martedì 20 dicembre 2016

Pubblicità


“Gli avvisi pubblicitari sono ‘notizie’. Il loro guaio è di essere sempre notizie buone. Per equilibrare l’effetto, e per vendere le notizie buone, è necessario avere un mucchio di notizie cattive.” 1 E in effetti le buone notizie in UBIK (1966) sono proprio le pubblicità che stanno ad esergo di ogni capitolo, quasi a suggerire una possibile resistenza, rimedio alle cattive notizie, quelle che illustrano il degrado, l’entropia e la morte che imperversano, in una spirale esponenziale, il mondo moderno, o postmoderno che sia, in cui siamo costretti a tentare di vivere. La pubblicità sembra allora ergersi a estremo rifugio dell’arte, ultimo baluardo della creatività: “Sullo schermo della tv, splendidi spezzoni pubblicitari si accendevano avanti e indietro come fuoco liquido. Sbocciavano uno dopo l’altro, si flettevano per un istante e poi sparivano. Gli spot pubblicitari erano la forma d’arte più elevata e i talenti più raffinati lavoravano nel settore.”  LOTTERIA DELLO SPAZIO (1954). Ma anche rimedio per i mali che più ci assillano: “Joe accese la radio per sentire se c’erano notizie. ‘Impotenti’ disse la radio. ‘Incapaci di raggiungere un orgasmo? Hardowax trasformerà il disappunto in gioia.’ Seguì un’altra voce, la voce di un maschio avvilito. ‘Dio, Sally! Non so cosa mi è successo. So che ti sei accorta che ultimamente mi sono afflosciato del tutto. Dio, se ne sono accorti tutti!’ A questo punto intervenne una voce femminile. ‘Henry, tu hai bisogno di una semplice pillola che si chiama Hardowax. E in pochi giorni sarai un vero uomo.’ ‘Hardowax?’ fece eco Henry. ‘Sì, accidenti, forse dovrei provarla.’ Poi la voce dell’annunciatore. ‘Al più vicino drugstore, oppure scrivete direttamente a…” GUARITORE GALATTICO (1967). Chi pensa che la pubblicità, nel suo ipertrofico sviluppo vanifichi la propria capacità persuasiva, non capisce che il suo potere e la sua necessità sta più nella creazione di un mondo da sogno (che porta alla necessità del consumo) che a una banale propaganda di un singolo prodotto:  “Quante cose aveva imparato dagli spot televisivi! Gli altri erano soliti spegnere la tv quando arrivava il momento della pubblicità, ma per lui era proprio quello il momento di accenderla. I programmi non avevano niente da offrire se non una morale da ceto medio, che nelle migliori delle ipotesi si traduceva in un prodotto di grande squallore. La pubblicità invece offriva un mondo dove si vendevano sogni, dove giovinezza e salute erano merce in scatola, e tutti i dolori e le sofferenze venivano addolcite dalla meravigliosa visione al rallentatore di una lunga capigliatura mossa dal vento.” LA CONQUISTA DI GANIMEDE (1964). Questo mondo è l’incubo in cui noi stiamo vivendo; esiste una via d’uscita che non sia come quella descritta nel racconto VENDETE E MOLTIPLICATEVI (1964)? Ed Morris, per sfuggire alla pubblicità invasiva di un robot tuttofare che si è infilato nel suo astroveicolo, si lancia fuori dalla rotta superando la velocità consentita in direzione di Proxima. All’esplosione che ne consegue, Morris, nonostante sia ferito e prigioniero tra le lamiere, è felice: “nel silenzio della nave distrutta, incastrato in mezzo ai rottami, osserva i due soli avvicinarsi. Era uno spettacolo meraviglioso. Da tanto tempo desiderava vederli. Eccoli lì,che si facevano più vicini ad ogni istante. Fra un giorno o due, la nave si sarebbe tuffata in quella massa infuocata, per essere consumata. Ma poteva godersi quei due giorni. Non c’era niente a disturbare la sua felicità. (…) Un rumore. Nella massa di metallo fuso qualcosa si muoveva. Una forma contorta, appena visibile alla luce che proveniva dallo schermo. Morris riuscì a girare la testa. L’antrad riuscì a rimettersi in piedi. La maggior parte del tronco era sparita, distrutta dall’esplosione. Ondeggiò, poi cadde in avanti con un gran rumore di ferraglia. Continuò ad avanzare adagio verso lui, e si fermò a un metro di distanza. Ci fu un rumore di ingranaggi, di relè. Un inutile barlume di vita animò la carcassa semidistrutta.  – Buonasera – disse con voce gracchiante.”


Nota 1: Marshal McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore , Milano 2011  

martedì 13 dicembre 2016

Mutanti


In DEUS IRAE (1964-75) abbiamo un enorme patchwork di mutazioni, dalle blatte “evolute dai mammiferi, e in brevissimi anni” e che per questo sono nostre parenti anche se puzzano e “offendono il mondo. E di sicuro offendono Dio” ai corridori “con i musetti affabili all’insù. Non superavano il metro e venti d’altezza. Erano grassocci e rubicondi, coperti di pelliccia fitta… con gli occhietti luccicanti, i nasi frementi e grandi zampe da canguri.” Erano tutte mutazioni “originate da quelli che fondamentalmente erano veleni. Così tante e così in fretta; una gran quantità di specie dirette. La natura, in lotta per superare i rifiuti della guerra; le tossine.” Ma non sempre la mutazione è così ricca e divertente: “Per la famiglia Rosen era sempre stata fonte di insoddisfazione che gli occhi di Chester si trovassero sotto il suo naso, e la bocca là sopra, al posto degli occhi.” L’ANDROIDE ABRAMO LINCOLN (1962). In E JONES CREO’ IL MONDO (1954) abbiamo una mutazione creata artificialmente per far vivere una nuova specie umana su Venere. La loro esistenza da paria, segregata in un laboratorio, verrà riscattata alla fine su quel pianeta dove potranno essere loro la normalità. E ancora la coppia mostruosa di due in uno di George Walt in SVEGLIATEVI DORMIENTI (1963) “Erano una forma di gemelli mutanti, uniti alla base del cranio; un’unica struttura encefalica serviva i due corpi separati. La personalità George risiedeva in un emisfero del cervello e usava un occhio: il destro (…) e la personalità Walt viveva nell’altra metà, distinta, con le sue idiosincrasie, i suoi punti di vista e i suoi impulsi – e il suo occhio con cui guardare l’universo.” Nel racconto del 1954 NON SAREMO NOI la Terra si deve difendere dalla minaccia dei DEVI (devianti), mutanti dai poteri straordinari. Un compito frustrante: “Essere giocati da un animale! Qualcosa che scappa e si nasconde. Qualcosa senza un linguaggio.” Ed è proprio forse il linguaggio a causare la nostra sconfitta: “Questo significa che l’intelligenza ha fallito (…) Abbiamo portato l’intelligenza fino al livello massimo a cui può arrivare. Troppo avanti, forse. Siamo già arrivati al punto in cui sappiamo tanto, e pensiamo tanto, che non riusciamo ad agire.” Nel racconto dello stesso anno IL MONDO DEI MUTANTI le colonie nello spazio si sono ribellate al dominio terrestre e resistono al suo potere militare solo grazie al contropotere esercitato dai mutanti, soprattutto la capacità di un essere grasso e ritardato di distruggere i missili in arrivo e dei telepati di individuare le spie infiltrate. Ma al di là di questo impianto fantascientifico tradizionale, il vero conflitto su cui si innerva la storia è tra i mutanti che detengono i poteri e dei nuovi mutanti con la capacità di inibirli. Il tema della ricerca di un possibile equilibrio sembra anticipare il mondo dei telepati e antitelepati di UBIK. In UN’INCURSIONE IN SUPERFICE (racconto1955) nel mondo postatomico una nuova razza di umani sopravvive nel sottosuolo: “un tempo esisteva un’unica specie, i sap. Il loro nome per intero è ‘homo sapiens’. Noi siamo nati, ci siamo sviluppati da loro. Siamo mutanti biogenetici. Il cambiamento si è verificato durante la terza guerra mondiale, due secoli e mezzo fa. Sino ad allora non c’erano mai stati ‘Tecno’. – Tecno? – Fashold sorrise. – All’inizio ci chiamavano così. Quando ci ritenevano solo una classe separata, non una razza diversa. Tecno. Era il loro nome per ‘noi’. Il termine che usavano quando parlavano di noi. – Ma perché? È un nome strano. Perché ‘Tecno’ Fashold? – Perché i primi mutanti sono apparsi nella classe dei tecnocrati e gradualmente si sono diffusi in tutte le classi colte. Sono emersi tra scienziati, studiosi, ricercatori, gruppi di specialisti. In tutte le varie classi specializzate.” Nel racconto NON-O invece il mutante è il perfetto paranoide: “Hanno sempre classificato la paranoia come malattia mentale. Ma non lo è! Non c’è una mancanza di contatto con la realtà. Al contrario, il paranoide ha un rapporto diretto con la realtà. È un empirista perfetto. Non contaminato da inibizioni etiche e morali-culturali. Il paranoide vede le cose come realmente sono. In effetti è l’unico individuo sano di mente.” E infine un ultimo racconto del 1964 GIOCATE E VINCETE in cui atterrano in una monotona colonia terrestre su Marte, in tempi diversi, due astronavi della Compagnia dei divertimenti. Due tipi di mutazioni mostruose si trovano al loro interno: nella prima un corpo senza testa e nella seconda una testa senza corpo. Parodie di quell’eterno mutare che , come di ce lo stesso Dick nella nota al racconto, sembrerebbero dirci che: “è come se le due forse opposte che stanno al disotto di ogni cambiamento dell’universo fossero truccate; a favore di thanatos, la forza oscura, lo yin o conflitto, vale a dire la forza della distruzione.”

martedì 6 dicembre 2016

Simulacri


Greta Garbo nel punto culminante della sua carriera scompare, si nasconde. Francois Mauriac immagina una sua ipotetica spiegazione: “Mi sono distrutta, mi sono sacrificata per l’immagine di una bellezza che può soddisfare ciascuno di quei milioni di desideri delusi, di attese senza speranza… Avete capito perché mi nascondo? Per pietà verso quelli, perché essi non sappiano che io non esisto:”1 Una non esistenza come quella della cantante Linda Fox in DIVINA INVASIONE (1980): “-Linda Fox non è una persona. È una classe di persone, un tipo. È un suono prodotto da attrezzature elettroniche estremamente sofisticate. Ci sono altre Fox; ce ne saranno sempre. Si può sostituire all’infinito, come un pneumatico.- (…) -Mi spiace per lei- disse Bulkowsky. -Come ci si deve sentire- si chiese   -quando non si esiste? No, è una contraddizione. Sentire è esistere. Quindi- pensò  -probabilmente lei non sente. Perché è un fatto che non esiste, non in senso stretto. Noi lo sappiamo, no? Siamo stati noi a immaginarla per primi.-  O meglio, era stato Testone a immaginare la Fox. Il sistema IA l’aveva inventata, le aveva detto  cosa cantare e come cantarlo. Testone si era occupato di ogni particolare, fino al mixaggio. Ed era stato un successo completo. Testone aveva correttamente analizzato i bisogni emotivi dei coloni e aveva trovato una formula per soddisfare quei bisogni. Il sistema IA manteneva una sorveglianza continua, basata sulle reazioni di ritorno; quando i bisogni cambiavano, cambiava anche Linda Fox. Era un circolo chiuso. Se all’improvviso tutti i coloni fossero scomparsi, Linda fox sarebbe finita nel nulla. Testone l’avrebbe cancellata, come un foglio di carta infilato in un distruggitore di documenti.” Come la Fox, simulacro delle nostre passioni, o meglio ‘desideri delusi’ e ‘attese senza speranza’, il simulacro politico Nicole Thibodeaux, I SIMULACRI (1963), una first lady falsa (essendo in realtà solo un’attrice assunta per sostituire la precedente) di un premier fasullo (in quanto androide), riempie il vuoto dell’immaginario collassato di una società ormai definitivamente entrata nell’era dell’iperrealtà:2 Appena una manciata di anni sono passati dagli ‘erranti’, quelle “imitazioni di persone” che vagavano inquiete in LA CITTA’ SOSTITUITA (1957), ma in questo breve lasso di tempo possiamo vedere, con chiara evidenza, come Dick “si allontana sempre più dalle formule care alla fantascienza” e “sposta i suoi spezzoni narrativi sulla scacchiera del romanzo postmoderno.” 3

