domenica 29 agosto 2021

I simulacri

 


Nei «Simulacri» Philip Dick immagina un regime totalitario nel quale il presidente non è umano ma un androide. Tutto il potere ai media... ma è solo fantascienza di Antonio Caronia

Finito di scrivere nell'agosto del 1963 e pubblicato l'anno seguente, The Simulacra fa dunque parte di quella intensa e fortunata stagione (la prima metà degli anni Sessanta del XX secolo) in cui Dick scrisse alcune fra le sue opere migliori, da L'uomo nell'alto castello a Noi marziani, da Le tre stimmate di Palmer Eldritch a In senso inverso (Counter-Clock World). Curiosamente, è anche uno fra i romanzi di Dick che ha avuto più traduzioni in Italia, e più prefazioni: due di Carlo Pagetti (una nell'edizione Nord del 1980, l'altra in questa nuova edizione Fanucci nella collana «Opere di PKD«), una di Sergio Cofferati, e, ultima in tanto Olimpo, addirittura una del sottoscritto (edizione Nord del 1994). Aggiungiamo che uno dei due capitoli che lo psicologo Giorgio Concato dedica a Dick nel suo libro L'angelo e la marionetta (Moretti&Vitali 1996) riguarda proprio questo romanzo. E tanto basti per la bibliografia. I simulacri è un romanzo insieme tipico e atipico per Dick: presenta infatti una concentrazione quasi abnorme di temi, situazioni e figurazioni caratteristiche del nostro autore. Lawrence Sutin scrive che «fra tutte le trame di Phil, questa è forse la più complessa. Purtroppo I simulacri è un'opera affascinante che spreca troppe delle sue migliori idee». Non mi sento di sottoscrivere quest'ultima affermazione. Certo, il piccolo miracolo di incastro e di calibratura delle varie storie in L'uomo nell'alto castello (un libro paragonabile, quanto a complessità di sottotrame) qui non si ripete. Ma lo stesso Sutin è costretto a riconoscere che certe scene «si situano fra le migliori delle opere di Phil degli anni Sessanta». E il romanzo, aggiungo io, contiene almeno due tra i personaggi più memorabili dell'intera opera di Dick (Nicole e Kongrosian). Che cosa racconta I simulacri? Racconta di un mondo ancora una volta (come in L'uomo nell'alto castello) dominato dai nazisti, stavolta però in associazione con i nordamericani: lo stato egemone nel mondo sono infatti gli USEA (Stati Uniti d'Europa e d'America), il cui presidente (der alte, il vecchio, detto in tedesco) si elegge come al solito ogni quattro anni. Ma non è lui a rappresentare la continuità del potere, bensì la first lady Nicole, che sposa i presidenti uno dopo l'altro, appare in televisione, ispira le mode culturali e sociali, assurgendo a principio unificatore della nazione non solo sul piano politico, ma anche esistenziale e ontologico. Sono diversi, infatti, i personaggi del libro convinti di esistere solo perché Nicole li guarda, o ha sentito parlare di loro. Nicole (che lo stesso Dick dichiarò di aver immaginato ispirandosi a Jacqueline Kennedy) ci introduce quindi a uno dei temi centrali del libro, quello dei media come garanti e costruttori della realtà. L'altro tema centrale, anch'esso tipicamente dickiano, è quello del segreto. La popolazione degli USEA risulta infatti rigidamente stratificata, divisa tra i Ge (la minoranza dominante) e i Be (la maggioranza dominata). I Ge sono i Geheimnisträger, i detentori del segreto, i Be i Befehlträger, gli esecutori degli ordini. Il segreto che fonda lo stato è quello della vera natura dei presidenti, che non sono esseri umani, ma appunto sim, simulacri (androidi insomma) costruiti dal monopolio tedesco Karp und Sohnen Werke. E poi (segreto nel segreto, che verrà svelato nelle ultime pagine del libro) neanche Nicole è colei che appare: è solo un'attrice stipendiata, che nella resa dei conti finale tra potere politico ed economico viene brutalmente estromessa. Buona parte del libro riguarda infatti le lotte interne all'élite dominante, tra burocrazia statale e monopoli economici, con l'intervento della società segreta «I figli di Giobbe» guidata da Bertold Goltz: anche quest'ultimo, alla fine, risulterà diverso da quello che sembrava. Fuori dalle stanze del potere, la piccola umanità che Dick satireggia o con cui solidarizza, ma che per il nostro rappresenta sempre una dimensione di «sostenibilità» della vita, una riserva potenziale, a volte anche minima, di speranza. Perché qui l'umanità (come in tanti altri romanzi scritti da Dick in questo periodo) è costretta dalla durezza delle condizioni economiche e sociali a emigrare su Marte, dove sarà assistita dai sim. Come in L'uomo nell'alto castello, anche qui una possibilità di riscatto dalle miserie della vita e dalla manipolazione del potere Dick pare intravederla nell'arte: ma non nella «grande» arte del musicista psicocinetico e paranoide Kongrosian, che in un memorabile duello finale con il capo della polizia segreta Pembroke rovescerà se stesso nell'universo e assorbirà l'universo entro se stesso. Piuttosto nel piccolo e modesto artigianato dei due suonatori Miller e Duncan, o nella musica quasi etnica e marginalizzata dei chupper, esseri deformi che vivono nelle paludi e proiettano su tutto il libro un'immagine misteriosa e ambivalente. La speranza è a volte poco più che una fioca candela, nelle narrazioni di Dick: ma egli non ce la fa mai mancare.

I simulacri di Philip K. Dick a cura di C. Pagetti, trad. di M. Nati, postfazione di Jean Baudrillard Fanucci.

L’Unità 29 dicembre 2002 (nell’edizione Nazionale nella sezione Cultura p. 26)

domenica 29 marzo 2020

Dottor futuro. La cura di non curare: paradossi di un futuro in atto.


                                                                                                                “Tanto ormai se ne sono
                                                                                                               accorti tutti che si muore.”
                                                                                                                             Giorgio Manganelli

