L’omino gobbo, il ferro
di cavallo, la civetta, un cornetto, uno scarabeo e tanti altri simboli su
altrettanti foglietti di carta attaccati all’interno di una giacca e sulla
maglietta di un signore, un uomo dal volto oscurato dall’ombrello che tiene
aperto per l’evenienza di un improvviso temporale. Prevenzione, prudenza,
meticolosa assicurazione contro i possibili inconvenienti della vita. L’uomo si
apre, evidenzia la sua natura fragile, paurosa nuda vita; il trance, soprabito
che si spalanca è gesto di scandalo, già usato da Karel Thole per un altro
romanzo dickiano, “Redenzione immorale”1 . Come per il sesso che il
vecchio satiro mostra alle fanciulle che passeggiano indifese nei parchi,
Silverini ci spiattella in faccia
qualcosa di altrettanto scandaloso, una miriade di simboli al servizio
di colei che rende la nostra vita soggetta al dominio del puro caso, la
fortuna. L’immagine è forte, atterrisce e attrae allo stesso tempo; appartiene
a quel caravanserraglio delle immagini da circo, di illusionisti e ciarlatani
di strada, pronti a venderci, con le loro chincaglierie, illusioni di felicità.
Il mondo circostante è cupo, turbolento, macerato da tutte quelle utopie umane
andate a male. Ma la cosa più inquietante è quella mano che tiene aperta la
giacca e allunga il braccio in modo inverosimile. Anche la stoffa si allarga,
ma al posto di nuovi oggetti, di nuove offerte simboliche, un buco. La stoffa
si lacera, al troppo tirare, la realtà, infine scompare.
1 (qui)
venerdì 3 aprile - Antonello Silverini: La penultima verità
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venerdì 3 aprile - Antonello Silverini: La penultima verità
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