Nota 1: Edoardo Bruno, Pranzo alle otto, Il Saggiatore, Milano 1994, p.58.
Nota 2: Jean Baudrillard, Simulacri e fantascienza, Postfazione a Philip K. Dick, I simulacri, Fanucci Roma

Nota 3: Carlo Pagetti, Prefazione a Philip K. Dick, I simulacri, Fanucci Roma

martedì 29 novembre 2016

Televisione


In UTOPIA ANDATA E RITORNO (1963) abbiamo una “tv tridimensionale, a colori con un’aggiunta di strumenti per la percezione olfattiva” che propaganda l’emigrazione verso il pianeta dove sono tutti felici e contenti (in un viaggio però di sola andata). E forse la televisione  stessa è il mezzo più appropriato per teletrasportarci nel mondo dell’utopia; quell’utopia che vorremmo congeniale a noi e che invece poi si dimostra essere sempre quella degli altri. In OCCHIO NEL CIELO (1955) la televisione serve addirittura a far si che il vecchio e bigotto Arthur Silvester possa comunicare direttamente con Dio: “chiaramente, Silvester non era affatto stupito di sentirsi rivolgere la parola dal suo Creatore. Era ovvio che faceva parte dei suoi riti domenicali. Ogni domenica mattina si ingozzava della sua razione settimanale di nutrimento religioso.” E quando qualcuno protestava, l’intervento teledivino era immediato e privo di misericordia: “dallo schermo emersero quattro enormi figure. Erano angeli, grossi angeli mascolini, animaleschi, con uno sguardo meschino negli occhi. Dovevano pesare almeno un quintale ciascuno. Sbattendo le ali i quattro angeli puntarono direttamente su Hamilton. Con una smorfia maligna sul volto rugoso, Silvester si fece da parte per godersi lo spettacolo della vendetta celeste che colpiva il blasfemo.” Ma la televisione può anche avere effetti salvifici, come in UBIK (1966), permettendo a Glen Runciter di comunicare dal mondo dei vivi, dove lui si trovava, a quello dei semi-vivi, dove era finito il suo braccio destro Joe Chip insieme a tutta la sua squadra di collaboratori: “Runciter , attraverso il sistema audio dello schermo, tuonò: -Un ennesimo fenomeno di deterioramento. Vai a comprare una bomboletta di Ubik e smetterà di succederti. Tutte quelle cose smetteranno.-“ Ma questa funzione televisiva, che potremmo quasi definire trascendentale, finisce nelle ultime opere di Dick e si sposta, quasi una nemesi storica, al cinema, alla sala cinematografica dove alberga Dio1 e dove per l'appunto Horselever fat e lo stesso Dick scoprono Valis, VALIS (1978). Alla televisione resta il solo triste compito di propaganda politica, ma rimane comunque “un problema convincere le masse ad ascoltare Ferris Freemont mentre sciorinava i suoi discorsi, perché si esprimeva in un modo molto noioso.” RADIO LIBERA ALBEMUTH (1976).

Nota 1: Una vignetta apparsa sul ‘New Yorker’ negli anni 1920 mostra un ragazzino in compagnia della madre, che sull’atrio di un ‘palazzo del cinema’ chiede: -Mammina. Dio vive qui dentro?-  (Robert Stark, Cinemamerica,  Feltrinelli, Milano 1992, p. 108. Sul cinema e Philip K Dick vedi: http://una-stanza-per-philip-k-dick.blogspot.it/2014/09/il-cinema-di-philip-k-dick.html   

martedì 22 novembre 2016

Morte


“I morti hanno sempre qualcosa di incommensurabile, di spaventoso. La stessa morte ha un tale potere! Una trasformazione terribile come la vita stessa, e tanto più difficile da capire.” NOI MARZIANI (1962). Una incomprensione, per usare le parole di Adorno, fondata “sulla debolezza, perdurante fino ad oggi, della coscienza umana di tener testa all’esperienza della morte, forse in generale di recepirla. (…) Le riflessioni che cercano di dare senso alla morte sono impotenti come quelle tautologiche.”1 Ma Dick, come forse tutto il genere fantascientifico che lui utilizzava a proprio uso e consumo, è in gran parte una centrifugazione tautologica dell’idea della morte; un modo per tentare di reintegrarla in una società che a rapidi passi sta procedendo verso una nuova ricompattazione comunitaria, dall’individualismo borghese a un nuovo essere collettivo performato da una serie di dispositivi dalle caratteristiche sempre più magiche o quantomeno avvertite come tali. Da un superamento dell’idea di morte come in IN SENSO INVERSO (1965) basato su una nuova religione che predica la fusione tra individui tramite le droghe in cui la morte semplicemente “non esiste: è un’illusione”, come il tempo, del resto; alla rappresentazione di una società futura che al contrario è costruita sulla morte: “La morte rappresentava una componente quotidiana delle loro vite. Gli individui morivano e nessuno era turbato, nemmeno le vittime. Morivano felici e contenti.” DOTTOR FUTURO (1959). Ma in Dick il pungiglione della morte è qualcosa da cui è difficile distrarre il pensiero: “-Che cos’è ein Todesstachel?- mi aveva chiesto, e io le avevo spiegato del pungolo della morte e poi oh Dio lo avevo sentito pungermi il fianco, penetrando come un arpione di metallo che si torceva e mi uncinava oh Signore guidando il mio corpo in un agonizzante Totentanz per la stanza.” DEUS IRAE (1964-75). Naturale anche il desiderio di correrle incontro come in LABIRINTO DI MORTE (1968) “La nostra sola speranza: la morte” o in LE TRE STIMMATE DI PALMER ELDRITCH (1964) “Ascolta Mayerson; essere una pietra non è ciò che vuoi veramente. Quello che vuoi è la morte.” Ma se, infine, “la morte e la colpa sono collegate” GUARITORE GALATTICO (1967) che la colpa principale dell’uomo sia forse proprio quella di esistere e di averne coscienza?

Nota 1: T.W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi 1970, p. 332

martedì 15 novembre 2016

Vaso


Il vaso, oggetto altamente simbolico, ha una forte presenza nell’opera di Dick; Joe Fernwright, protagonista di GUARITORE GALATTICO (1967) è un riparatore di vasi che viene coinvolto in un’impresa insieme a  un dio alieno su un pianeta ai margini della galassia per far risorgere un’antica cattedrale dal fondo dell’oceano. Alla fine il riparatore potrà affrontare la sua personale impresa e riuscirà a fabbricare il suo primo vaso: “Con un guanto d’amianto Joe infilò la mano tremante nel forno ancora caldo ed estrasse il vaso. Un vaso alto, bianco e azzurro. Il suo primo vaso. Lo portò al banco, sotto la luce diretta, lo posò e gli diede una lunga occhiata. Valutò professionalmente il valore artistico della sua opera. Valutò ciò che aveva fatto, e ciò che avrebbe fatto, come sarebbero stati in seguito i vasi. Le sue opere future gli si profilavano dinanzi. Quella in un certo senso era la sua giustificazione per aver abbandonato Glimmung e tutti gli altri. Mali, soprattutto. Mali, che lui amava. Il vaso era orribile.” Un brutto vaso, ma un vaso uscito dalle sue mani.1 Costruire vasi non è un’impresa di poco conto, soprattutto se si pensa a quello che il vaso potrebbe contenere: “Non vi è accesso a Dio attraverso la droga; questa è una bugia smerciata da gente con pochi scrupoli. Il mezzo attraverso cui Stephanie portò Horselover Fat a Dio fu un piccolo vaso di terracotta che lei fece con il tornio da vasaio. (…) Sembrava un normale vaso: tozzo e color marrone chiaro, con una striscia di blu come unico disegno. Stephanie non era una vasaia esperta. Quel vaso era uno dei primi che aveva fatto al di fuori del corso di ceramica alla scuola superiore. Naturalmente uno dei suoi primi vasi sarebbe stato per Fat. Lui e lei avevano un rapporto molto stretto. Quando lui era sconvolto, lei lo calmava con una dose extra nella pipa per hascisc. Tuttavia il vaso aveva una particolarità. Dentro di esso sonnecchiava Dio. Sonnecchiò nel vaso per un bel pezzo, quasi per troppo.” VALIS (1978). Ma è uno strano Dio, un Dio che si potrebbe confondere con l’uomo, e comunque, un Dio che condivide in pieno il destino dell’uomo: “Voltandosi, Pete mise a fuoco l’immagine ballonzolante e fluttuante di un vasetto d’argilla, un oggetto senza pretese, cotto ma non smaltato; solo temprato. Un oggetto utile, fatto di terra. Che lo ammoniva contro il timore che aveva provato, cosa di cui gli era riconoscente. –Ti dirò come mi chiamo- disse il vasetto. –Io sono Oh Ho.- Cinese, pensò Pete. –Vengo dalla terra, non sono superiore ai mortali- continuò il vasetto Oh Ho, interlocutorio. –Non mi sento superiore alle presentazioni. Sono costantemente consapevole dell’esistenza di manifestazioni troppo sublimi per presentarsi. Tu sei Peter Sands; io sono Oh Ho.- (…) Il vasetto d’argilla nato dalla terra che, come te, può essere ridotto in pezzi e tornare alla terra, e che vive soltanto finché vive la tua specie. –Ho On- ripeté diligentemente Pete.” DEUS IRAE (1964-75). Tra la ricchezza dei significati di cui è ricco il simbolo del vaso in Dick non è di minore importanza l’immagine del vaso come simbolo femminile: “è un grembo materno nel quale la figura dell’uomo-dio si trasforma, per così dire, per rinascere sotto nuova forma. (…) Secondo la tradizione gnostica, un dio sommamente spirituale, superiore all’ambiguo creatore del mondo, mandò agli uomini un vaso (cratere) nel quale essi devono tuffarsi per raggiungere una trasformazione spirituale e una più alta conoscenza.”2 La figura della vasaia Mary Anne Dominic in SCORRETE LACRIME, DISSE IL POLIZIOTTO (1970) potrebbe essere vista proprio come colei che crea quel qualcosa fatto da mani umane (femminili) che per tutti potrà essere un prezioso tesoro da custodire, capace di trasformazione spirituale, per il protagonista Jason Taverner come per tutto il resto dell’umanità. “Il vaso azzurro fatto da Mary Anne Dominic e comperato da Jason Taverner come regalo per Heather Hart finì in una collezione privata. È lì ancora oggi, ed è considerato un prezioso tesoro. E, in effetti, molti esperti di ceramiche artistiche lo ritengono un vero capolavoro. E lo amano.”
Nota 1: Sulla simbologia del vaso in questo romanzo vedi anche: http://una-stanza-per-philip-k-dick.blogspot.it/2016/02/guaritore-galattico.html