Siamo nell’anno 2010, il medico Jim Parsons viene catapultato nel 2405. Qui egli scopre che la sua professione non solo è diventata inutile, ma persino vietata. Il mondo del futuro è basato su una società che predilige la morte. Una persona ferita non chiama il medico ma l’eutanasista per farsi sopprimere. È un mondo in cui le nascite sono rigidamente controllate, tutti i maschi sono sterili e gli zigoti sono conservati nel cubo dell’anima; ad ogni decesso ne viene prelevato uno per concepire una nuova vita. Questo è lo sfondo su cui si innesta la trama del romanzo di Philip K. Dick “Il dottor futuro” del 1959. È ancora il primo Dick, impigliato nelle maglie grosse della fantascienza ma già capace di rovistare nelle pieghe del genere per andare oltre il genere stesso. Si può dire che Dick è stato infettato dal genere quanto viceversa lo ha a sua volta infettato fino ad accompagnarlo dolcemente ad esaurirsi, in quasi concomitanza con la propria fine. Conclusasi la capacità di anticipare perché tutto ormai è anticipato, nulla può più succedere nel futuro che non sia già iscritto nel presente e così il viaggio temporale di Dick dal 1959 al 2010 e infine al 2405 forse delinea un filo rosso che collega al di là delle apparenze mondi così apparentemente opposti e lontani. Nella nostra società attuale è sempre meno possibile, e sempre meno lecito, prevedere; possiamo e dobbiamo solo imparare a prevenire. Questo significa che nel nostro operare quotidiano non abbiamo più a che fare con la “cautela”, ma bensì con “la precauzione, non l’articolazione contestuale del dato, ma l’assunzione di questo come fatto compiuto autosufficiente” Il vecchio adagio ‘prevenire è meglio di curare’ si sta massimalizzando a un ritmo esponenziale; non serve più prevedere i pericoli, vanno anticipati per poterli disinnescare. “La prevenzione è un atto che anticipa ciò che può o può non svilupparsi in un certo modo. La prevenzione è l’anteposizione dell’atto alla potenza (cfr. Giorgio Agamben, La potenza del pensiero, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 276-277) o anche l’attualizzazione di una possibilità della potenza che scarta le altre possibilità e che attraverso lo scarto di queste si assicura di escludere una specifica possibilità. La previsione è invece aver cura di capire quali possibilità o impossibilità si possono sviluppare dalla potenza. La prevenzione è la completa trasformazione della potenza in qualcosa che la renda percepibile già come atto. Questo qualcosa è il rischio.”1 Il dottore che dal futuro di Dick si sposta ancora più in là nel futuro non trova il progresso auspicabile della sua arte di guarire ma all’opposto quella dell’arte del morire; una società alla cui base c’è “l’ethos della morte”, una società in cui “gli individui morivano e nessuno ne era turbato, nemmeno le vittime. Morivano felici e contenti.” Qualcosa di inaccettabile per il dottor Parsons che dice a un abitante del futuro: “forse noi ignoriamo la morte, forse siamo così immaturi da negare l’esistenza della morte, ma almeno non la cerchiamo”. E di contro l’interpellato risponde: “indirettamente l’avete fatto (…) negando una realtà così potente avete minato le basi razionali del vostro mondo. Non sapevate in che modo affrontare la guerra, la fame e la sovrappopolazione perché non riuscivate a discutere di questi problemi. Quindi per voi la guerra capitava e basta, era una sorta di calamità naturale e non l’opera dell’uomo. È diventato un fattore esterno. Noi controlliamo la nostra società. Noi contempliamo tutti gli aspetti della nostra esistenza, e non soltanto quelli belli e piacevoli.”2 Finita l’era dell’incerto e del casuale la governance si distende come un sudario sull’intero pianeta senza residuo alcuno. Ovviamente nel romanzo c’è un’altra storia, una resistenza, ma questa è appunto un’altra storia. Come spesso è uso in Dick, più storie convivono, si intersecano, confliggono e anche stridono, ma ognuna gode anche di un’esistenza propria. La morte e la cura attraversano gran parte della produzione dickiana; qui la morte la fa da padrona, pretende, se non fosse un controsenso, di vivere di vita propria e getta una luce sinistra sulla nostra pretesa prevenzione per la vita. A forza di prevenire la vita forse la stiamo solo esaurendo, sfibrando la sua forza e rischiandone l’estinzione. La fantascienza, nella sua breve ma feconda esistenza, ha scommesso invece sulla capacità di prevedere e grazie alla “capacità di dilatare o restringere il tempo e lo spazio della realtà” è riuscita ad avere “una dimensione filosofica oltre che inventiva” capace di favorire la ricerca di un antidoto al veleno di chi vuol “rovesciare e far coincidere ciò che è con ciò che può essere” e a “non lasciare quello spazio/tempo intermedio dove si articolano l’etica e la politica”3. Prevenire allora non è necessariamente meglio che curare, occorre anche prevedere per darsi il tempo di riflettere e di scegliere. Prima che la morte stenda su tutti noi il mantello che definitivamente ci metterà al riparo da qualunque possibilità di rischio.

Il titolo di questo articolo rimanda volutamente al libro di S. Iaconesi e O. Persico, La cura (qui recensito http://www.labottegadelbarbieri.org/la-malattia-e-un-evento/) libro, strumento per imparare a prevedere, riflettere, scegliere.
  1. Marco Pacioni, Neuroviventi, Mimesis, 2016 (recensione: http://www.labottegadelbarbieri.org/cervello-controllo-corpi/)
  2. Philip K. Dick, Dottor futuro, Fanucci, 2011
  3. M. Pacioni, op. cit.

