domenica 16 settembre 2018

Antonio Caronia - Philip K. Dick: Deus absconditus


Una delle più vivaci argomentazioni sulla giustizia di Dio (teodicea, secondo il termine di Leibniz) che mi sia capitato di leggere si trova nelle prime pagine di Valis, il romanzo scritto nel 1978, e pubblicato nel 1981, ispirato alle esperienze di Dick del 2-3-74. Vale la pena leggerla per esteso.
-          Non c’era bisogno di tormentare Fat con domande oziose del tipo: “Se Dio può fare tutto, può creare un fossato così largo che non possa saltarlo? Avevamo un sacco di vere domande a cui Fat non riusciva a dare una risposta. Il nostro amico Kevin iniziava sempre il suo attacco allo stesso modo. “Cosa mi dici del mio gatto?” chiedeva Kevin. Parecchi anni prima aveva portato a passeggio il suo gatto, verso sera. Quello sciocco non gli aveva messo il guinzaglio e il gatto era schizzato sulla strada, proprio sotto le ruote di una macchina di passaggio. Quando aveva raccolto il corpicino, era ancora vivo, respirava fra una schiuma insanguinata e lo fissava con gli occhi pieni di orrore. Kevin usava dire: “Il giorno del giudizio, quando sarò chiamato davanti al gran giudice, io gli dirò: ‘Aspetta un momento’, e tirerò fuori il mio gatto morto da sotto la giacca. ‘Come me lo spieghi questo?’ gli chiederò”. (…) Fat disse: - Nessuna risposta ti soddisferebbe. – Nessuna risposta che potresti darmi tu – lo schernì Kevin. – Okay, Dio ha salvato la vita di tuo figlio: perché non ha fatto in modo che il mio gatto corresse sulla strada cinque secondi dopo? Troppo disturbo? Già, immagino che un gatto non abbia molta importanza. (…) Conclude Kevin: L’universo è fottuto. Dio è impotente, o è stupido, o non gliene frega niente. O tutte e tre le cose. È cattivo, scemo e debole.
Questo naturalmente, non è il punto di vista di Dick. È il punto di vista di Kevin, scettico e tendenzialmente cinico. Ma il problema di fondo della teodicea è posto abbastanza correttamente: se Dio è un essere infinitamente buono, come può permettere il male nel mondo? Come si sa Philip Dick, filosofo autodidatta (oltre che personaggio esuberante e contraddittorio), scelse la risposta gnostica, che complica un po’ le cose ma ha il pregio, per chi crede in Dio, di “salvare le apparenze” (avrebbe detto Galileo) meglio di altre: il creatore del mondo materiale non è Dio stesso, ma un personaggio a sua volta creato da Dio (spesso indicato col nome di Demiurgo), un’intelligenza che non è capace di contemplare direttamente Dio, e quindi di creare cose perfette come lui, ma solo di creare una cosa pasticciata e imperfetta come la materia. Anzi, il Demiurgo sarebbe l’ultimo di una scala di esseri divini, ognuno creato da quello immediatamente superiore e ognuno, quindi, leggermente degradato rispetto al suo creatore. Ora quello che è interessante, nella teodicea di Valis citata prima, è che l’interrogativo formulato all’inizio del brano non è: “Dio è giusto o ingiusto?” ma “Dio è o non è onnipotente?” (“può creare un fossato così largo etc. etc.?”); per quanto Dick definisca quest’ultima una “domanda oziosa”, nella sua dichiarazione conclusiva Kevin continua a mescolare le considerazioni etiche con quelle ontologiche. Il punto di partenza di Dick, insomma, più che il dibattito sulla giustificazione del male nel mondo, sembra riprendere il dibattito della tarda scolastica sugli eventuali limiti dell’azione divina in relazione agli universali da lui stesso creati: potrebbe Dio creare un mondo, per esempio, in cui le leggi della logica non valgono, o questa azione gli sarebbe impedita dal fatto che, per loro stessa natura, queste leggi valgono in tutti i mondi possibili? Quindi volendo ragionare sull’idea e la presenza di Dio nell’opera di Dick, è probabilmente con l’ontologia, prima che con l’etica, che dobbiamo fare i conti. Tanto più che la narrativa di Philip Dick è fortemente permeata da un problema ontologico, e non solo quella scritta dopo l’esperienza del 2-3-74, ma anche quella scritta prima, sin dall’inizio della sua carriera. In un certo senso questo è banale. Come ha sostenuto Brian McHale, tutta la fantascienza è una narrativa a dominante ontologica, simile in questo alla narrativa postmoderna, e a differenza della tradizione del romanzo modernista (e, tra i generi, del giallo), che sono invece a dominante epistemologica. Queste ultime sono orientate a problemi relativi alla nascita e alla trasmissione delle conoscenze sul mondo, dando per scontata (relativamente) l’esistenza e l’unicità del mondo. La narrativa postmoderna e fantascientifica si pone invece interrogativi sull’essenza del mondo, e postula l’esistenza (o la possibilità) di più mondi, di più universi, indagandone le condizioni di esistenza e le modalità di passaggio dall’uno all’altro di questi mondi. Ma la tematica ontologica della narrativa di Dick ha un’accentuazione molto particolare. Il tema della realtà (la risposta alla domanda: “che cosa è reale e che cosa non lo è?”) si intreccia infatti in Dick sin dall’inizio con il tema dell’autenticità, sia per quanto riguarda l’uomo che il mondo. I personaggi di Dick si chiedono costantemente: “il mondo in cui io vivo e opero è quello vero? O non è il mascheramento di un’altra realtà nascosta, segreta?”