Nota 2: Marie-Luise Von Franz, Il mito di Jung, Boringhieri, Torino 1978, p. 258.

martedì 8 novembre 2016

Matrimonio


In ILLUSIONE DI POTERE (1964) il protagonista è cosciente di “essere sposato con una donna che è troppo superiore a me dal punto di vista economico, intellettuale e, si, anche da quello sessuale” la qual cosa però non gli consente alla fine della storia, quando la relazione si capovolge drammaticamente, di decidere di non restare con la moglie: “-Se tua moglie fosse malata…- disse al taxi tutto a un tratto. –Io non ho moglie signore- replicò il taxi. –I meccanismi automatici non si sposano,  lo sanno tutti.- -D’accordo- convenne Eric. –Se tu fossi al mio posto, e tua moglie fosse malata in modo molto grave, senza nessuna speranza di guarigione, la lasceresti? Oppure resteresti con lei, anche se avessi viaggiato dieci anni nel futuro e sapessi con assoluta certezza che i danni al suo cervello non potranno mai essere risanati? E che rimanere con lei significherebbe…- -Capisco cosa intende dire, signore- lo interruppe il taxi. –Significherebbe che lei dovrebbe passare tutta la sua vita a prendersi cura di sua moglie.- -Proprio così- disse Eric. –Io resterei con lei- disse il taxi.- -Perché?- -Perché- rispose il taxi –la vita è fatta di configurazioni della realtà che si presentano così. Abbandonandola sarebbe come dire che lei non riesce a sopportare la realtà così com’è. Che vorrebbe delle condizioni particolari, più privilegiate per lei.- -Credo di essere d’accordo con te- disse Eric dopo un po’. –Credo che resterò con lei.- -Dio la benedica, signore.- disse il taxi. –Vedo che lei è un uomo buono.- -Grazie- disse Eric.” Di fatto in Dick sono sempre le donne a piantare i mariti “in fin dei conti, Kate non gli aveva mai fatto nulla… tranne il renderlo eccessivamente consapevole, intensamente consapevole, continuamente consapevole della sua incapacità di guadagnare. Gli aveva insegnato a detestarsi e, dopo averlo fatto, lo aveva piantato.” GUARITORE GALATTICO (1969). E i mariti non possono che rimpiangerle continuamente come per il protagonista di LE TRE STIMMATE DI PALMER ELDRITCH (1964). Tutte queste intricate situazioni matrimoniali evidenziano, in ultima analisi, l’insostenibilità del patire il rapporto con l’altro in una situazione di equilibrio paritario. “Prima degli universi” come osserva giustamente Antonio Caronia1 “(o insieme ad essi) cadono a pezzi i matrimoni. A volte sono a pezzi già all’inizio del romanzo – e poche volte si rimettono a posto davvero entro la fine.” Ma anche quando si rimettono a posto  il risultato non è esaltante, sembra quasi un adattarsi al male minore; rassegnarsi a un ménage più tranquillo, in tono minore come nel finale di MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? (1966) in cui Iran (come la Molly dell’Ulisse di Joyce) si appresta a una rinnovata cura del proprio marito-bambino. Ma non bisogna farsi ingannare, il tema del matrimonio in Dick è solo un pretesto, quel che veramente conta nell’analisi di questi rapporti sono le relazioni di potere che si instaurano tra due persone di sesso diverso, indipendentemente dalla legalizzazione o meno della loro unione. Ci si può lasciare, divorziare, regolare il rapporto in base a un gioco puramente casuale, GIOCATORI DI TITANO (1963), o restare semplicemente liberi, il problema per Dick permane immutato: mettersi insieme comporta sempre “un desiderio di predominio nei confronti dell’altro” (Illusione di Potere) e all’attenuarsi della componente amorosa questo predominio si rende inevitabilmente visibile rendendo il conflitto la predominante del rapporto. Ma esiste rapporto, che possa definirsi veramente tale, senza il conflitto? E soprattutto, se si vuole un conflitto che non sia pura distruttività, è possibile ottenere questo senza che il conflitto stesso si trasformi in motore del cambiamento perpetuo dei suoi attori? Ed è proprio questo, in definitiva, quello che succede negli agoni amorosi dickiani: un costante susseguirsi di trasformazioni, non prive di sofferenza, ma cariche di sempre nuove possibilità e di rinnovati conflitti.

mercoledì 2 novembre 2016

Intellettuali


Si deve presumere che gli intellettuali scarseggino di qualità empatiche se il ‘cervello di gallina’ Isidore in MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? (1966) ha potuto scambiare degli androidi per intellettuali: “-Voi siete degli intellettuali- disse Isidore; si sentì di nuovo emozionato per aver capito. Emozionato e fiero. –Voi pensate in modo astratto e non riuscite a …- Gesticolò, mentre le parole gli si impigliavano in gola.” Di sicuro gli intellettuali possono essere molto irritanti, come ha potuto constatare la protagonista di LA TRASMIGRAZIONE DI TIMOTHY ARCHER (1981) Angel Archer: “Jeff scoppiò a ridere. –Sai chi mi ricordi? La strega di Didone ed Enea di Henry Purcell.- -Cioè?- -‘Che, come il cupo richiamo dei corvi, bussa alle finestre dei morenti.’ Mi spiace, ma…- -Stupido intellettuale di Berkeley- dissi. –In che stronzata di mondo vivi? Non nel mio, spero. Citare vecchi versi... È questo che ci ha fregati. Lo stabiliranno quando scaveranno le nostre ossa. Tuo padre ha citato la Bibbia al ristorante, esattamente come stai facendo tu. Dovresti picchiarmi, o io dovrei picchiare te.. Sarò felice quando finirà la civiltà. Gente che sputa frammenti di libri.-” Ma in fondo il mondo degli intellettuali non è fatto di altro che di chiacchiere come ben sa Dangerfiled in orbita intorno alla Terra per il resto della sua vita: “Naturalmente lei si rende conto che sto registrando tutto questo su nastro; ho intenzione di trasmettere ogni notte le nostre stupide chiacchiere quando passo sopra New York… da quelle parti impazziscono per questa roba da intellettuali..”  CRONACHE DEL DOPOBOMBA (1963). 

martedì 25 ottobre 2016

Masochismo



“Il significato della mia vita mi era finalmente chiaro. Ero condannato ad amare qualcosa più della vita stessa, una cosa-oggetto crudele, fredda e sterile… Pris Frauenzimmer. Sarebbe stato meglio odiare il mondo intero.” ABRAMO LINCOLN ANDROIDE (1962).   Sembrerebbe proprio che per Dick la propensione al masochismo consista nel tipo di donna con cui un uomo si va a impelagare: “Ero curioso di vedere con che tipo di donna si era andato a impelagare, lei ha una pulsione masochistica coi fiocchi, e Kathy ne è la dimostrazione. È un’arpia, Sweetscent, un mostro.ILLUSIONE DI POTERE (1963). Uno degli aspetti maggiormente eccitanti “dell’amore sessuale è l’amore per qualcuno malvagio, per qualcuno che, se non si amasse, si detesterebbe.” GUARITORE GALATTICO (1967). “Vi piacciono le cose belle. Una donna come quella può passarvi sopra come un tappeto e voi vi sentireste lusingato del trattamento.” FOLLIA PER SETTE CLAN (1963-4). “Nel suo studio sulla forma che il masochismo assume nell’uomo moderno, Theodor Reik avanza un’ipotesi interessante. Il masochismo è più diffuso di quanto non ci rendiamo conto perché assume una forma attenuata. La dinamica fondamentale è la seguente: un essere umano vede qualcosa di brutto che sta giungendo inevitabilmente. Non ha alcun potere di impedirlo; è impotente. Questo senso di impotenza genera la necessità di assumere un certo controllo sul dolore incombente… qualsiasi genere di controllo va bene. Questo ha un senso; la sensazione soggettiva di impotenza è più dolorosa dell’incombente infelicità. Così la persona afferra il controllo della situazione nell’unico modo che le resta: collabora nel tirarsi addosso l’infelicità incombente; l’affretta. Questa attività fornisce la falsa impressione che goda  del dolore. Non è così. È solo che non può più sopportare il senso di impotenza, o di supposta impotenza.VALIS (1978). 

martedì 18 ottobre 2016

Oblio


L’oblio si contrappone alla morte in quanto permette ad ogni individuo di “smettere di essere” “ciascuno a suo modo”. In questo cercare di “smarrire sé stessi” “il cercatore di oblio trova nel bere, nelle droghe, nella follia, nella simulazione la promessa che il suo sogno si realizzi… ma la promessa non viene mai mantenuta. Ci è consentito soltanto un piccolo assaggio di oblio, quel tanto che basta ad accrescere l’appetito, il desiderio di gustarne di più.” LA CONQUISTA DI GANIMEDE (con Ray Nelson 1964). Da uno dei primi racconti del 1953 I PIFFERAI in cui un caporale di stanza in un pianeta lontano ad un certo punto crede di essere diventato una pianta alla richiesta che il protagonista Seth Morley di LABIRINTO DI MORTE (1968) fa all’Intercessore, una misteriosa potenza divina: “mi piacerebbe essere una pianta del deserto (…) poter vedere il sole tutto il giorno. Voglio crescere. Forse un cactus su un pianeta caldo. Dove nessuno venga a disturbarmi.”; fino alla richiesta più radicale di Barney Mayerson a Palmer Eldritch di essere trasformato in una pietra, con la conseguente risposta: “Ascolta Mayerson; essere una pietra non è ciò che vuoi realmente. Quello che vuoi è la morte.” LE TRE STIMMATE DI PALMER ELDRITCH (1964). E allora oblio e morte di nuovo si confondono insinuando dentro di noi: “tutto lo sfacelo dell’universo; il freddo, la malattia e l’oblio eterno.” RADIO LIBERA ALBEMUTH (1976). 