domenica 24 febbraio 2019

La storia non si fa con i se



La storia non si fa con i se! Ma ne siamo proprio sicuri? Se le forze dell’Asse avessero vinto la II^ Guerra Mondiale… è un puro gioco di fantasia, nulla a che fare con la storia, con ciò che è realmente accaduto; è vero, ma non così semplice come sembrerebbe a prima vista. Quel “se” è eludibile solo e a patto che si costruisca prima di tutto l’impianto storico, l’accaduto, il certificato. Bisogna partire dal fatto che c’è stata una guerra e che è stata mondiale, che è iniziata in un determinato posto, che ha avuto degli antefatti, delle cause accertate, uno svolgimento nell’arco dello spazio e del tempo e una fine. Cosa si potrebbe obiettare a tutto ciò? Eppure tutto questo va costruito, puntellato fin nei minimi dettagli, in un lavoro che non può mai considerarsi del tutto esaurito. Senza questo, quell’incongruo “se” potrebbe rimanere in sospeso e aleggiare inquietante e spettrale sopra le nostre teste. In fondo chi ci dice che la storia si inerpichi lungo il percorso del tempo costruendo la propria continuità, la fedeltà al proprio divenire, inanellando cause ed effetti in un’eterna processione consequenziale? In campo letterario, un oggetto affatto particolare, il romanzo ucronico, quella strana invenzione che fantastica sulle possibilità del “se” storico, invece di congiurare anch’esso a favore di quell’aura di incertezza propria del carattere paradossale di quella particella grammaticale, certifica invece l’assoluta verità della storia nella sua essenza più profonda. Quasi una prova del nove, il far ripartire la storia da un punto qualsiasi lungo l’asse del tempo storico, modificandone uno degli elementi, crea un ricombinamento a catena che costruisce un nuovo itinerario.  La storia non accetta determinismi ma solo cause che ne determinano il corso. Il “se fosse possibile ripartire diversamente da un punto” certifica l’unidirezionalità del tempo storico. La freccia è rivolta in avanti e solo così può essere letta. Piuttosto che dire che la storia non si fa con i “se”, non sarebbe più corretto dire che la storia si fa scartando innumerevoli “se”, fino a che il “se” più favorevole alla nostra ricostruzione non ci appare come il più vero, l’unico possibile?
Il romanzo ucronico viene spesso circoscritto nell’ambito del genere fantascientifico, in realtà, come osserva Emiliano Marra nell’introduzione della sua documentatissima tesi “Storia e controstoria – Ucronie italiane: un panorama critico1 “gli studi che, per quanto diradati, si sono moltiplicati negli ultimi trent’anni, considerano l’ucronia come autonoma rispetto alla fantascienza e distinta soprattutto dalle allostorie più strettamente interne al genere, ovvero quelle basate sulla comunicazione fra i mondi possibili.” Va peraltro  detto che quello che viene considerato il più importante romanzo ucronico La svastica sul sole (o L’uomo dell’alto castello) di Philip K. Dick va ascritto proprio a questo genere popolare.2  Ma proprio questo capolavoro dickiano che Marra accosta a un’altra importante testo ucronico italiano Contro-passato prossimo di Guido Morselli, in realtà risulta piuttosto distante  “negli esiti degli ammiccamenti metafinzionali degli altri testi ucronici precedenti e, in parte successivi” in quanto questi “si limitano a giocare con le aspettative del lettore e la sua conoscenza del continuum degli eventi” e pertanto tendono in ultima analisi a “un intrattenimento innocuo”. Al contrario Dick (e Morselli, ma qui ci limiteremo al solo caso di Dick, rinviando alla tesi di Marra chi volesse entrare nel merito dell’approfondita comparazione tra i due) punta “invece all’opposto, mira alla scompaginazione del quadro, a far emergere la labilità del reale e la sua indeterminatezza che non consente di incasellare nemmeno i grandi eventi storici in una rete inquadrabile di rapporti causa-effetto diretti e quindi, in qualche maniera, prevedibili grazie a qualche filosofia positiva o progresso scientifico-tecnologico che dir si voglia.” Scompaginare l’idea che noi abbiamo della storia, ribadire la non linearità degli eventi e soprattutto il loro carattere meramente probabilistico”, e per far ciò si può, e forse anche si deve, piegare gli aspetti storici, per altro accuratissimi e preparati con estremo zelo documentario, per le finalità che l’autore stesso si era proposto. “Si pensi alla rappresentazione idealizzata dell’imperialismo giapponese (…) spesso criticata come poco verosimile, eppure perfettamente funzionale allo sviluppo della storia, altrimenti la psicologia ambivalente di Tagomi e dei suoi conflitti interiori non rivestirebbe un ruolo altrettanto pregnante.” Osservazione molto importante per capire l’eccezionalità di questo romanzo nell’universo letterario ucronico, ma che necessità di una precisazione: l’inverosimiglianza di quell’immagine così idealizzata dell’imperialismo giapponese ha un substrato di realtà, anche se solo psicologico, e riguarda il senso di colpa degli americani per come hanno trattato “i circa 90.000 californiani di origine giapponese, deportati in massa in campi di concentramento” durante il “clima d’isteria collettiva che si diffuse nello Stato dopo Pearl Harbour (con) lo spettro di un’imminente invasione giapponese.”3 Come anche testimonia il film Un giorno maledetto del 1955 con un Spencer Tracy che assurge a simbolo di una democrazia che per quanto possa essere menomata (come il protagonista con un arto mancante) è ancora in grado di vendicare i torti subiti dai più deboli, in questo caso un vecchio giapponese padre di un eroe morto al fronte. Ma l’ucronia dickiana va forse più in là di una semplice “sensazione che il grado di realtà fra le varie opzioni del grande ventaglio delle possibilità  (sia) del tutto paritario”. I vari livelli di realtà del romanzo, il testo zero (il presunto nostro), quello primario (in cui si svolge la storia) e quello secondario (del romanzo nel romanzo) come scrive Carlo Pagetti nella prima introduzione del 1977 (giustamente apprezzata da Marra) “alla fine del romanzo di fronte alla pagina che diviene bianca, i tre testi coincidono: è Juliana che è cambiata, e con lei la realtà”. E cioè, almeno come la leggo io, nella famosa boutade dello stesso Dick “la realtà è quella cosa che, anche se si smette di credervi, non scompare” non si può far rientrare la certezza dell’esistenza di una realtà che non sia altro che quella pura e semplice constatazione fenomenica. La realtà c’è ma è imperscrutabile, è inconoscibile nella sua verità ultima. Cioè non c’è nell’opera di Dick nessun tentativo, neanche in abbozzo di costruire “una teoria critica della realtà”, nessuna “ipotesi di fantascienza realista.” 4  È piuttosto la possibilità di intervenire sui soggetti umani, di vedere le loro trasformazioni e con queste il trasformarsi di una realtà più che “complessa”, fluida, magmatica, in continuo divenire e pertanto, di conseguenza, sarà solo nella realtà dell’illusione che ci sarà dato, appunto, di intervenire. In tutto questo l’ucronia di La svastica sul sole va forse letta più come un’antiucronia, in quanto considera la storia  come un incubo da cui occorre svegliarsi.
2.       Anche se va precisato che “con ‘La svastica sul sole’ Dick cerca di smarcarsi definitivamente dal genere che gli era servito come trampolino per affermarsi come autore indipendente dai generi della narrativa di massa” , tentativo che si infrange “definitivamente nel 1963 , dopo il Premio Hugo e un successo di ‘La svastica sul sole’ confinato solamente all’interno della nicchia del genere.” (Marra)
3.        Postfazione di Luigi Bruti Liberati, La svastica sul sole, Fanucci, Roma
4.        Domenico Gallo, Il sogno di Galileo e l’incubo di Philip K. Dick, in G. Viviani e C. Pagetti (a cura di) Il sogno dei simulacri: una completa rassegna di contributi critici sull’opera letteraria dello scrittore americano, Milano, Nord, 1989.

sabato 23 febbraio 2019

Blade Runner 2049



Se ci fosse bisogno di una prova per dire che la fantascienza è finita, ha esaurito la sua funzione, quella che per tutto il Novecento ci ha accompagnato nell’abituarci, nel rendere la nostra mente capace di sopportare i vorticosi cambiamenti che le conquiste tecnologiche e scientifiche stavano operando nel nostro quotidiano (nella nostra capacità di vivere uno spazio e un tempo, le relazioni sociali, il rapporto col nostro corpo in continua, e sempre più veloce, modificazione), il film Blade Runner 2049, sequel del film cult di oltre trent’anni precedente, ne costituisce, per così dire, la prova provata. Se soprattutto si assiste alla sua visione in una sala di una grande metropoli, all’uscita non si avverte alcuna soluzione di continuità. Non ci sembra proprio di essere stati immersi in un’altra dimensione, in un diverso mondo futuro. Gli abbigliamenti, i rumori, le pubblicità invadenti, gli schermi e le telecamere pervasivi e gli esseri umani con dispositivi permanentemente connessi sono lì ad attenderci nel mondo reale come in quello finto. E poi il senso di precarietà e quel sapore aspro di inquietudine per qualcosa di non precisato ma comunque sempre incombente, sottilmente minaccioso (il terrorista, il folle, il criminale, il drogato, ma anche il semplice mendicante). Tutta la vita ormai sembra un Photoshop, un fake, un effetto speciale, un rumore che assorda e ci altera il battito cardiaco senza nessuno motivo apparente. Non c’è più bisogno di grandi frasi (per quanto puerili) come le navi da combattimento al largo dei bastioni di Orione. La fantascienza di oggi è il nuovo realismo, tutt’al più serve a confermare, a farci dire: sì, è così. Non siamo più sicuri dei nostri ricordi, soprattutto della loro autenticità; non siamo più certi se siamo nati o siamo stati creati, con buona pace del buon vecchio Darwin. Certo, il film è un enorme sciocchezzaio, però andrebbe analizzato, insieme a quegli altri polpettoni come Dunkirk e compagnia bella che l’industria cineteleradiosmartcompweb… (quell’ibrido onnipervasivo che ha divorato i singoli media di un tempo) non cessa di vomitarci addosso. Un lavoro tutt’altro che facile poiché oggi ci mancano quegli attrezzi che una volta ci erano forniti (nel bene e nel male) dalle ideologie; oggi ci sentiamo persi e spaesati, in attesa di una nuova utopia che ci accolga nel suo grembo, parliamo a vanvera di capolavoro e genialità. Avremmo bisogno di nuovi strumenti e in ogni caso di non ridurre tutto a un ‘mi piace’, ‘non mi piace’(una cosa brutta può benissimo piacere e viceversa, per il semplice fatto che il gusto, le emozioni, sono solleticate da tante cose e da momenti diversi). Forse servirebbe reimparare a ragionare ristudiando quei vecchi testi, oggi in disuso, come quelli di Morin o di Bazin, per fare solo due esempi. E soprattutto riprendere a rivedere i vecchi grandi film, la tanto derisa, dagli stolti, Corazzata Potemkin, oppure anche semplicemente ascoltando i commenti ai film di un Veri Razzini (con la sua grande collana di DVD che, ahimè, sembra aver chiuso). Ma si sa, il rumore che ci assorda, i citazionismi farlocchi da altri film più o meno grandi, un vecchio e imbarazzato Harrison Ford e un incolore Ryan Gosling… occorre molta pazienza per non imprecare. E Philip K. Dick? Certo non è stato tradito, come non lo è mai stato in nessun film tratto da una sua opera. Magari un bel tradimento, qualcosa che ci sorprenda, che sappia osare un approccio particolare, irriverente e demitizzante. Tutto il cinema dickiano non fa altro che rifare l’operazione inversa che Dick ha fatto con la fantascienza. Se Dick ha usato nel modo più parassitario e aggressivo la fantascienza, smontandola, parodiandola, facendola a pezzi sempre più minuti e irriconoscibili per poi rimontarla in un’opera affatto nuova, in una sorta di romanzo filosofico per le generazioni del nuovo millennio, il cinema non sembra fare altro che riassorbirlo e, depotenziato, riadattarlo a una nuova fantascienza buona per tutti i facili palati. Blade Runner 2049 ne è uno degli esempi più riusciti.