. In Tempo fuori luogo Ragle Gumm si rende conto che la cittadina in cui vive non è una vera città, ma una specie di set cinematografico costruito a suo uso e consumo; in Le tre stimmate di palmer Eldritch Barney Mayerson sperimenta i mondi illusori creati dalla potenza di Palmer: in Ubik Joe Chip riceve oscuri messaggi dal suo capo Glenn Runciter (e forse dalla misteriosa entità che dà il titolo al libro) che suggeriscono che il mondo in cui egli vive non sia reale. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Nell’universo narrativo di Dick (che egli si convinse sempre più, dopo la svolta del 1974, rappresentasse l’universo reale), i vari mondi paralleli non sono “contigui” l’uno all’altro, come nel modello di Borges esposto nel Giardino dei sentieri che si biforcano o nel film Ritorno al futuro di Zemeckis, e neppure come succede, in fondo, nei vari ciberspazi degli autori cyberpunk. Essi si dispongono piuttosto in direzione “perpendicolare” all’universo di riferimento, e nell’esperienza di questi mondi l’uomo sperimenta anche un altro scorrere del tempo. Quindi, a rigore, quelli dickiani non potrebbero essere definiti “universi paralleli”, ma più propriamente “universi ortogonali”: infatti, come afferma Dick nel saggio “Uomo, androide e macchina” (pubblicato nel 1976 ma scritto nel ’75), “dalla nostra esperienza del tempo – che si pone ortogonalmente rispetto alla reale direzione del suo flusso – ricaviamo un’idea completamente errata della sequenza degli eventi, della causalità, di che cosa è passato e di che cosa è futuro, di dov’è diretto l’universo”. Quello che va sottolineato è che, nonostante spesso dai suoi libri si ricavi l’impressione che la realtà è indecidibile, Dick ha sempre tenuto fede all’idea che la realtà sia conoscibile, e che le cose stiano in un modo, e uno solo (è questo che ci rende riluttanti, nonostante le molte somiglianze, ad assimilarlo tout court alla letteratura postmoderna): l’importante, per lui, era riuscire a squarciare il “velo di maya”, a leggere tra la trama sottostante all’apparenza degli eventi. Lasciamo stare i pasticci su Parmenide, Kant e gli gnostici di cui a volte Philip Dick infarciva i suoi scritti teorici. La sua filosofia era sempre ancorata a una domanda molto forte e concreta di “giustificazione”, in tutti i sensi che la parola ha in italiano. L’idea che la realtà sia costantemente alterata da un complotto gestito da potenze invisibili lo avvicina, naturalmente, a Pynchon, a Burroughs, a Ballard, a De Lillo. Lo allontana da loro l’impossibilità ad acquietarsi nelle congetture, realizzate attraverso la scrittura, di questo complotto. Ecco perché gli eventi del 2-3-74 furono così centrali, per lui, ecco perché illuminarono non solo tutto ciò che aveva scritto, ma anche tutto ciò che aveva vissuto prima di quella data, ecco perché si arrovellò, negli ultimi otto anni della sua vita, a tentarne un’interpretazione. Eric S. Rabkin, in un saggio a volte acuto ma ingeneroso su Dick di parecchi anni fa, diede voce più chiaramente di altri marxisti della cattedra americani alla delusione per aver scoperto che i romanzi di Dick, che negli anni sessanta e settanta  potevano apparire come critiche politiche anticapitalistiche alla società americana, erano invece confuse riflessioni esoteriche-metafisiche sul senso della storia: e scrisse, senza mezzi termini, che negli ultimi anni della sua vita Dick era diventato pazzo, e aveva ceduto a tentazioni irrazionalistiche. Giustamente Lawrence Sutin, il più attento biografo di Dick, dopo aver studiato attentamente le più di seimila pagine dell’Esegesi, il diario segreto di Dick tenuto dal 1974 sino alla morte, invita alla cautela. Egli documenta come Dick abbia passato più e più volte in rassegna ogni possibile interpretazione degli eventi straordinari che visse nel febbraio e marzo del ’74 (e più raramente in epoche seguenti fino al 78), comprese quelle più triviali e materialistiche. Però, nonostante le esitazioni, è probabile che Dick sia morto con la convinzione che in quei giorni Dio gli abbia parlato. Le ragioni per cui arrivò (se ci arrivò) a questa definitiva convinzione, sono però tutt’altro che irrazionali. Sutin dà molto rilievo a una pagina dell’Esegesi del 17 novembre 1980: è l’ultimo colloquio di Dick con Dio, in cui quest’ultimo lo convince che dietro gli eventi del 74 c’è lui. Sono pagine molto belle (“una visione dickiana un po’ favola e un po’ elegia meditabonda”, scrive Sutin), e gettano una luce indiretta sui processi della creatività di Dick. Dio gli dice infatti:
-          Io sono l’infinito. Ti farò vedere. Dove io sono, c’è l’infinito; dove è l’infinito, io sono. Costruisci sistemi di pensiero grazie ai quali capirai la tua esperienza del 1974. Scenderò in campo contro la loro natura cangiante. Pensi che siano logici, ma non lo sono: sono creativi, all’infinito.