martedì 11 ottobre 2016

Invisibilità


“Disteso, senza bisogno di parlare, senza bisogno di muoversi. Senza essere costretto a occuparsi di qualcuno o di qualche problema. E nessuno saprà dove sono, si disse. Questo gli pareva, inspiegabilmente, molto importante; voleva essere sconosciuto e invisibile, vivere non visto.” UBIK (1966). Non un vero e proprio desiderio di non esserci, di perdere presenza, ma piuttosto un esserci senza il pegno della fatica che questo comporta, del duro lavoro legato al mestiere del vivere. Tutt’altro problema ha Richard Kongrossian, il pianista psicocinetico di I SIMULACRI (1963) che dichiara al proprio psicoterapeuta: “dottore mi sta succedendo qualcosa di spaventoso. Sto diventando invisibile. Nessuno può vedermi. Possono soltanto sentire il mio odore; mi sto trasformando in nient’altro che un odore repellente!” La diagnosi del dottor Superb sarà di una “crisi del senso d’identità” dovuta allo sgretolamento della struttura compulsiva-ossessiva con la inevitabile conseguenza della “comparsa di una psicosi palese.” E ancora l’invisibilità di un uomo fin troppo visibile, un uomo dello spettacolo che improvvisamente diventa sconosciuto a tutti. Ma anche in questa situazione estrema non può non pensarsi come uomo dello spettacolo e contemporaneamente nello spettacolo, immaginando di presentarsi al pubblico nella sua nuova situazione: “poteva quasi sentire la sua voce fuori campo che introduceva il servizio: -Cosa può succedere a un uomo, un brav’uomo senza precedenti penali, un uomo che un giorno, all’improvviso, perde tutti i suoi documenti e si trova a fronteggiare…- Eccetera. Li avrebbe incollati allo schermo, tutte e trenta i milioni di spettatori. Perché era quello che ognuno di loro temeva. –Un uomo invisibile- avrebbe proseguito, -eppure un uomo persino troppo appariscente. Invisibile nella legalità, appariscente nell’illegalità.SCORRETE LACRIME, DISSE IL POLIZIOTTO (1978). Ma se c’è un’invisibilità paradossale ed estrema è quella di diventare invisibili dentro pur rimanendo visibili fuori: “Mentre parlava, cominciò a scomparire. Lui la guardò andarsene; era stupefacente. Gloria, nel suo tono pacato, si cancellò dall’esistenza, parola dopo parola. Era la razionalità al servizio di… be’, pensò, al sevizio del non-essere. La sua mente si era trasformata in una grande, efficace gomma per cancellare. Tutto ciò che realmente rimaneva, in quel momento, era il suo guscio; vale a dire: il suo corpo privo di occupante.VALIS (1978). Concludiamo questa carrellata sull’invisibilità con quella più dolorosa, quella di chi sarà perduto proprio per l’impossibilità di divenire invisibile: “-Sono invisibile- si disse. Era una battuta del ‘Sogno di una notte di mezza estate’, che aveva rappresentato a scuola. Una battuta di Oberon, e la parte l’aveva interpretata lui. Dopo di che, nessuno poteva più vederlo. Forse funzionava anche ora. Forse l’incantesimo funzionava anche nella realtà. Ripeté: -Sono invisibile.- Ma sapeva che non era vero. Si vedeva ancora le braccia, le gambe e le scarpe, e sapeva che tutti gli altri, l’uomo del furgone, soprattutto, e sua madre e suo padre, potevano vederlo. Se guardavano. Era lui che cercavano questa volta.LE PRE-PERSONE racconto (1974).

martedì 4 ottobre 2016

Intelligenza



L’intelligenza è ciò che caratterizza l’essere umano? Per Philip K. Dick la risposta è affatto negativa dato che: “qualche grado di intelligenza si poteva trovare in qualsiasi specie di ordine animale, ‘arachnida’.” Tanto è vero che “nessun test di intelligenza avrebbe identificato un droide del genere.1 Ma in fondo i test d’intelligenza erano anni che non identificavano più un droide, dopo i successi ottenuti con i modelli primitivi e rozzi degli anni Settanta.MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? (1966). L’intelligenza ha un’essenza eminentemente pratica: “è l’essere capaci di riconoscere subito le cose che ci sono vantaggiose. L’intelligenza deve esserci utile, altrimenti non è vera intelligenza.NOI MARZIANI (1962). Anche se va usata con parsimonia se non vogliamo che ci si ritorca contro: “Siamo gli ultimi nel nostro genere… come i dinosauri. Abbiamo portato l’intelligenza fino al livello massimo a cui può arrivare. Troppo avanti, forse. Siamo arrivati al punto in cui sappiamo tanto, e pensiamo tanto, che non riusciamo ad agire.NON SAREMO NOI racconto (1954). In conclusione la morale della storia è che “la misura di un uomo non è la sua intelligenza. Non è il livello che può raggiungere nel sistema dei fenomeni di natura. La misura di un uomo è questa: con quanta rapidità sa reagire ai bisogni di un’altra persona? E quanto di se stesso può dare?NOSTRI AMICI DA FROLIX 8 (1968-9).

  1. Il modello dell’ultima generazione Nexus-6

martedì 27 settembre 2016

Esperienza


Non di tutto ciò che percepiamo come esperienza possiamo essere certi che lo sia realmente e non solo illusoriamente vissuta come tale. “ciò che vedi non è il mondo, ma una rappresentazione che si forma nella tua mente, creata dalla tua mente. Conosci solo per fede tutto ciò di cui hai esperienza. Ed è anche possibile che tu stia sognando.” E ancora più drasticamente: “Camminando, mi resi conto che ero io, in un senso molto reale, a creare il mondo di cui avevo esperienza. Creavo il mondo, e al tempo stesso lo percepivo.” LA TRASMIGRAZIONE DI TIMOTHY ARCHER (1981). Ma se l’esperienza più immediata non ci garantisce della sua buona fede, proprio quella più allucinatoria potrebbe per contro essere rivelatrice di un barlume di verità: “Quello che avevo visto nel marzo del 1974 quando avevo percepito la sovrapposizione dell’antica Roma e della moderna California consisteva in esperienza reale di ciò che avviene normalmente visto soltanto dall’occhio interiore della fede.” VALIS (1978). Decisivo rimane però saper distinguere tra quellE che potremmo definire “buone” e “cattive” allucinazioni. Le prime sono rivelazioni, aperture a una coscienza più profonda della realtà (quelle tipiche dei mistici o di alcuni artisti per intenderci), le seconde appartengono alla follia e alla psicosi. “l’arresto del tempo. La fine dell’esperienza, di ogni cosa nuova. Quando la persona diventa psicotica, non le accade più niente.” NOI MARZIANI (1962). Difficile comunque rimane chiarire cosa sia un’esperienza autentica, suscettibile ad aprirsi alla realtà vera: “Nessuna parola va bene. È questo il punto: non può essere descritto. Bisogna provarlo.” I SEGUACI DI MERCER racconto del 1964. E per noi comuni mortali, privi di esperienze assolute? C’è sempre la possibilità dell’esperienza del soffrire: “soffrire è morire ed essere vivi allo stesso tempo. L’esperienza più assoluta, più totale che si possa trovare.” SCORRETE LACRIME, DISSE IL POLIZIOTTO (1970). 

martedì 20 settembre 2016

Divinazione



La divinazione, in particolare nella consultazione del libro dell’ I Ching, è protagonista indiscussa del romanzo L’UOMO DELL’ALTO CASTELLO (LA SVASTICA SUL SOLE) (1961). Quel “libro creato dai saggi della Cina durante un periodo di cinquemila anni, vagliato e perfezionato; quella cosmologia – e quella scienza – superba, codificata prima ancora che l’Europa avesse imparato a fare le divisioni.” In mancanza di questo testo specificatamente divinatorio ci si può arrangiare con una classica Bibbia, come in SENSO INVERSO (1965) “trovò una Bibbia di Gideon, -Potrei leggere questa- disse lei, sedendosi di nuovo. –Formulerò una domanda e poi l’aprirò a caso; si può usare la Bibbia in questo modo. Io lo faccio sempre.- Due sono gli aspetti importanti da sottolineare qui: il primo è quello del caso ; l’apertura a caso di un libro sacro, che sia l’I Ching, la Bibbia o il libro di Specktowsky, come in LABIRINTO DI MORTE (1968) è “un metodo caldamente raccomandato”;  e il secondo è la negazione, il rifiuto a rispondere a domande che l’oracolo o la divinità, come succede in VALIS (1978), ritiene prive di significato. “Sei Valis? – chiesi. Sophia disse: - Sono quello che sono -. Voltandomi verso Eric e Linda, dissi: - Non risponde sempre -. Alcune domande sono prive di significato – disse Linda.” Caso da parte dell’interrogante e capriccio da quello dell’interrogato; il futuro evocato si dispiega ai nostri occhi in un intreccio che ingarbuglia ancor più la già complicata trama del nostro vivere. Ma il mondo di Dick dispone di altri mezzi per scrutare il futuro: una numerosa schiera di precog che incarnando il potere della preveggenza rendono di fatto obsoleti libri e oracoli.

martedì 13 settembre 2016

Guerra


“Dal fondo della sua opera Dick non cessa di ripetere un unico enunciato: ‘La guerra. Sempre la guerra’ (Tony and the Beetles, TONY E I COLEOTTERI, 1953). Non ha avuto inizio, non ha data di nascita, non ha un’origine definita che permetta di identificarne i motivi: ‘Non c’è stato un momento preciso in cui è cominciata’ (Breakfast at Twilight, COLAZIONE AL CREPUSCOLO, 1954). (…) La guerra, al di là della sua fenomenologia, rimane per Dick la ‘sola vera catastrofe’ (MUTAZIONI p. 89) che ci abbia mai riguardato; più che risolversi in un esercizio descrittivo, questo dato deve essere assunto come orizzonte ideale del nostro mondo, bisogna cioè ‘dare la catastrofe per avvenuta e partire da lì’ (ibid). Nell’universo di Dick si è nello stesso tempo guerriglieri e reduci.”1 Sull’onnipervasività della guerra nell’opera di Dick concorda anche la voce GUERRA di Antonio Caronia nell’Enciclopedia dickiana: “Con gli anni Settanta generali, battaglie, astronavi e missili scompaiono dalle opere di Dick. Non scompare la guerra in quanto tale, che però si allarga, acquista respiro, cambia natura, attori, scenari e finalità.”2 Non ci resta che prendere atto della totale sovrapponibilità tra i romanzi e i racconti di Dick  e la guerra; tanto che la possibilità stessa di eliminare la guerra una volta per tutte deve passare necessariamente attraverso una replica perfetta, simile fin nei minimi dettagli, della guerra stessa: “proponiamo al presidente Mendoza, là nel Campidoglio della nostra nazione, di abolire la guerra e di sostituirla con un centenario della Guerra Civile che copra un arco di dieci anni, e in seguito noi, la fabbrica Rosen, forniremo tutti i partecipanti, i simulacri – anche se il termine corretto sarebbe simulacra, perché è una specie di parola latina – di chiunque. Lincoln, Stanton, Jefferon Davis, Robert E. Lee, Longstreet, e circa tre milioni di modelli più semplici da usare come soldati, che terremo sempre disponibili in magazzino. E avremo battaglie combattute sul serio, con i partecipanti uccisi veramente, questi simulacri su ordinazione fatti a pezzi, invece di una specie di film di serie B interpretato da ragazzini del College che recitano Shakespeare. Capisci il mio punto? Ti rendi conto delle possibilità che offre?L’ANDROIDE ABRAMO LINCOLN (1962).
  1. Fabrizio Denunzio, Pieghe del tempo. I film di guerra e di fantascienza da Philip K. Dick a Matrix. Editori Riuniti, Roma, 2002. pp. 46-47.
      2. Antonio Caronia, Domenico Gallo, Philip K. Dick.La macchina della paranoia Agenzia X, Milano 2006
          http://www.agenziax.it/wp-content/uploads/2013/03/philip-k-dick.pdf   