mercoledì 17 ottobre 2018

Visioni di mondi possibili: il caso Philip K. Dick

Libreria Utopia ottobre 2002 




sabato 5 ottobre 2002
La prima conferenza del ciclo ha avuto il suo esordio in un breve intervento semi-teatrale di un giovane appassionato dickiano Nicola Disilvestro che nelle sembianze mascherate di un inquietante Palmer Eldritch (dal romanzo Le tre stimmate di Palmer Eldritch) ha palesato tutto il disagio dell’adesione delle nuove generazioni al sofferto mondo dickiano .                                
 “L’uomo vuole assomigliare a una macchina (…) Perché è un animale atterrito dalla scoperta di non  avere senso” ma neanche l’essere parte di un ingranaggio, comprensibile e controllabile, può alleviare il nostro terrore perché “l’umano è l’unica macchina conscia in un mare di macchine inconsce… l’umano è l’unica macchina che soffre… la nostra situazione ormai si può descrivere come quella di una vite che sente su di se, e lei sola lo sente, il peso dell’intero macchinario …e piange…”
Saluto di Sergio Fanucci, editore che sta pubblicando l’opera completa, con nuove traduzioni, di Philip K. Dick.
Dall’intervento di Franco Romanò: “l’opera di Dick , nel considerare il bene e il male nella storia, assomiglia all’Apocalisse di Giovanni. Cosa vede Giovanni nell’Apocalisse: vede che nella storia non c’è redenzione (vede che gli eserciti di Dio si comportano come gli eserciti del demonio). Quindi la redenzione non si da nella storia. Nella sua visione finale la città di Dio scende dal cielo, come un’astronave, viene da altrove, non è nella storia, non è possibile, non si da nella storia ma si da in un tempo in un luogo che è fuori dalla storia. In Dick in un certo senso accade la stessa cosa. Non è che il male vince. In Dick è presente la lotta tra il bene e il male ma anche il bene diventa il suo contrario e viceversa. Cioè anche in Dick il bene usa strumenti che lo rovesciano nel suo contrario, che diventano male. La causa che ci sembra più buona travalica e diventa il suo opposto. In Dick non c’è l’escatologia finale. Ma in un romanzo vedo una risposta. In Follia per sette clan c’è un’escalation di guerre continue che ci conduce alla follia dei nostri giorni. Quando finisce la guerra? Quando una coppia, un uomo e una donna ritrovano la strada dell’amore. La guerra è iniziata per la disarmonia di una coppia. Sembra una ingenuità americana. Dick in sostanza dice: l’energia cosmica che governa i rapporti personali è la stessa che governa il mondo e le guerre, quindi se l’armonia c’è da una parte c’è anche dall’altra e viceversa. Ingenuo? Probabilmente si, ma vorrei ricordare che la civiltà occidentale nasce da una guerra di cui non capiremo mai le ragioni solo storiche ed economiche perché a un certo punto ci dobbiamo fermare di fronte al mistero di una donna che ha lasciato un uomo, o che è stata rapita ed è finita in un territorio straniero. La guerra di Troia nasce da questo.”
sabato 12 ottobre
Seconda conferenza: “L’esegesi religiosa in Philip K. Dick”.
Carlo Formenti: “ L’esegesi di Philip K. Dick è un’autoesegesi, cioè un’esegesi della sua stessa opera riletta a posteriori come rivelazione religiosa inconsapevole.” (…)
“La cosmologia della gnosi mette in piedi una costruzione totalmente negativa e paranoide dell’universo e del mondo , per cui il mondo in cui tutti noi viviamo è in realtà un mondo fasullo, creato da un cattivo demiurgo, da una deiezione della divinità che si è persa per strada la sua purezza originaria, che è progressivamente degradata e nella sua ultima incarnazione ha creato la materia e il mondo come carcere per dei frammenti divini dispersi che vengono incastonati nella materia. In sostanza noi, gli esseri umani, non saremmo altro che delle faville di questa unità divina originariamente dispersa nella materia, che rammemorano questa loro origine con fatica, per visioni frammentarie, che aspirano disperatamente a ricomporsi in questa divinità originaria che incarna invece, non tanto il bene cristiano, quanto la completezza, la totalità.” (…)
“Dick, ancora prima di conoscere il pensiero gnostico, condivideva con esso il pessimismo cosmico radicale, l’impossibilità di arrivare a cogliere la verità. Usciamo da una gabbia ma ne troviamo un’altra, all’infinito, e questa è esattamente la simbologia della cosmologia gnostica.” (…)
“Qual è la via di fuga, la via di salvezza per quanto piccola, a cui Dick allude nei suoi ultimi romanzi? Ebbene, paradossalmente dopo aver costruito un’intera visione, attraverso decine di romanzi e centinaia di racconti, in cui l’agente di questo inganno gnostico , di questa mistificazione della realtà è la tecnica, quindi gli androidi, quindi i media, come elementi di mistificazione di massa ecc.; la possibile chiave di salvezza che compare in quest’ultimo ciclo è in qualche modo la stessa tecnologia, che però non è più vista come una serie di strumenti, oggetti, potenze o procedure ecc., ma è vista come sfera complessiva della tecnica e in particolare della tecnica di comunicazione. L’insieme dei prodotti della scienza, della tecnologia, del pensiero umano, arrivati a un determinato livello di complessità, in un qualche modo si autonomizzano, assumono una loro identità e autoconsapevolezza , diventando una specie di supercoscienza planetaria. Un cervello planetario in cui conversano come cellule di un sistema nervoso tutti i cervelli dell’umanità.” (…)
“Una nuova frontiera che si apre, come nei sogni dei primi colonizzatori che immaginavano l’America come l’Eden  (…) Rinasce il sogno della rete dello cyber spazio come nuovo Eden in cui andare a cercare una nuova possibile salvezza. E Dick se l’è immaginata e inventata 30 anni prima che esistessero le tecnologie che poi avrebbero sostenuto questo sogno.”
Fabrizio Chiappetti:”Io credo che Dick sia il portatore di una sorta di religiosità laica. Nel mercerismo di Ma gli androidi sognano le pecore elettriche? Ne abbiamo la migliore esemplificazione.” (…)
“ C’è un voler essere insieme, un donare reciprocamente il proprio niente all’altro; il proprio niente che, ha certo un’eco religiosa, ma in questo passaggio del romanzo invece forse traspare proprio tutta l’umanità possibile di questo dono. E allora traspare un modo di percepire, di pensare l’umano che è affine a quello che il poeta John Donne diceva con un verso: “nessun uomo è un’isola”. Nessuno è così povero da non poter essere nulla, davvero nulla per l’altro e in questa compartecipazione forse sta la chiave, il cuore di questa religiosità laica, profonda che si trova in diverse pagine di Philip K. Dick.” (…)
