconfitto i terrestri insegnano loro un gioco d’azzardo per operare una specie di scambismo delle coppie e aumentare così la possibile fertilità di una popolazione resa sterile dalle radiazioni della guerra. E tra gli extraterrestri appassionati del gioco non può mancare quello più extraterrestre di tutti, come si evince dal romanzo del 1980 DIVINA INVASIONE anche “anche a Dio piace giocare”. E Dick non perde occasione per far giocare il più possibile i protagonisti dei suoi romanzi. In LOTTERIA SPAZIALE (1954) tutto il sistema di potere si regge sul gioco del Minimax, una specie di lotteria da cui si estrae il nome del signore assoluto della Terra, assoluto in tutto tranne che della sua vita minacciata, da quel momento in poi, da chiunque voglia assassinarlo per prendere il suo posto. Perfino nel mondo puritano di REDENZIONE IMMORALE (1955) si inventano “giochi di destrezza per le festicciole. Per tenere occupate le mani oziose” Ed è vitale per la sopravvivenza degli umani il gioco che la gazzetta di una piccola città pubblica quotidianamente; un concorso in cui occorre indovinare dove si recherà l’indomani l’omino verde. Il campione in carica da ben tre anni Reagle Gum cercando di indovinare permetterà a sua insaputa e grazie alle suo doti predittive di scoprire dove avrebbero bombardato i Lunatici il giorno successivo, IL TEMPO SI E’ SPEZZATO (1958). Ma ancora strategicamente importante è il gioco del labirinto in MR. LARS (1964), una vera e propria trappola empatica per eliminare persone politicamente pericolose. E infine, volendo proprio finire, quel gioco per eccellenza chiamato appunto il Gioco che Joe Fernwright, il riparatore di vasi di GUARITORE GALATTICO (1967) pensa come l’unica cosa destinata a rimanere in una vita priva di valore. Un gioco che si serve delle rete telefonica per instaurare una specie di gara a risolvere indovinelli basati sulla decodificazione di traduzioni di titoli di libri e film, fatti da computer che creano non-sense linguistici. Poca cosa si potrebbe dire, invece è il Gioco, ragazzi! E cioè è quella “capacità di trascorrere una vita gingillandosi con cose inutili, senza un lavoro degno di quel nome e, al suo posto, la parata del banale, del banale scelto volontariamente da noi, perché è su questo che abbiamo costruito il Gioco. Il contatto con gli altri… Sì, con il Gioco affondiamo un bisturi nel corpo dell’isolamento e lo spezziamo.” Tutto sommato solo un gioco, ma non molto diverso da quello in cui oggi ci troviamo virtualmente sempre più avvolti.

venerdì 6 marzo 2015

Antonello Silverini: Labirinto di morte


Un coniglio giallo alla Gromit con una grezza struttura corporea di plastilina. Il pupazzo, sdraiato su un letto di sabbia e crateri, si tira su con le zampe anteriori; osserva, un po’ stupito, con quella sua testa dalle enormi orecchie, gli oggetti appesi a un filo che si stagliano davanti a un cielo fondale rosato con stampigliato sopra un pianeta (la terra?) e un saturno con tanto di anelli. Alle cordicelle sono appesi una pistola giocattolo, alcune stelle e una sagoma di falce lunare. Un’immagine spaesante per uno dei romanzi più torbidi e cupi dell’intera produzione dickiana. Così spiazzante e terribile, che ci inchioda tutti, come quel simulacro animale, a osservare increduli un universo, un mondo, una realtà che sempre più ci appare fittizia, assurdamente falsa. Che ci si presenta sì come un gioco, come qualcosa che vuole allettarci, ma che alla fine ci rende cavie e, sempre più, cavie tragicamente consapevoli dell’inutilità del soffrire che questo ‘gioco’ alla fine ci procura. E’ una burla questa di Silverini che gioca a inquietarci con una copertina bambinesca fatta della crudeltà dell’immaginario infantile.


Venerdì 13 marzo: Antonello Silverini – Trittico del gioco

martedì 3 marzo 2015

Autentico


“C’è la storia di quel tizio che portò a Picasso un disegno di Picasso e gli chiese se era autentico, e Picasso lo firmò immediatamente e disse – Adesso è autentico.” SPERO DI ARRIVARE PRESTO racconto del 1980.

In quella dimensione parallela, contigua alla nostra e a chissà quante altre, in cui la seconda guerra mondiale è stata vinta dall’Asse del Male e in cui i Giapponesi la fanno da padroni sulla costa ovest dell’America, LA SVASTICA SUL SOLE (1961), il piacere più ambito dagli occupanti è la ricerca di oggetti autentici della storia americana, dal fumetto d’epoca all’arma in uso nella guerra di secessione. In una realtà fragile e incerta, in cui un semplice libro (clandestino) che ipotizza una diversa storia (la vittoria degli Alleati contro l’Asse) è capace di insinuare una sottile inquietudine in tutti quelli che lo leggono o che ne sentono parlare; proprio lì la richiesta di autenticità delle cose rappresenta una necessità. Ed è proprio una fiorente attività illegale di oggetti falsi che rischia di mettere in pericolo l’intero commercio antiquario, la cui sopravvivenza si basa sulla possibilità di riconoscerne l’autenticità. Due identici oggetti, uno dei quali è appartenuto a un personaggio famoso, non si distinguono l’uno dall’altro se non per la “storicità “ intrinseca che uno dei due possiede. E ciò che lo dimostra è “un documento di autenticità. Quindi è tutto un falso, un’illusione di massa. E’ il documento che ne dimostra il valore, non l’oggetto in se stesso.”  L’incrinarsi della credibilità del documento apre alla crisi e i nuovi oggetti di artigianato locale che compaiono all’improvviso sul mercato, che non hanno bisogno di alcun certificato perché non rappresentano altro che quello che mostrano, acuiscono la crisi invece di risolverla. Ma è una crisi in cui il rischio, che ogni crisi in quanto tale porta dentro di se, apre a qualcosa di autenticamente nuovo sulla faccia del mondo. I semplici oggetti artigianali testimoniano di un prodigio: “non avere storicità, e neppure un valore artistico, estetico, e comunque partecipare di un valore etereo…” , il valore del fare, in quanto autentico valore dell’umano. L’antiquario americano Childan ribatte alla proposta del funzionario giapponese che lo voleva umiliare proponendogli di mercificare, in una produzione industriale in serie, i nuovi prodotti artigianali: “gli uomini che hanno fatto questo, (…) sono artisti americani, e sono orgogliosi. Me compreso. Perciò proporre di usare questi oggetti come amuleti scadenti significa insultarci, e io chiedo le sue scuse.”