martedì 6 settembre 2016

Empatia


Il romanzo dickiano dove il concetto di empatia la fa da padrone è indubbiamente MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? (1966). Parlando dell’empatia in Aby Warburg1 Georges Didi-Huberman2 la definisce come quel processo “in cui le forme inorganiche sono incorporate a forme organiche, in cui la ‘vita’ è proiettata sulla ‘cosa’.” “L’incorporazione, agli occhi di Warburg, si presenta come una sorta di ‘fatto psichico totale’ – un processo tanto potente da essere capace, per ‘appropriazione’ della cosa, di costruire l’identità, il ‘sentimento dell’io’, ma anche di distruggerlo attraverso la ‘perdita del soggetto nell’oggetto’. Qui, dunque, trovarsi non esclude che ci si smarrisca.” Ed è proprio in questo trovarsi per smarrirsi che è imperniato l’intero romanzo. Rick Deckard, il cacciatore d’androidi, è l’unico che alla fine ritroverà se stesso, dopo quella lunga giornata in cui da cacciatore diverrà preda, preda soprattutto di se stesso, della propria disumanità, del proprio io divenuto macchina, essenza macchinica. E ritrovare se stesso significherà potersi smarrire in una nuova esistenza in cui il possibile sostituisce il certo, l’inevitabile. “Non ci aveva mai pensato prima, non aveva mai provato empatia personale nei confronti degli androidi che aveva ucciso. Era sempre stato sicuro che la sua psiche avrebbe continuato a considerare gli androidi come macchine molto evolute – al pari della sua coscienza. Eppure, al contrario di Phil Resch, ora si era manifestata una differenza. E istintivamente sentiva di aver ragione. Empatia verso una struttura artificiale? Si chiese.”

1. per la biografia dello storico della cultura Aby Warburg qui 
2. G. Didi-Huberman, L'immagine insepolta. Torino, Bollati Boringhieri, 2006 p. 360


sabato 2 luglio 2016

Dio


Nel racconto di Arthur Clarke “Nove miliardi di nomi di Dio” del 1953, dei monaci buddisti ingaggiano due esperti informatici con relativo super computer per compilare la lista di tutti i possibili nomi di Dio. Alla fine, compiuto lo scopo divino, il mondo dovrebbe svanire. Gli scienziati, nonostante il loro inevitabile scetticismo, dovranno constatare che realmente, alla fine dell’elenco, le stelle del firmamento, una ad una, si stavano inesorabilmente spegnendo. Philip Dick nell’arco di tutta la sua vita prenderà più che sul serio il nocciolo di questo racconto costruendo teorie su teorie, in romanzi, saggi e in quello sterminato lavoro notturno, che lo terrà occupato dal 1974 alla morte avvenuta nel 1982, chiamato Esegesi. Scopo ultimo di tutto questo teorizzare è stato per l’appunto il cercare di esaurire le possibili declinazioni delle teorie su Dio, per permetterne la cancellazione e il subentro, al suo posto, della realtà vera. Fatica infinita, condannata allo scacco permanente e a un regresso all’infinito, riscattato però ogni volta dal desiderio di ricominciare, di provare ancora. Di seguito una carrellata delle sue intricate descrizioni delle possibili rappresentazioni di Dio, molto sofisticata in IN SENSO INVERSO (1965): “L’universo consiste di anelli concentrici di realtà; più grande è l’anello, più esso partecipa della realtà assoluta. Questi anelli concentrici alla fin fine si risolvono in Dio; è lui la fonte di tutte le cose, ed esse sono tanto più reali quanto più gli sono vicine. E’ il principio dell’emanazione, pensò. Il male è semplicemente una realtà inferiore, un anello più distante da Dio. Dimostra la mancanza di una realtà assoluta, non la presenza di una divinità malvagia.” Molto più grezza, dal sapore rudemente biblico in L’OCCHIO NEL CIELO (1955) “L’appetito di Tetragrammaton era insaziabile. Una personalità infantile, nebulosa, che esigeva un’adorazione costante… e nei termini più scontati. Facile all’ira, Tetragrammaton era altrettanto disposto all’euforia…”.  In LE TRE STIMMATE DI PALMER ELDRITCH (1964) abbiamo una concorrenza diretta con Dio: “-Dio promette la vita eterna- disse Eldritch- Io posso fare di meglio; posso metterla in commercio.” In I NOSTRI AMICI DI FROLIX 8 (1968-9) abbiamo anche la presunta morte di Dio: “-Hanno trovato la sua carcassa nel 2019. Galleggiava nello spazio vicino ad Alpha.- -Hanno trovato i resti di un organismo che era parecchie  migliaia di volte più progredito evolutivamente di noi.- disse Charley. .E che evidentemente era in grado di creare mondi abitabili e di popolarli con esseri viventi derivati da se stesso. Ma questo non prova che fosse Dio.- -Io penso che fosse Dio.-“ Ma anche senza dover morire, nello stesso romanzo circolano strane leggende che ne limitano comunque la presunta onnipotenza: “-Lascia che ti racconti una leggenda su Dio- disse Morgo. –In principio egli creò un uovo, un uovo enorme, con una creatura al suo interno. Dio cercò di aprire il guscio per fare uscire la creatura… la prima creatura vivente. Ma non ci riuscì. Tuttavia la creatura che egli aveva creato possedeva un becco acuminato, fatto appunto per quello scopo e così si aprì un varco attraverso il guscio. E di conseguenza… ora tutte le creature viventi dispongono del libero arbitrio.- -Perché?- -Perché siamo stati noi a rompere l’uovo, non Dio.- -E perché questo ci darebbe il libero arbitrio?- -Perché, dannazione, noi possiamo fare quello che Dio non può fare.-“ 

venerdì 24 giugno 2016

Entropia


“Nessuna struttura, nemmeno una artificiale, gradisce il processo entropico. È il destino ultimo e ogni cosa vi si oppone.” Sono le parole molto sagge del robot Willis in GUARITORE GALATTICO (1967) alle quali il riparatore di vasi Joe Fernwright ribatterà: “e il Glimmung si aspetta di arrestare questo processo? Se è il destino ultimo di tutto, allora il Glimmung non può fermarlo. Glimmung è condannato in partenza. Fallirà, e il processo andrà avanti.” E ancora Willis: "Laggiù, sott’acqua (…) il processo di disgregazione è l’unica forza in atto. Ma qui sulla terraferma, una volta recuperata la cattedrale, ci saranno altre forze che non opereranno in senso disgregativo; forze di riparazione, di rinnovamento. Forze che costruiranno, ricomporranno, creeranno forme, e nel suo caso, Mr. Fernwright, restaureranno. È per questo che lei è così necessario. È lei, insieme a tutti gli altri, che col suo lavoro, con le sue capacità, potrà prevenire il processo disgregativo. Capisce, Mr. Fernwright?” Il tema entropico o il “distruttore formale” è presente in tutta l’opera dickiana; ne costituisce uno dei cardini principali e sarebbe lungo e un po’ inutile farne una panoramica esaustiva. Riportiamo qui una descrizione da LABIRINTO DI MORTE (1968) “Altre stelle si spensero. Tallchief vedeva la forza dell’entropia, i poteri del Distruttore Formale, ridurre le stelle a semplici bagliori agonizzanti e poi annegarle in un silenzio come di sabbia. Un manto di energia  termica gravava uniformemente sul mondo, su quello strano e minuscolo mondo che non gli offriva ne amori ne scopi. Sto morendo, comprese. L’universo. Il manto di calore si stemperò fino a diventare una sottilissima barriera, niente di più; il cielo brillò stancamente e poi cominciò a tremolare. Anche l’uniforme energia termica stava agonizzando. Com’è strano e maledettamente spaventoso, pensò. Si levò in piedi, fece un passo in direzione della porta. Morì così, in piedi.”  Concludiamo con un’efficace citazione da VALIS (1978) “Horselover Fat proseguì nella sua lunga, insidiosa discesa nel dolore e nella malattia, in quel tipo di caos che gli astrofisici dicono attenda l’intero universo. Fat era avanti al suo tempo, avanti all’universo. Alla fine si dimenticò quale evento avesse dato inizio alla discesa nell’entropia; Dio, misericordiosamente, ci nasconde il passato, oltre al futuro.”

sabato 11 giugno 2016

Rushmore


Rushmore o “IoT” (Internet of Tinghs) “è un concetto, non una singola tecnologia che potete acquistare in negozio”1 “Diede una manata sul tavolo, e quello fece un salto, mettendosi poi freneticamente a radunare i piatti vuoti come un animale spaventato. Quindi schizzò via dalla stanza e sparì in cucina” in FOSTER, SEI MORTO, racconto del 1955, uno dei primi coloriti esempi dell’effetto Rushmore inventato da Dick.  Se lo spaesamento  degli oggetti che acquistano vita propria ha trovato l’immagine più inquietante nella loro rivolta proprio contro l’uomo che li ha costruiti, come accade per esempio nei film di Buster Keaton, con Dick questa ribellione, da autonomo sintomo d’insofferenza fine a sé stessa, diventa disobbedienza nei confronti dell’utente e servilismo verso il potere che li ha progettati e li sfrutta a proprio vantaggio.  È peraltro una rivolta non più muta, che parla ma non dialoga, se non per riconfermare la propria posizione irremovibile. “Con un balzo si alzò, aprì il comodino e tolse le istruzioni. Sì! Era obbligato a sognare ogni volta che adoperava il letto… a meno che… certo, a meno che non avesse azionato la leva del sesso. Lo farò, decise. Gli dirò che sto conoscendo una femmina in senso biblico. Tornò a stendersi e attivò il circuito di sonno. – Il tuo peso è di sessantatré chilogrammi e quattrocentoventi grammi, - disse il letto. – E su di me è appoggiato esattamente questo peso. Per cui non sei impegnato nella copulazione. – Il meccanismo disinserì il circuito di sonno , contemporaneamente, il letto iniziò a riscaldarsi; sotto il corpo di Joe gli avvolgimenti divennero decisamente caldi. Non poteva stare a discutere con un letto arrabbiato. Joe attivò il sincronismo sonno-sogno e chiuse gli occhi rassegnato.” GUARITORE GALATTICO (1967). Tra i più famosi, ed esilaranti, effetti rushmore i più ricordano il frigorifero e la porta di casa di Joe Chip in UBIK (1966); ma vanno ricordati anche il distributore di giornali, la teiera, i taxi automatici e soprattutto il dispositivo salvavita dell’armadietto dei medicinali di I GIOCATORI DI TITANO (1963): “L’armadietto dei medicinali disse: - Signor Garden, mi sto mettendo in contatto con il dottor Macy a Salt Lake City, a causa delle sue condizioni. - - Ma quali condizioni? – Fece Pete. Rimise in fretta le capsule di Enfital nel loro flaconcino. – Visto? – Restò in attesa. - È stato soltanto un gesto, una cosa momentanea. – Eccolo qui a supplicare l’Effetto Rushmore del suo armadietto… macabro. – D’accordo? – Gli chiese speranzoso. Un clic. L’armadietto si era chiuso. Pete sospirò di sollievo. Il campanello suonò. Che altro succede? Si chiese, attraversando l’appartamento in cui aleggiava un vago odore di muffa, il pensiero ancora ai sonniferi che poteva prendere… senza attivare il circuito d’allarme dell’effetto Rushmore.”