“ Credo che in molte pagine di Dick emerga proprio questa antropologia della relazione e che proprio in questa passione per l’umano , in questa capacità di donarsi assolutamente anche nelle sconfitte, si trovi il nucleo più interessante dell’opera di Dick; ricordando che ciò che resta sono le cose donate, perché quello che si dona è qualcosa che si perde, scompare ma è anche ciò che può resistere per sempre.”
sabato 19 ottobre
Terza conferenza: “Leggere Dick oltre i generi”. Un esperimento: chiedere a un intellettuale, non specialista di fantascienza, di leggere alcune opere di Dick e di confrontarsi con un addetto ai lavori. In questo caso Edoarda Masi, una delle massime esperte di cose cinesi in Italia e Carlo Pagetti, il massimo esperto di cose dickiane in Italia.
Il risultato: un pro e un contro che propongono punti di vista inediti e per nulla scontati.
Edoarda Masi: “ Non condivido il modo di guardare il mondo di Dick. Non riesco a capire dove c’è l’ironia e dove non c’è. La sua critica, così profonda e disperata, della società in cui vive, critica lodevole e condivisibile, è però una critica che si muove tutta dall’interno di quella società, senza sbocco, quindi uno ha un senso di claustrofobia da un mondo da cui non si riesce a venire fuori. Un mondo in cui, vedendo altri testi di Dick, può portare di fronte all’uomo artificiale. A un certo momento se l’uomo artificiale è molto perfezionato non si riesce più a capire il confine tra l’uomo reale e l’uomo artificiale. Lo stesso robot è inconsapevole del suo essere robot. Che cosa è questo? Questa è una simbologia. Questo uomo che non sa che cos’è in realtà indica noi stessi come siamo diventati. E quindi indica l’incertezza dell’identità che è nostra. E in questo senso Dick colpisce giusto. Però lui non riesce a venirne fuori da questo. Non riesce ad avere, non dico una speranza… perché poi al posto della speranza viene fuori, presi da altre tradizioni, vengono fuori dei deliri mistici. E questo perché non c’è la via d’uscita. Ora quando prima dicevo che lo vedevo vicino al decostruttivismo era per questo motivo, una volta che si è presi dentro la trappola di una società che ci si presenta come l’unica possibile e questa ci si presenta in termini orribili, le scappatoie non ci sono più e la stessa critica si muove all’interno di questa società. Non dico che oggi sia facile proporre delle alternative, però, una vecchia europea di diversa formazione come me, sa o pretende di sapere che tutto il nostro essere umano sta nella ricerca di queste alternative e non soltanto nella distruzione disperata di quello che c’è, perché è effettivamente orribile. E quindi l’uso migliore che riesco a fare della letteratura di Dick è di documento. Di documento molto forte di quello che è diventata la società americana prima e che sta diventando la società mondiale sotto l’influsso della cultura americana. Allora come documento è secondo me estremamente efficace, però soggettivamente l’autore non riesce a portarmi fuori da questa gabbia, da questa scatola chiusa.
Carlo Pagetti: “Io non credo che spetti agli scrittori di dare delle vie d’uscita. Io credo che spetti agli scrittori di indicare i problemi, di dare una visione critica della vita. Dopo di che aggiungo però che secondo me Dick non è poi così pessimista come sembra; tanto è vero che è giusto, come ha fatto la signora Masi, collegarlo al postmodernismo, però alcuni studiosi marxisti americani, primo fra tutti Fredric Jameson ha detto: attenzione Dick non è un postmoderno, perché? Perché il postmoderno, almeno quello deteriore, costruisce sul nulla; gioca col linguaggio, gioca con le parole e non ci dà nessun valore e invece Dick ha dei valori etici che vengono fuori dalla sua narrativa.” (…)
“Da questa sorta di incubo e labirinto della storia certamente non si esce, qualunque immagine possa emergere della storia  certamente non c’è via d’uscita. E’ vero. D’altra parte in questo, secondo me, Dick più che essere un postmoderno, l’ho già detto altre volte facendo storcere il naso a qualcuno, è un vetero-modernista, cioè è qualcuno che ha portato nella cultura di massa certe istanze del grande modernismo dei primi decenni del secolo. Ha fatto questa geniale, almeno per me, operazione di riprendere alcuni dei grandi temi, dei motivi del modernismo e li ha riportati all’interno di un genere minore, come quello della fantascienza.” (…)
“Dalla storia con la S maiuscola, nei romanzi di Dick, non si esce quasi mai. C’è in qualche modo una via d’uscita? La via d’uscita di Dick è una via, tipicamente americana. (…) Dick riteneva che quantunque la storia fosse un incubo, un labirinto da cui non c’era via d’uscita, l’individuo e soprattutto il piccolo individuo, l’individuo della strada, dominato, terrorizzato, sfruttato, incapace di capire i grandi giochi di potere che passano continuamente sopra la sua testa, tuttavia conservasse una sua dignità personale, la quale poteva permettergli in qualche momento di sfuggire alla devastazione. In un suo intervento Dick parla di questo individuo e dice: ci sono certi momenti di scelta, quest’individuo può fare una scelta, non riesce a rovesciare la visione del caos che domina il mondo, riesce a bloccarlo un momento, con le sue scelte individuali, che sono scelte piccole, che non modificano il quadro generale. Tuttavia questo individuo, che spesso compare in un modo o nell’altro, nei suoi romanzi, ha questo potere di illuminare momentaneamente una realtà, effettivamente disperata, tragica e di ridare senso all’esperienza individuale.” (…)
“Esistono dei valori che perfino in un mondo totalmente simulato e in qualche modo conquistato dalle macchine è possibile riconoscere come autentici, e sono i valori della solidarietà, della dignità umana che non può essere piegata neanche dagli inganni e dalle torture più crudeli. In questo senso F. Jameson ha ragione, Dick non è un postmoderno.”