E Dick ingaggia un duello con Dio, ed escogita ogni possibile spiegazione di quegli eventi, e ogni volta sperimenta un regresso all’infinito. E ogni volta Dio dice: “Ecco l’infinito. Ecco, io sono. Riprova”. Per Dick, Dio è il vuoto infinito. È l’essenza stessa del dubbio e della ricerca. “’Infinito’, disse Dio. ‘Riprova. Sto aspettando.’” Dick aveva bisogno di comprendere quegli eventi, che erano la chiave di volta della sua vita, ma non poteva comprenderli se non riepilogando tutta la sua attività di scrittore, di inventore di trame, di personaggi, di situazioni, di ipotesi sul mondo e sulla storia. A questa attività potenzialmente infinita egli diede il nome di Dio. Noi non abbiamo alcuna possibilità di entrare dentro la mente di Dick (come dentro quella di alcun altro essere umano). Sappiamo che era un esibizionista, un buffone egocentrico, un infelice. Ma possiamo saperlo solo dalle testimonianze di chi lo conobbe, e da un incrocio fra le sue opere e la sua vita. Non possiamo e non dobbiamo essere né gli psicoanalisti né i giudici di Dick. Possiamo essere solo i suoi lettori, e possiamo sperimentare gli effetti delle sue opere su di noi. Se i processi che lui descrive parlano di noi, e ci illuminano su noi stessi, egli resta un grande scrittore, anche se noi diamo nomi diversi da quelli che dava lui agli oggetti dell’esperienza e del pensiero.

(Il Manifesto – Alias, 16 febbraio 2002, col titolo “Una realtà imperfetta con un dio di serie B”, ripubblicato in Universi Quasi Paralleli, CUT-UP Edizioni, Roma 2009)

giovedì 13 settembre 2018

Nel nostro mondo di Ubik




In un recente articolo: Megamacchine del neurocapitalismo. Genesi delle piattaforme globali2 l’autore Giorgio Griziotti3 ricorda come Lewis Mumford introduca “nel 1967 il concetto di megamacchina come complesso sociale e tecnologico che modellizza le grandi organizzazioni e progetti dove gli umani diventano pezzi intercambiabili o servo-unità”. Questi grandi complessi organizzativi di messa al lavoro del capitale umano sarebbero rintracciabili fin dalla “costruzione delle piramidi in Egitto”, e troverebbero nella modernità il modello più rappresentativo  nei “grandi complessi militari-tecnocratici che gestiscono il potere nucleare.” Per Griziotti oggi, in questo nuovo millennio, tutto il mondo, tutta la vita si sta assoggettando all’immensa megamacchina del capitalismo che controlla e controllerà sempre di più ogni momento della nostra vita, non più solamente dall’esterno ma soprattutto dal di dentro dei nostri corpi, incorporandosi in noi, divenendo parte di noi e noi di esso. L’articolo è ricco di informazioni e agghiacciante nelle conclusioni a cui inevitabilmente conduce. Non ho le competenze necessarie per entrare nel merito di questa articolata descrizione della gestazione e trasformazione di questa complessa megamacchina del ‘neurocapitalismo’ e al di là di segnalare, doverosamente, i meriti di una descrizione che nulla concede alla bassa divulgazione e che peraltro riesce a rendersi comprensibile a un pubblico di non esperti, qui vorrei indugiare su una sollecitazione di carattere fantascientifico (meglio: dickiano) che il testo offre esplicitamente in un punto in cui cita il racconto di Dick: Minority Report,4 ma che inevitabilmente lo pervade, data la natura dell’argomento, nella sua totalità. Parlando della Global Community di Zuckerberg e del suo impegno per la ricerca sull’Intelligenza Artificiale ci avverte che: “Anche se ci vorranno ancora anni, scrive Zuckerberg, perché l’IA diventi un vero agente semiotico in grado di capire e valutare il senso di tutti i contenuti del social network in modo da poter intervenire opportunamente, questo resta l’obiettivo di FB ‘per combattere il terrorismo mondiale’. La promessa di costruire l’infrastruttura sociale che aiuterà la Global Community di FB a ‘identificare i problemi prima che avvengano’ va nello stesso senso e si ispira direttamente a Minority Report.”  