giovedì 9 giugno 2016

Sessualità



“Lui le si avvicinò e fecero ciò che entrambi desideravano. La donna era ben fatta, passionale ed esperta. Nessuno dei due parlò finché Tany disse: - Oh! – e poi si rilassò.” LA FEDE DEI NOSTRI PADRI racconto del 1967. Meno prosaicamente nello stesso racconto il fare all’amore viene paragonato alla capacità di fondersi1 con l’universo e di annullare il tempo. Di ben altro tenore invece le prestazioni che “l’agenzia di ragazze da divertimento” mettono a disposizione in LOTTERIA DELLO SPAZIO (1953-4): Ted Barteley “si fece la barba, si rivestì, pagò a Lori la tariffa stabilita e rimandò la ragazza all’agenzia.” Tutto molto scarno e scialbo, eppure non privo di una certa tenerezza quando nel successivo incontro casuale tra i due, lei gli dona un portafortuna per essere stato gentile nei suoi riguardi. In E JONES CREO IL MONDO (1954) troviamo un’altra modalità di fare sesso, esibizionista e trasgressiva: “I due attori sul palco, dai corpi professionalmente agili e sinuosi, avevano cominciato a fare l’amore. L’atto veniva consumato come un rituale: era stato compiuto talmente tante volte da trasformarsi in una serie di passi di danza, privi di passione o intensità. Quasi immediatamente, mentre il ritmo saliva, l’uomo cominciò a mutare sesso. Dopo poco si trattava dei movimenti ritmici tra due donne.. Poi verso il finale, l’attrice che in un primo momento si era presentata in vesti femminili, si trasformò in un uomo. E la danza finì come era iniziata: con un uomo e una donna che facevano tranquillamente l’amore.” Però la più bella descrizione di un rapporto sessuale la troviamo in LE TRE STIMMATE DI PALMER ELDRITCH (1964) e merita una citazione più lunga del solito: “posò a terra la sua lampada e tornò da lui a braccia aperte. – Prendimi – disse. – Non qui. È troppo vicino all’entrata. - Aveva paura.  – Dove ti pare. Prendimi qui. – Gli gettò le braccia al collo. – Adesso – esclamò. – Non aspettare. – Non aspettò. Prendendola in braccio, la portò lontano dall’entrata. – Caspita – disse lei, quando la mise giù nel buio; subito ansimò, forse per il freddo improvviso che si riversò su di loro, penetrando i loro abiti pesanti che non servivano più, che in effetti erano un ostacolo al vero calore. Una delle leggi della termodinamica, pensò. Lo scambio di calore; molecole che passano tra di noi, le sue e le mie che si mescolano in… entropia? Non ancora, pensò. – Oddio – disse lei, nel buio. – T’ho fatto male? - - No, scusami. Continua. – Il freddo gli addormentava la schiena, le orecchie; scendeva dal cielo. Lo ignorò come meglio poteva, ma pensava a una coperta, a uno spesso strato di lana… strano, preoccuparsi di questo in un momento del genere. Sognò la sua morbidezza, le fibre che gli grattavano la pelle, la pesantezza. Invece dell’aria fredda, sottile, frigida, che lo faceva ansimare con grandi singulti, come fosse finita. – Stai… morendo? – chiese lei. – È  solo che non riesco a respirare. Quest’aria. -  - Povero, povero… Dio santo. Ho dimenticato come ti chiami. - - Che accidenti di situazione. - _ Barney! – Lui s’aggrappò a lei. – No! Non ti fermare! – Lei inarcò la schiena. Le batterono i denti. – Non volevo fermarmi – disse lui. Lei mugolò. Lui rise. – Ti prego, non ridere di me. - - Non ti volevo offendere. – Quindi un lungo silenzio. Poi un profondo respiro. Lei sobbalzò, galvanizzata, come sopraffatta dalla scarica di un esperimento scientifico. Gli apparteneva, pallida, dignitosa, svestita: trasformata nel sistema nervoso alto, snello e scolorito di una rana; riportata in vita da uno stimolo esterno. Vittima di una corrente che non le apparteneva, ma che comunque accettava. Lucida e reale, consenziente. Pronta da tempo infinito. – Stai bene? - - Sì – disse lei. – Sì, Barney. Certamente, benissimo. Sì! -“ E infine la più corta in MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? (1966) “Accidenti, vieni a letto – disse Rachael. Lui ubbidì.

  1. Voce: Fusione http://una-stanza-per-philip-k-dick.blogspot.it/2016/05/fusione.html 

giovedì 2 giugno 2016

Telefono



Questa voce dovrebbe più correttamente chiamarsi “Internet”, ma ai tempi di Dick non esisteva ancora e allora lui ha pensato bene di inventarsi una rete telefonica con tanto di dipendenza e assuefazione connesse. “- L’hai  mai fatto per telefono? – chiese Alys, eccitata, con occhi raggianti. – Fatto cosa? – La rete. Non conosci la rete telefonica? – No – rispose lui. Anche se non era vero. – Le tue inclinazioni sessuali, o quelle di chiunque, vengono collegate elettronicamente e amplificate fino ai limiti di sopportazione. È una cosa che dà assuefazione, per via dell’amplificazione elettronica. Certa gente finisce in un’immersione così profonda da non riuscire più a riemergere. Le loro vite cominciano a dipendere dal collegamento settimanale, o magari addirittura quotidiano, con la rete telefonica. Si usano normali videotelefoni, attivati con la carta di credito, per cui sul momento non si paga. I gestori mandano una bolletta mensile e, se non arriva il denaro, si viene esclusi dalla rete. – Quante persone si collegano? - - Migliaia. - - Migliaia per volta? – Alys annuì. – Molti di loro lo fanno da due o tre anni. E hanno subito un deterioramento fisico e mentale. Perché la parte di cervello che prova l’orgasmo finisce gradualmente col bruciarsi. Ma non farti dei pregiudizi su queste persone. In rete si trovano alcune delle menti più brillanti e sensibili del pianeta. Per loro si tratta di una sacra comunione. A parte il fatto che puoi individuare subito un retaiolo, se lo vedi. Sono tutti disfatti, invecchiati, grassi, irrequieti… Irrequieti solo tra un collegamento in rete e l’altro, ovviamente. – E tu lo fai? – Alys non sembrava affatto disfatta, invecchiata, grassa o irrequieta. – Ogni tanto. Ma non mi lascio mai agganciare. Mi scollego appena in tempo. Vuoi provarci? – No.” SCORRETE LACRIME, DISSE IL POLIZIOTTO (1970). Ma ancora tre anni prima in GUARITORE GALATTICO (1967)1 Dick aveva già inventato il “gioco”, un tipo particolare di impegno ludico collettivo che si svolge tramite il telefono e un computer centrale: “L’energia, la capacità di trascorrere la vita gingillandosi con cose inutili, senza un lavoro degno di quel nome e, al suo posto, la parata del banale, del banale scelto volontariamente da noi, perché è su questo che abbiamo costruito il Gioco. Il contatto con gli altri… Sì, con il Gioco affondiamo un bisturi nel corpo dell’isolamento e lo spezziamo. Spingiamo il capo all’esterno, ma cosa vediamo realmente? Immagini allo specchio di noi stessi, le nostre espressioni esangui, fiacche, che non si dedicano ad alcuna cosa in particolare, per quanto io possa penetrare in profondità per capire. La morte è vicinissima quando nascono in noi questi pensieri. Riesco a percepirla. Ci sono quasi. Non c’è nulla che mi stia uccidendo… non ho nemici, non ho antagonisti. Sto soltanto scadendo come l’abbonamento a una rivista, mese dopo mese. Sono troppo svuotato per partecipare ancora. Anche se loro, gli altri che si dedicano al Gioco, hanno bisogno di me, del mio misero contributo.”

“In alcune basiliche, i confessionali sono dotati di telefono. Non tanto perché il confessionale si stia attrezzando di un nuovo mezzo di comunicazione. Piuttosto, perché il telefono è un mezzo confessionale.
Clara Gallini2

Sempre in Guaritore galattico Dick non si lascia scappare questo aspetto del telefono come mezzo confessionale, al costo di una semplice monetina da 10 cent si può scegliere tra una confessione3 zen, puritana, cattolica, mussulmana o giudaica. 

note:
1. per una prima analisi di questo romanzo e in particolare delle caratteristiche del Gioco vedi: http://una-stanza-per-philip-k-dick.blogspot.it/2016/02/guaritore-galattico.html 
2. Clara Gallini in "Problemi del Socialismo" 1988 poi ristampato
in Cyberspider, Manifestolibri 2004, p. 144.

sabato 21 maggio 2016

Lacrime


“…soffrire è morire ed essere vivi allo stesso tempo. L’esperienza più assoluta, più totale che si possa provare. La forza. A volte giurerei che non siamo stati creati per superare un ostacolo simile. È troppo. Il corpo arriva quasi a distruggersi, con tutti quei sussulti, quelle contorsioni. Ma io voglio provare dolore. Versare lacrime.”

Scorrete mie lacrime, dalla vostra fonte sgorgate!
Per sempre esiliato, lasciatemi gemere;
dove il nero uccello della notte
la triste infamia di lei canta,
lì lasciatemi vivere sconsolato.