Edoarda Masi: “Io prima ho dato oggettivamente luogo a un equivoco. Quando ho detto: è un mondo claustrofobico senza uscita, non intendevo assolutamente parlare di pessimismo. I più grandi autori, non solo del ‘900 ma anche dell’’800, Dostoevskij, Kafka, Leopardi, sono forse degli ottimisti? Ma il problema non è l’ottimismo o il pessimismo. Il problema, per me, non è il rapporto tra l’ideologia e la scrittura, ma di quello che è interno alla scrittura. Cioè dove non trovo come lettrice la via d’uscita e che quindi mi rende questa lettura poco interessante… cioè non ho voglia di andare avanti quando leggo queste cose è quando ci vorrebbero essere dei punti più lirici, appunto più… e sono disastrosi perché sono appunto del cattivo misticismo, intendo parlare di qualcosa che non è relativo ai contenuti cosiddetti ma è interno alla scrittura. Cioè ad esempio, parlando dei grandi ci si capisce meglio, se io legge Dostoevskij non è che quando sono alla fine dell’Idiota…, si lui può avere la sua fede cristiana ecc. però in sostanza sono testi fondamentalmente negativi, se uno guarda soltanto ai contenuti. Dov’è quello che io dico che in loro c’è e c’è anche in autori minori ma che secondo me in Dick non c’è. E’ quella, chiamiamola catarsi che è interna alla scrittura. Però per dimostrare questo bisognerebbe fare tutta un’analisi dei testi che in questa sede non si può fare. Quindi io posso soltanto dire quali sono le mie impressioni di lettrice. (…) Quello che io chiamo claustrofobico è l’assenza dell’elemento catarchico che è intimo alla scrittura artistica. C’è un saggio molto bello di Franco Fortini su Leopardi dove parla della gioia che c’è nella creazione di Leopardi e la gioia non è negli argomenti di cui Leopardi tratta ma è nel fatto che riesce a trasformare in una forma letteraria, una forma di poesia che a un certo momento è gioia per chi la crea e gioia per chi la legge; ore questo, quando uno è disperato anche in quanto scrittore e non soltanto in quanto essere umano, non viene fuori nella creazione. (…) Dick nell’insieme è uno scrittore che non mi dice niente come scrittore, questo è il problema. Allora io dico che come documento di un disperato e che però riesce in qualche misura a rappresentare la disperazione collettiva, è reale, lo posso accettare. Ma è molto limitato il limite entro cui come scrittore mi dice qualcosa. Questo è il punto, e non il fatto che sia ottimista o pessimista, perché appunto prendiamo Kafka... ma Kafka è uno scrittore che mentre lo leggi  provi la gioia del leggere. E quindi l'elemento catarchico è interno alla scrittura, non è un oggetto ideologico."
sabato 26 ottobre
Quarta conferenza: “Feticcio e mondo artificiale in P. K. Dick”.
Antonio Caronia: (la conferenza integrale di Antonio Caronia qui e qui) “Nei suoi romanzi Dick appositamente ci lascia senza strumenti, non ci da mai alcun indizio, (…) c’è una situazione di indicibilità analoga a molti (lo dico in termini molto superficiali) dei problemi affrontati dai logici matematici nel corso degli anni ’20 e ’30 e la loro scoperta che esistevano alcuni problemi formalmente indecidibili. Come tutti sapete, Kurt Godel su questa questione delle proposizioni formalmente indicibili ha scritto un saggio nel '31 o ’32 che ha cambiato tutto il modo di vedere i fondamenti della matematica prima di allora. Dick non ha letto Godel, però da un certo punto di vista noi ci troviamo di fronte a un vacillare del concetto stesso di realtà, della stabilità del reale. Però da un certo punto in poi della sua vita, Dick ha cominciato a pensare di aver trovato una risposta. Ci sono state le famose esperienze mistiche (del febbraio marzo del ’74) in cui lui venne visitato da questa misteriosa entità aliena e lui rifletté per un sacco di tempo su questa cosa e scrisse quella monumentale opera inedita, che sono le otto mila pagine della esegesi; nella quale ad un certo punto si convince di aver strappato in qualche maniera il velo di maja e di aver scoperto che noi viviamo in una sorte di continuo presente. In pratica viviamo tutti ancora nel 70 dopo Cristo e che tutta la storia del mondo da quella data agli anni ’70 in cui lui scriveva quelle cose) è un’orrenda finzione, è una maschera ecc. Tutti gli ultimi anni della vita di Dick sono caratterizzati da questa cosa. Io sono contrario a chiamarla svolta mistica perché io cito sempre a questo proposito una bellissima pagina dell’esegesi, che Sutin dita distesamente, e a ragione, nella sua biografia di Dick dal titolo Divine invasioni, in cui Dick discute con Dio (scritta nelle ultime settimane prima della sua morte). E c’è un bellissimo duello con Dio, un duello dialettico (che ricorda molto i filosofi medioevali) nel quale Dick dubita e dice: non so se tu ci sei davvero. Non so se tu sei davvero la causa delle cose che mi sono successe, io dubito. E Dio dice: fai bene, dubita, prova, dai una certa spiegazione, vedrai che a un certo punto troverai un assurdo, troverai una catena infinita, troverai un regresso all’infinito. Cioè una delle figure cattive del ragionamento tipiche della logica aristotelica e poi della logica scolastica. E Dick fa questa cosa e dice allora infinito; come lui trova questo regresso all’infinito Dio gli dice: ecco l’infinito, io sono l’infinito, vai avanti fai un’altra ipotesi e lui fa queste ipotesi. E in questo c’è questa cosa in cui si vede che Dick non ha mai abbandonato una fiducia nella ragione, nella forza della ragione, pur con tutti i suoi fallimenti. Pur con tutti i limiti che lui stesso riconosce. Ci sono delle cose che non si possono fare. Non ci possiamo cavare dalla palude come il barone di Munchausen. tirandoci per il codino. Abbiamo bisogno di un fondamento che vada da qualche altra parte. E questa cosa è obbiettivamente moderna, non ha nulla del gioco, a volte un po’ cinico, anche se molto interessante, con il quale i narratori postmoderni giocano con l’idea di realtà.”
Giorgio Concato: “Dick immagina che il mondo abbia avuto un altro corso, rispetto a quello che conosciamo, a partire da un evento che è andato in un altro modo, in genere dalla 2° guerra mondiale che è stata vinta da quegli altri invece che da questi. E come sarebbero andate le cose allora?… E’ curioso che attraverso questo espediente Dick  ricerchi come una dimensione ricorsiva della nostra realtà. Cioè il possibile che sarebbe nato allora ci consente di leggere ricorsivamente  la realtà nostra di oggi ma vedendola come dietro allo specchio. Andando dietro al feticcio e leggendo i meccanismi reali che poi determinano queste illusioni che il feticcio instaura al centro della vita collettiva. E’ un espediente in cui l’immaginazione assume una valenza critica, cioè la metafora, il suo uso critico ci consente di leggere al di là. Nella dimensione del simulacro, presente in Ma gli androidi sognano le pecore elettriche? La situazione cambia. Nel simulacro c’è un’allucinazione collettiva (non più di un solo soggetto) che si è instaurata e si è impossessata di tutti i soggetti di una società. (…) C’è un aspetto che resiste, che non è del tutti colonizzabile dal simulacro; Dick vede questa natura che resiste in questa capacità di interiorizzare i significati. Questa riserva di senso che si può dare alla realtà, questa capacità di simbolizzazione della realtà non è completamente esaurita; tanto è vero che Mercer può esserci o non esserci a seconda di come uno riesce a dargli vita, della finzione che riesce a dargli. La compassione è un altro elemento che resiste, che è irriducibile perché anche per un rospo meccanico si può provare compassione. E quindi anche nel mondo dei simulacri la compassione è un elemento che non viene completamente colonizzato.”