È un esempio calzante, ma se dalla situazione particolare di FB ci confrontiamo con la realtà più generale presa in esame dall’articolo, cioè quella “messa al lavoro della vita tramite la tecnologia della Web2.0” e soprattutto quell’”asservimento macchinico che ‘consiste nel mobilitare e nel modulare le componenti pre-individuali, pre-cognitive e pre-verbali della soggettività, e fa funzionare gli affetti, le percezioni e le sensazioni come parti o elementi di una macchina.’5 più che a questo vecchio racconto sarebbe  opportuno riferirsi a una delle sue opere chiave: il romanzo Ubik.6 Le premesse di questo mondo bioipermediatico7 non ci portano tanto a una distopia da grande fratello elevata all’ennesima potenza, spettro fantascientifico ormai depotenziato come gran parte degli scenari della science fiction novecentesca, quanto a un mondo caotico, confuso, denso di contraddizioni e ambiguità. I Zuckerberg e i Trump, acerrimi rivali nel nostro mondo, si possono equiparare, nel mondo di Ubik, agli Hollis e ai Runciter con le loro rispettive funzioni di spionaggio e controspionaggio che governano la vita di tutti gli individui. La funzione di Hollis è quella di un potere tendente al controllo della vita nelle sue singole componenti umane (spiandone le menti e pianificando coercitivamente il loro futuro) mentre quella di Runciter si qualificherebbe come il bisogno di governare questo processo, più che combatterlo (Runciter steso si avvale, come il suo avversario, di telepati e precog, per i suoi bisogni). Che Runciter, per chi legge il romanzo, appaia il più simpatico dei due, collima con il fatto che un Zuckerberg “in contrasto coi populismi nazionalisti di cui Trump è il capofila” risulti infine “in un certo senso più ‘moderno’ ed attraente (o forse solo più accettabile) agli occhi di generazioni di nativi digitali.” Il mondo della semi-vita di Ubik, in cui tutto sprofonda è un mondo di cadaveri viventi e, come ancora Mumford ci ricorda: “…se ogni cosa, eccettuata la tecnica, è un sogno nebuloso, che cosa resta dell’uomo se non un cadavere vivente…?”.8  È in questo riconoscersi cadavere vivente che il protagonista Joe Chip, sfigato personaggio seriale dickiano, ritrova la forza di resistere ai poteri che lo vogliono assoggettato a una docile ubbidienza. Quel cadavere vivente, il corpo, è ciò che noi siamo, e potremo essere corpo collettivo, resistente, solo a partire da questa ritrovata consapevolezza. Tutta l’opera dickiana, del resto, tende a ritrovare il possibile aggancio della dimensione culturale, che sempre più si esprime in un’esplosione dell’immaterialità, con quella della materia, e del corpo in prima istanza. Senza questo antidoto ubikiano temo che l’idea di una possibile ‘liberazione’ del ‘comune’, cioè di raggiungere quei “modi per rendere veramente autonoma la Global Community e tutte le altre comunità delle piattaforme del Capitalismo” auspicata da Griziotti, rimanga una bella, ma ancora un’altra, irraggiungibile utopia dell’avvenire.
Nota 1: L. Mumford, Arte e tecnica, Universale Etas, Milano 1980, p. 96
Nota 3: di cui ho recensito il libro Neurocapitalismo: http://www.labottegadelbarbieri.org/neurocapitalismo-e-cura/
 Nota 4: racconto del 1956 portato sugli schermi da Steven Spielberg nel 2002
Nota 5: M. Lazzarato, Le macchine, 10/2006  http://eipcp.net/transversal/1106/lazzarato/fr
Nota 6: per un’analisi del romanzo rimando al mio http://una-stanza-per-philip-k-dick.blogspot.it/2014/08/ubik_30.html 
 Nota 7: “Bioipermedia è termine d3erivato dall’assemblaggio di bios/biopolitica e ipermedia, come una delle attuali dimensioni della mediazione tecnologica. Le tecnologie connesse e indossabili, i cui oggetti popolano il territorio, ci sottomettono ad una percezione multisensoriale in cui spazio reale e virtuale si confondono estendendo ed amplificando gli stimoli emozionali.” G. Griziotti, Neurocapitalismo Mimesis 2016, p. 120
Nota 8: L. Mumford, Arte e tecnica, cit. p.40