“Scorrete, mie lacrime – pensò. – Il primo brano di musica astratta mai scritto. John Dowland nel suo secondo libro di composizioni per liuto, nel 1600. Lo ascolterò sul mio nuovo impianto quadrifonico, appena sarò a casa. Così potrà ricordarmi Alys e tutti gli altri. E ci saranno una sinfonia e un fuoco e tutto sarà calore.” SCORRETE LACRIME, DISSE IL POLIZIOTTO (1970). Sentirsi morire  ed essere vivi, e forse sentirsi vivi proprio nel sentirsi morire. Le lacrime dickiane, che compariranno ancora come lacrime di androidi (MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? 1966, VALIS 1978) sono il prodotto del lungo percorso della specie umana che dal lamento di un’angoscia preistorica passando per l’angoscia esistenzialistica borghese moderna arrivano alla melanconica nostalgia di una umanità diventata incapace di reinventarsi, ancora una volta, una rassicurante identità ancorata a una natura squisitamente umana. 

giovedì 19 maggio 2016

Suicidio


“In fatto di suicidio Eric aveva un punto di vista piuttosto personale e curioso. Nonostante il codice etico che gli imponeva la sua stessa condizione di medico, lui era convinto – e la convinzione si basava su esperienze molto concrete della sua stessa vita – che se un uomo vuole togliersi la vita ha tutto il diritto di farlo. Eric non era in grado di elaborare razionalmente una giustificazione per questo, e non aveva nemmeno cercato di costruirsene una. L’asserzione per lui, era evidente di per sé. Nulla dimostrava che la vita fosse davvero un dono. Magari lo era per qualcuno, ma ovviamente non lo era per altri.” ILLUSIONE DI POTERE (1963). L’idea del suicidio oltre ad essere una faccenda privata compare in tutta l’opera di Dick come un diritto individuale da contrapporre a un potere che vuole infiltrarsi, fin negli interstizi, in tutti i campi della vita. In FOLLIA PER SETTE CLAN (1963-4) il protagonista Chuck Rittersdorf “sentì sorgere dentro di lui, subdolo, quell’impulso familiare; la sensazione che fosse inutile continuare. Il suicidio, per quanto ne dicessero la Legge e la Chiesa, era per lui l’unica vera risposta in quel momento.” Di fronte all’intervento per impedirglielo di un extraterrestre, suo vicino di casa, il ganimediano Lord Running Clam, Chuck ribadisce che “sono affari miei se mi butto o no” , ma la muffa gelatinosa di Ganimede gli replica, citando “alla bell’e meglio” Jacob Bohème, che “nessun terrestre è un’isola”. Ma non ci sono solo i buoni extraterrestri a cercare di impedire questo delitto contro natura, anche le cose, le macchine aiutano; in GIOCATORI DI TITANO (1963) due tentati suicidi vengono sventati prima da una cassetta di medicinali, pronta a dare l’allarme, poi da un aerotaxi robotizzato. Degli innumerevoli casi di suicidio, o tentati o solo desiderati nei romanzi e racconti di Dick, il più sensazionale è quello di Gerson Pole nel racconto LE FORMICHE ELETTRICHE del 1968. Pole scopre di essere un androide e nel colmo della disperazione decide di tagliare il nastro perforato, l’alimentatore di realtà, che si trova all’interno del suo corpo ponendo così fine alla propria realtà. Ma essendo “la realtà oggettiva (…) soltanto un’astrazione sintetica derivante da una ipotetica universalizzazione di una massa di realtà soggettiva” insieme alla scomparsa di Pole anche la realtà di tutti gli altri scompare di conseguenza. La prova provata che nessun uomo è un’isola.

sabato 14 maggio 2016

Fusione


Un androide che nascesse oggi proverebbe quel tipo terribile di esperienza che per il genere umano appartiene al suo lontano passato, quello di essere stato separato, strappato da una sorta di fusione col mondo. “Per noi lo strappo risaliva a un lontano passato; per il Lincoln si era appena verificato… stava ancora avvenendo.” L’ANDROIDE ABRAMO LINCOLN (1962).  Ritrovare, o almeno riprovare momentaneamente a ricucire quello strappo primordiale rimane un desiderio insopprimibile per l’uomo. Assolutamente vitale per chi, come i coloni dell’inospitale pianeta marziano sono costretti a vivere in una condizione di forzato isolamento. In un rito con bambole e facendo uso di una droga, il Can-D, i coloni di LE TRE STIMMATE DI PALMER ELDRITCH (1964) si trovano uniti e sperimentano una fusione grazie alla quale “venivano traslati fuori dal tempo e dallo spazio locali.” Quando poi il rito della fusione diventa religioso come nel nuovo culto di Peak, costola eretica della Chiesa Episcopale di IN SENSO INVERSO (1965) l’esperienza della “mente collettiva, rappresentava il sacramento centrale” esperibile “grazie all’assunzione di una droga allucinogena”. “I rapporti più attendibili, basati sulla testimonianza di prima mano di agenti infiltrati, stabilivano categoricamente che la fusione della mente collettiva era reale, non immaginaria”. E ancora nella religione di Mercer in MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? (1966) la fusione grazie alle scatole empatiche è tramite di una comunione collettiva di sofferenza e riscatto nella salita di una montagna, una simbolica montagna sacra. Ma infine il miglior modo per tentare di sanare la frattura originale tra noi e il mondo rimane sempre quella, pur nella sua precarietà, di fare l’amore. Perché “fare l’amore è spostarsi fuori dal tempo, non ha confini, è come un oceano. È come nell’età cambriana, prima che migrassimo sulla terra. È come se fossimo avvolti nelle antiche acque primordiali. È l’unico modo che ci permette di tornare indietro nel tempo. Per questo è così importante. In quei lontani giorni, noi non eravamo divisi. Tutto era come un’enorme gelatina, con gocce in superficie che fluttuavano come fa la schiuma sulla spiaggia.” Nel racconto LA FEDE DEI NOSTRI PADRI del 1967.