domenica 16 settembre 2018

Antonio Caronia - Philip K. Dick: Deus absconditus


Una delle più vivaci argomentazioni sulla giustizia di Dio (teodicea, secondo il termine di Leibniz) che mi sia capitato di leggere si trova nelle prime pagine di Valis, il romanzo scritto nel 1978, e pubblicato nel 1981, ispirato alle esperienze di Dick del 2-3-74. Vale la pena leggerla per esteso.
-          Non c’era bisogno di tormentare Fat con domande oziose del tipo: “Se Dio può fare tutto, può creare un fossato così largo che non possa saltarlo? Avevamo un sacco di vere domande a cui Fat non riusciva a dare una risposta. Il nostro amico Kevin iniziava sempre il suo attacco allo stesso modo. “Cosa mi dici del mio gatto?” chiedeva Kevin. Parecchi anni prima aveva portato a passeggio il suo gatto, verso sera. Quello sciocco non gli aveva messo il guinzaglio e il gatto era schizzato sulla strada, proprio sotto le ruote di una macchina di passaggio. Quando aveva raccolto il corpicino, era ancora vivo, respirava fra una schiuma insanguinata e lo fissava con gli occhi pieni di orrore. Kevin usava dire: “Il giorno del giudizio, quando sarò chiamato davanti al gran giudice, io gli dirò: ‘Aspetta un momento’, e tirerò fuori il mio gatto morto da sotto la giacca. ‘Come me lo spieghi questo?’ gli chiederò”. (…) Fat disse: - Nessuna risposta ti soddisferebbe. – Nessuna risposta che potresti darmi tu – lo schernì Kevin. – Okay, Dio ha salvato la vita di tuo figlio: perché non ha fatto in modo che il mio gatto corresse sulla strada cinque secondi dopo? Troppo disturbo? Già, immagino che un gatto non abbia molta importanza. (…) Conclude Kevin: L’universo è fottuto. Dio è impotente, o è stupido, o non gliene frega niente. O tutte e tre le cose. È cattivo, scemo e debole.
Questo naturalmente, non è il punto di vista di Dick. È il punto di vista di Kevin, scettico e tendenzialmente cinico. Ma il problema di fondo della teodicea è posto abbastanza correttamente: se Dio è un essere infinitamente buono, come può permettere il male nel mondo? Come si sa Philip Dick, filosofo autodidatta (oltre che personaggio esuberante e contraddittorio), scelse la risposta gnostica, che complica un po’ le cose ma ha il pregio, per chi crede in Dio, di “salvare le apparenze” (avrebbe detto Galileo) meglio di altre: il creatore del mondo materiale non è Dio stesso, ma un personaggio a sua volta creato da Dio (spesso indicato col nome di Demiurgo), un’intelligenza che non è capace di contemplare direttamente Dio, e quindi di creare cose perfette come lui, ma solo di creare una cosa pasticciata e imperfetta come la materia. Anzi, il Demiurgo sarebbe l’ultimo di una scala di esseri divini, ognuno creato da quello immediatamente superiore e ognuno, quindi, leggermente degradato rispetto al suo creatore. Ora quello che è interessante, nella teodicea di Valis citata prima, è che l’interrogativo formulato all’inizio del brano non è: “Dio è giusto o ingiusto?” ma “Dio è o non è onnipotente?” (“può creare un fossato così largo etc. etc.?”); per quanto Dick definisca quest’ultima una “domanda oziosa”, nella sua dichiarazione conclusiva Kevin continua a mescolare le considerazioni etiche con quelle ontologiche. Il punto di partenza di Dick, insomma, più che il dibattito sulla giustificazione del male nel mondo, sembra riprendere il dibattito della tarda scolastica sugli eventuali limiti dell’azione divina in relazione agli universali da lui stesso creati: potrebbe Dio creare un mondo, per esempio, in cui le leggi della logica non valgono, o questa azione gli sarebbe impedita dal fatto che, per loro stessa natura, queste leggi valgono in tutti i mondi possibili? Quindi volendo ragionare sull’idea e la presenza di Dio nell’opera di Dick, è probabilmente con l’ontologia, prima che con l’etica, che dobbiamo fare i conti. Tanto più che la narrativa di Philip Dick è fortemente permeata da un problema ontologico, e non solo quella scritta dopo l’esperienza del 2-3-74, ma anche quella scritta prima, sin dall’inizio della sua carriera. In un certo senso questo è banale. Come ha sostenuto Brian McHale, tutta la fantascienza è una narrativa a dominante ontologica, simile in questo alla narrativa postmoderna, e a differenza della tradizione del romanzo modernista (e, tra i generi, del giallo), che sono invece a dominante epistemologica. Queste ultime sono orientate a problemi relativi alla nascita e alla trasmissione delle conoscenze sul mondo, dando per scontata (relativamente) l’esistenza e l’unicità del mondo. La narrativa postmoderna e fantascientifica si pone invece interrogativi sull’essenza del mondo, e postula l’esistenza (o la possibilità) di più mondi, di più universi, indagandone le condizioni di esistenza e le modalità di passaggio dall’uno all’altro di questi mondi. Ma la tematica ontologica della narrativa di Dick ha un’accentuazione molto particolare. Il tema della realtà (la risposta alla domanda: “che cosa è reale e che cosa non lo è?”) si intreccia infatti in Dick sin dall’inizio con il tema dell’autenticità, sia per quanto riguarda l’uomo che il mondo. I personaggi di Dick si chiedono costantemente: “il mondo in cui io vivo e opero è quello vero? O non è il mascheramento di un’altra realtà nascosta, segreta?”. In Tempo fuori luogo Ragle Gumm si rende conto che la cittadina in cui vive non è una vera città, ma una specie di set cinematografico costruito a suo uso e consumo; in Le tre stimmate di palmer Eldritch Barney Mayerson sperimenta i mondi illusori creati dalla potenza di Palmer: in Ubik Joe Chip riceve oscuri messaggi dal suo capo Glenn Runciter (e forse dalla misteriosa entità che dà il titolo al libro) che suggeriscono che il mondo in cui egli vive non sia reale. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Nell’universo narrativo di Dick (che egli si convinse sempre più, dopo la svolta del 1974, rappresentasse l’universo reale), i vari mondi paralleli non sono “contigui” l’uno all’altro, come nel modello di Borges esposto nel Giardino dei sentieri che si biforcano o nel film Ritorno al futuro di Zemeckis, e neppure come succede, in fondo, nei vari ciberspazi degli autori cyberpunk. Essi si dispongono piuttosto in direzione “perpendicolare” all’universo di riferimento, e nell’esperienza di questi mondi l’uomo sperimenta anche un altro scorrere del tempo. Quindi, a rigore, quelli dickiani non potrebbero essere definiti “universi paralleli”, ma più propriamente “universi ortogonali”: infatti, come afferma Dick nel saggio “Uomo, androide e macchina” (pubblicato nel 1976 ma scritto nel ’75), “dalla nostra esperienza del tempo – che si pone ortogonalmente rispetto alla reale direzione del suo flusso – ricaviamo un’idea completamente errata della sequenza degli eventi, della causalità, di che cosa è passato e di che cosa è futuro, di dov’è diretto l’universo”. Quello che va sottolineato è che, nonostante spesso dai suoi libri si ricavi l’impressione che la realtà è indecidibile, Dick ha sempre tenuto fede all’idea che la realtà sia conoscibile, e che le cose stiano in un modo, e uno solo (è questo che ci rende riluttanti, nonostante le molte somiglianze, ad assimilarlo tout court alla letteratura postmoderna): l’importante, per lui, era riuscire a squarciare il “velo di maya”, a leggere tra la trama sottostante all’apparenza degli eventi. Lasciamo stare i pasticci su Parmenide, Kant e gli gnostici di cui a volte Philip Dick infarciva i suoi scritti teorici. La sua filosofia era sempre ancorata a una domanda molto forte e concreta di “giustificazione”, in tutti i sensi che la parola ha in italiano. L’idea che la realtà sia costantemente alterata da un complotto gestito da potenze invisibili lo avvicina, naturalmente, a Pynchon, a Burroughs, a Ballard, a De Lillo. Lo allontana da loro l’impossibilità ad acquietarsi nelle congetture, realizzate attraverso la scrittura, di questo complotto. Ecco perché gli eventi del 2-3-74 furono così centrali, per lui, ecco perché illuminarono non solo tutto ciò che aveva scritto, ma anche tutto ciò che aveva vissuto prima di quella data, ecco perché si arrovellò, negli ultimi otto anni della sua vita, a tentarne un’interpretazione. Eric S. Rabkin, in un saggio a volte acuto ma ingeneroso su Dick di parecchi anni fa, diede voce più chiaramente di altri marxisti della cattedra americani alla delusione per aver scoperto che i romanzi di Dick, che negli anni sessanta e settanta  potevano apparire come critiche politiche anticapitalistiche alla società americana, erano invece confuse riflessioni esoteriche-metafisiche sul senso della storia: e scrisse, senza mezzi termini, che negli ultimi anni della sua vita Dick era diventato pazzo, e aveva ceduto a tentazioni irrazionalistiche. Giustamente Lawrence Sutin, il più attento biografo di Dick, dopo aver studiato attentamente le più di seimila pagine dell’Esegesi, il diario segreto di Dick tenuto dal 1974 sino alla morte, invita alla cautela. Egli documenta come Dick abbia passato più e più volte in rassegna ogni possibile interpretazione degli eventi straordinari che visse nel febbraio e marzo del ’74 (e più raramente in epoche seguenti fino al 78), comprese quelle più triviali e materialistiche. Però, nonostante le esitazioni, è probabile che Dick sia morto con la convinzione che in quei giorni Dio gli abbia parlato. Le ragioni per cui arrivò (se ci arrivò) a questa definitiva convinzione, sono però tutt’altro che irrazionali. Sutin dà molto rilievo a una pagina dell’Esegesi del 17 novembre 1980: è l’ultimo colloquio di Dick con Dio, in cui quest’ultimo lo convince che dietro gli eventi del 74 c’è lui. Sono pagine molto belle (“una visione dickiana un po’ favola e un po’ elegia meditabonda”, scrive Sutin), e gettano una luce indiretta sui processi della creatività di Dick. Dio gli dice infatti:
-          Io sono l’infinito. Ti farò vedere. Dove io sono, c’è l’infinito; dove è l’infinito, io sono. Costruisci sistemi di pensiero grazie ai quali capirai la tua esperienza del 1974. Scenderò in campo contro la loro natura cangiante. Pensi che siano logici, ma non lo sono: sono creativi, all’infinito.
E Dick ingaggia un duello con Dio, ed escogita ogni possibile spiegazione di quegli eventi, e ogni volta sperimenta un regresso all’infinito. E ogni volta Dio dice: “Ecco l’infinito. Ecco, io sono. Riprova”. Per Dick, Dio è il vuoto infinito. È l’essenza stessa del dubbio e della ricerca. “’Infinito’, disse Dio. ‘Riprova. Sto aspettando.’” Dick aveva bisogno di comprendere quegli eventi, che erano la chiave di volta della sua vita, ma non poteva comprenderli se non riepilogando tutta la sua attività di scrittore, di inventore di trame, di personaggi, di situazioni, di ipotesi sul mondo e sulla storia. A questa attività potenzialmente infinita egli diede il nome di Dio. Noi non abbiamo alcuna possibilità di entrare dentro la mente di Dick (come dentro quella di alcun altro essere umano). Sappiamo che era un esibizionista, un buffone egocentrico, un infelice. Ma possiamo saperlo solo dalle testimonianze di chi lo conobbe, e da un incrocio fra le sue opere e la sua vita. Non possiamo e non dobbiamo essere né gli psicoanalisti né i giudici di Dick. Possiamo essere solo i suoi lettori, e possiamo sperimentare gli effetti delle sue opere su di noi. Se i processi che lui descrive parlano di noi, e ci illuminano su noi stessi, egli resta un grande scrittore, anche se noi diamo nomi diversi da quelli che dava lui agli oggetti dell’esperienza e del pensiero.