sabato 6 febbraio 2016

Guaritore galattico


“…e con passaggi veloci lo portò fin nel cuore dei mari,
dove le profondità turbinanti lo succhiarono al fondo
per diecimila di tese e le alghe gli s’avviticchiarono
intorno al capo e tutto il mondo marino del dolore gli
trascorse sul capo.”
Melville, Moby Dick (nella traduzione di C. Pavese)
Guaritore galattico
(Le citazioni dall’opera di Dick sono tratte dalla traduzione di Pietro Anselmi, Bompiani 1998.)
Da dove partire per parlare di un romanzo così ingarbugliato che suscita pareri contrastanti tra i critici e di fatto negletto all’autore stesso?1 Forse dall’elemento meno considerato, più sottaciuto in generale, quello che il protagonista Joe Fernwight pensa come l’unica cosa destinata a rimanere in una vita priva di valore, il Gioco2. In questa sorta di rete telefonica in cui si gioca una specie di gara a risolvere indovinelli basati sulla decodificazione di traduzioni di titoli di libri e film, fatti da computer che creano non-sense linguistici, il romanzo predispone, fin dalle sue prime battute, una sorta di impresa collettiva che ha il compito di rimettere a posto dal punto di vista linguistico quello stesso disordine del mondo a cui da un punto di vista materiale il riparatore di vasi3 è idealmente predisposto. Per cui “L’intelaiatura a traliccio Arma-da-fuoco Insetto che punge” si risolve nel romanzo di F. S. Fitzgerald “Il Grande Gatsby”, “La Progenie Maschile Si Alza dal Letto in Aggiunta” in “Il sole sorge ancora”4 e così via: E’ il Gioco, ragazzi! E’ quella “capacità di trascorrere una vita gingillandosi con cose inutili, senza un lavoro degno di quel nome e, al suo posto, la parata del banale, del banale scelto volontariamente da noi, perché è su questo che abbiamo costruito Il Gioco. Il contatto con gli altri… Sì, con il Gioco affondiamo un bisturi nel corpo dell’isolamento e lo spezziamo.”5 E anche se alle volte ci si sente troppo svuotati “per partecipare ancora” non possiamo non concordare con Joe  che “loro. Gli altri che si dedicano al Gioco, hanno bisogno di me, del mio misero contributo.” E pertanto quando Joe, sfiduciato dagli insuccessi della gara, cade preda dello sconforto del fallimento eccolo percepire di nuovo “nel proprio corpo l’inizio di una tenue reazione, una specie di fotosintesi… una raccolta delle energie rimanenti che si muovono d’istinto.” E’ “lo sforzo biologico del suo corpo” che lotta “per rivendicare un equilibrio fisico”. E’ in questo quadro che la nuova sfida, quella del Glimmung (la potente divinità aliena), viene lanciata all’umile restauratore di vasi Joe Fernwright. Una grande impresa collettiva che si prefigge, nientemeno che, di risollevare dal profondo di un oceano di un lontano pianeta un’autentica cattedrale dotata di poteri arcani contro la sfida routinaria di un machiavellico gioco di indovinelli. Ma vediamo innanzitutto in quale mondo vive questo artigiano che “ripara vasi; praticamente qualsiasi tipo di oggetto in ceramica proveniente dai Vecchi Tempi, prima della guerra, quando non tutto era fatto di plastica”; è un pianeta Terra “agli inizi di aprile, anno 2046, nella città di Cleveland” che si è rapidamente sovrappopolato dopo una non meglio precisata guerra mondiale. Avere un lavoro è un lusso, lo stesso Joe riceve rarissime commissioni e vive faticosamente del sussidio governativo quotidiano per reduci, denaro con cui comprare velocemente il necessario prima che l’inflazione ne decurti irrimediabilmente il potere d’acquisto. Come gli abitanti del villaggio del Castello di Kafka gli abitanti del villaggio globale terrestre del 2046 sono “controllati dal governo e dai suoi impiegati anche nei dettagli più intimi della loro vita ed asserviti anche nei loro pensieri a quelli che hanno il potere” per loro “l’aver torto o ragione era un destino in cui non è dato di mutare nulla.”6 E’ un asservimento completo, un potere disciplinare del corpo fin nei minimi dettagli: ad esempio nel ritmo del camminare,7 o nel controllo della mente: con l’interrogatorio telepatico della polizia o ancor più con l’attività onirica irreggimentata in un sogno unico obbligatorio. Ed  eccoci qui a un punto centrale, il sogno del protagonista, quello che ci potrebbe sembrare una gag comica fine a se stessa, il letto che non si lascia ingannare e capisce che Joe non sta facendo sesso e quindi lo costringe ad addormentarsi e a sognare, chiarisce in realtà quale sia la posta in gioco dell’intero romanzo, determinare i limiti e le possibilità di un individuo all’interno di un sistema di potere capace di controllare sia i corpi che le menti degli esseri a lui assoggettati. Il sogno a cui Joe è costretto a sottostare è un sogno collettivo frutto di un concorso giornaliero che può far vincere ricchi premi in denaro e che premia il copione vincitore con un “viaggio tutto compreso fuori dalla Terra… in un luogo a vostra scelta!”. Il sogno di quella notte si intitola INCISO IN MEMORIA e vede Joe (come del resto tutti gli esseri umani che stavano dormendo in quel momento) davanti al Segretario del Supremo Consiglio Fiduciario (S.C.F.) mentre questi gli comunica che le lastre incise dal suo laboratorio erano state scelte per stampare il nuovo denaro, “il suo lavoro ha vinto. E’ stato scelto tra gli oltre centomila presentati.” Ma a questo punto nasce il problema, per Joe le nuove banconote dovranno avere il suo volto in effigie, mentre per il S.C.F. solo la firma, e sarà solamente con la ferma risolutezza e con la minaccia di ritirare il proprio lavoro, cosa che determinerebbe il crollo dell’”intera struttura economica della Terra”, che Joe riesce a spuntarla. “E tornando alla mia firma, come fece quel grande eroe del passato, Che Guevara, quel nobile spirito, quell’uomo eccezionale che morì per gli amici, ebbene, in sua memoria sui biglietti scriverò solamente ‘Joe’. Ma la mia faccia deve avere più di un colore… almeno tre.” E sulle lodi e gli applausi del Segretario “la sveglia di Joe interruppe il sogno.” Il sogno di tutti i ‘Joe’ del pianeta mercifica e rende obbligatorio quel ‘cambiare la valuta’ che nel precedente romanzo, Ubik,8 era stato appannaggio di un solo Joe. Il sistema si è fatto furbo, ha imparato; dove Joe Chip poteva essere in una certa misura ancora flaneur e sperperare il proprio denaro, Joe Fernwright non riesce più a farlo, perché è il denaro stesso che si consuma rapidamente nel suo valore effettivo, almeno quello governativo, i buoni del sussidio, mentre l’eventuale tesoretto dei soldi buoni, il denaro vero, quello che si guadagna faticosamente con un lavoro che non c’è, è raro e comunque sottoposto a regole ferree che impediscono appunto di sperperarlo, regalarlo, pena l’arresto immediato come in effetti succede a Joe Fernwright. E’ dunque un sistema che non lascia più spazi, interstizi dietro di se? Vuoti di potere? Certo non possiamo definire Guaritore galattico un romanzo comico, ancor meno una parodia; è un romanzo tragico, che sembra essere chiuso non alla speranza, che Dick non ha mai coltivato, ma al senso del possibile, a quella ricerca sempre disperata del possibile che permea tutta la sua opera. Forse Glimmung è il sogno di Joe, è il sogno che lui può far concorrere per vincere quel “viaggio tutto compreso fuori dalla Terra” verso quel pianeta del contadino con la cattedrale da far riemergere dal profondo dell’oceano. E allora è questo sogno, questo nuovo sogno che può far vincere trentacinquemila briciole, nella moneta del pianeta del contadino, che al cambio terrestre corrisponderebbero a 200.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000 dollari. Un’enormità9, del resto si sa, nei sogni si esagera sempre. Ed è pertanto comprensibile se in un romanzo come questo, più che in altri di Dick, verrebbe voglia di tirar dritto, scorrere la trama a volo d’uccello e fermarsi solo nei punti più interessanti, quelli che evidenziano meglio una tesi piuttosto che un’altra. Si può fare, ma i risultati sarebbero piuttosto impoverenti che il contrario. Non c’è storia, trama inutile nei romanzi dickiana, per quanto spesso sembri che la materia narrativa soverchi il significato, ne travalichi il senso. Bisogna accettarne il gioco, accettarne la sfida dell’eccesso, dell’apparente futilità. Un po’ come si fa con i sogni appunto. Ebbene sfidiamolo allora questo sogno, questo sogno bislacco che vede il Joe di turno ricevere messaggi dalla divinità nello sciacquone del proprio gabinetto. E’ ancora il mondo di Ubik, ma questo Joe è ancora più disperato dell’altro, l’impresa che gli si prospetta sembra architettata da “un’immensa e vecchia creatura. Chiaramente inferma” e da cui ben difficilmente può sperare di cavarci un soldo. Voltando allora le spalle all’ignoto dell’avventura Joe decide di investire il gruzzolo di soldi veri risparmiato in tanti anni, nella consultazione di quel vero e proprio oracolo della futura Terra del XXI secolo che è Mr. Lavoro. Ma per far questo, per dirigersi fuori, all’aperto, alla cabina telefonica che lo metterà in contatto con il consulente del lavoro più costoso e avaro di parole, e quindi di informazioni utili, dovrà attraversare quell’”enorme, animalesca entità ansante che costituiva la massa dei disoccupati – e che del resto non potevano trovare un impiego – di Cleveland” che “si raccoglieva fermandosi lungo i marciapiedi della città. Si fermava ad aspettare, e nell’attesa si fondeva in un ammasso informe, oscillante e triste.” E’ la folla con quel suo “odore penetrante, simile all’aceto, un odore ormai familiare, della loro presenza, della loro compattezza surriscaldata, eccitata e tuttavia tristemente delusa” che avvolgerà Joe, impedendogli di avanzare, di proseguire verso il suo obiettivo. E qui avviene qualcosa di insolito, un’esperienza di quelle che segnano, mutano irrimediabilmente il destino di un individuo. Nell’ansia, nella paura che quella moltitudine voglia strappargli il prezioso sacchetto coi soldi, il cuore gli duole “come se avesse scalato la cima di un monte, la cima ultima della vita stessa, una collina terrificante cosparsa di teschi.” Una paura di essere contaminato, di essere trascinato “nella loro bufera d’apatia” e quando si trovò a dare i suoi soldi a quelle mani protese, ma non violente, capì: “Erano semplicemente là, ad aspettare… ad aspettare in un silenzio fatto di speranza”. “Spaventoso. (…) Questa gente crede che io stia per far loro un regalo… un regalo che attendevano dall’universo… l’universo non ha concesso nulla a costoro, nulla per tutta la vita, e loro lo hanno accettato in silenzio, come adesso. E vedono in me una specie di divinità soprannaturale”. L’arrivo della polizia concluderà con l’arresto l’esperienza di autoconsapevolezza di Joe, quell’autoconsapevolezza che lo porterà nel successivo interrogatorio da parte della polizia a rispondere, in modo esplicitamente sovversivo, che il popolo non è lo stato. E da qui in poi l’andamento da incubo, ma pur sempre realistico, del romanzo cesserà per lasciare posto a un susseguirsi di esperienze surreali che caratterizzeranno l’avventura extraterrestre del protagonista e del suo ingombrante datore di lavoro, il Glimmung. Il viaggio/sogno di Joe è la faticosa esplorazione dei propri limiti e delle proprie possibilità attraverso un’impresa destinata comunque al fallimento. Ma “Forse Glimmung ha ragione, forse anche il fallimento serve a qualcosa (…) il fallimento ci fa conoscere i nostri limiti, traccia i nostri confini.” Ma il Glimmung fa anche qualcosa di affatto diverso dall’insegnare limiti e confini e quindi le potenzialità che ogni individuo è in grado di esprimere; egli mette in dubbio la possibilità di conoscenza di se medesimo che l’individuo pensa di possedere. La verità intima, interiore di un individuo non è da lui conoscibile se non in termini di possibilità di fare. “Nessuna creatura conosce se stessa (…) tu non ti conosci; non possiedi alcuna conoscenza, neppure la più vaga, delle tue potenzialità più intime. Capisci cosa significa per te il Sollevamento? Tutto ciò che è esistito in te in potenza, allo stato latente… ebbene, tutto questo si esplicherà. Tutti coloro che parteciperanno al Sollevamento, ogni essere che si troverà coinvolto nell’impresa… individui provenienti da decine di pianeti sparsi qua e là nella galassia, ebbene… tutti si realizzeranno, tutti saranno. Tu non sei mai stato, Joe Fernwright. Tu esisti solamente. Essere è fare.” Tutto si situa in superficie, al livello dove si producono le pratiche, il fare della vita. E’ un colpo a quel precetto che, a dire di Foucault, ha costituito quel rapporto tra soggetto e verità nell’età moderna in cui “così come esso è, il soggetto è capace di verità, e (…) la verità così com’è, non è capace di salvare il soggetto.”10 Il Glimmung spezza questo ciclo perverso, Si è accusato spesso Dick di essere antimoderno, anzi di non essere mai nemmeno entrato nella modernità11 ma in realtà con Dick siamo ben oltre ogni modernità o postmodernità, e i ponti alle spalle sono stati inesorabilmente tagliati. Non c’è fuga indietro, “Chi desidera tornare sul suo mondo è libero di farlo, - disse Glimmung. – Io provvederò ai biglietti di ritorno… in prima classe. Ma quelli che torneranno indietro troveranno tutto come prima. La stessa vita invivibile. Voi tutti avevate intenzione di autodistruggervi e lo stavate facendo quando vi ho trovati. Ricordatelo. Ecco cosa c’è alle vostre spalle. Non fate in modo di ritrovarvelo di fronte.” ma neanche in avanti, in una qualsivoglia utopia. Alla fine dell’impresa Joe rifiuta la fusione col Glimmung. Joe ha capito “che la verità come e in quanto tale, è capace di trasfigurare e salvare il soggetto”12 ma ha capito anche che la verità non alberga né dentro di lui ne in nessun altro posto. La verità che si situa in un determinato posto, si cristallizza e muore. La sua funzione salvifica permane fintantoché è capace di modificare e cambiare il soggetto che le sta di fronte e che la cerca, e pertanto è una verità che non può mai essere definitiva, l’ultima verità. La storia termina con la decisione di Joe di creare un vaso. Alla fine ci viene detto che “il vaso era orribile”. Ma per la prima volta Joe aveva fatto un vaso invece di ripararlo.
1 “pertanto, fu scrivendo Guaritore che raggiunsi la fine – logoro, morto come scrittore; avevo grattato il fondo del barile e ero morto, dal punto di vista creativo e spirituale. Che tristezza!” dall’Esegesi di P. K. Dick  in Divine invasioni di Lawrence Sutin, Fanucci 2001, pag. 182.
2 Guaritore Galattico è opera innovativa perché sviluppa un metodo intertestuale, fatto di rimandi e di echi letterali, che non riguardano solo la fantascienza, e che rivelano un gusto quasi joyciano evidente nell’attenzione al linguaggio e alle sue manipolazioni, come si coglie subito dal Gioco che impegna gli abitanti della Terra” Carlo Pagetti, Introduzione a Guaritore Galattico, Roma Fanucci, 2001. Pag.11
3 Va qui sottolineato che il vaso, è uno tra gli oggetti più presenti nell’opera di Dick e il suo aspetto di fragilità ne amplifica la sua già forte valenza simbolica. “Come, nella Cabala’, si parla di shviràth hskrlìn, di questi vasi rotti nel momento della creazione, così oggi noi dobbiamo vedere la possibilità di una simile rottura, su una scala tanto vasta quanto la prima, che implichi la totalità dell’Essere. Rottura tra passato e futuro, tra creazione e creatore, fra l’uomo e il suo simile, fra l’uomo e il suo linguaggio, fra le parole e il senso che esse nascondono.” Elie Wiesel, Credere o non credere, La Giuntina 1986.
5 Non siamo poi così lontani dall’idea contemporanea della comunità virtuale dei social network.
6 (H. Arendt, Il futuro alle spalle). Joe arrestato dalla polizia viene lasciato in libertà condizionata per un anno “_Senza un processo?_ chiese Joe. _Vuole essere processato?_ L’ufficiale gli lanciò un’occhiata penetrante. _No._ ammise Joe.”
7 “_Lei cammina troppo lento,” gli notificò l’agente puntandogli una pistola laser Walter & Jones. _Su si spicci o la schediamo._ _Giuro su Dio che andrò più spedito,_ si giustificò Joe. _Mi dia solo il tempo di prendere la mia andatura. Sono appena partito._” D'altronde siamo nel mondo del XXI secolo e anche se Joe potrebbe di fatto sentirsi di appartenere a quella categoria di persone particolari, affini agli artisti, che hanno un attività artigianale e autonoma che rende inutile e controproducente l’affrettarsi, di fatto un’andatura lenta potrebbe associarlo a quella figura del XIX secolo, il flàneur, l’ozioso bohemien descritto da Baudelaire, che nel mondo di Joe risulterebbe affatto eversivo.
Ma ricordiamoci le cifre inflazionistiche della Repubblica di Weimar
10 Michel Foucault, L’ermeneutica del soggetto, Feltrinelli Universale economica pag. 21
11 “Parafrasando un concetto espresso da Michael Hardt e Antonio Negri in Impero, e relativo a un contesto totalmente differente, mentre la fantascienza prefigurava l’uscita  dalla modernità, Philip K. Dick ne contestava addirittura l’entrata.” Domenico Gallo, Avvampando gli angeli caddero, in Paolo Bertetti e Carlos Scolari, Lo sguardo degli angeli,Testo & Immagine, Torino 2002, pag. 207.

12 M. Foucault, cit. pag. 21