(Il Manifesto – Alias, 16 febbraio 2002, col titolo “Una realtà imperfetta con un dio di serie B”, ripubblicato in Universi Quasi Paralleli, CUT-UP Edizioni, Roma 2009)

giovedì 13 settembre 2018

Nel nostro mondo di Ubik




In un recente articolo: Megamacchine del neurocapitalismo. Genesi delle piattaforme globali2 l’autore Giorgio Griziotti3 ricorda come Lewis Mumford introduca “nel 1967 il concetto di megamacchina come complesso sociale e tecnologico che modellizza le grandi organizzazioni e progetti dove gli umani diventano pezzi intercambiabili o servo-unità”. Questi grandi complessi organizzativi di messa al lavoro del capitale umano sarebbero rintracciabili fin dalla “costruzione delle piramidi in Egitto”, e troverebbero nella modernità il modello più rappresentativo  nei “grandi complessi militari-tecnocratici che gestiscono il potere nucleare.” Per Griziotti oggi, in questo nuovo millennio, tutto il mondo, tutta la vita si sta assoggettando all’immensa megamacchina del capitalismo che controlla e controllerà sempre di più ogni momento della nostra vita, non più solamente dall’esterno ma soprattutto dal di dentro dei nostri corpi, incorporandosi in noi, divenendo parte di noi e noi di esso. L’articolo è ricco di informazioni e agghiacciante nelle conclusioni a cui inevitabilmente conduce. Non ho le competenze necessarie per entrare nel merito di questa articolata descrizione della gestazione e trasformazione di questa complessa megamacchina del ‘neurocapitalismo’ e al di là di segnalare, doverosamente, i meriti di una descrizione che nulla concede alla bassa divulgazione e che peraltro riesce a rendersi comprensibile a un pubblico di non esperti, qui vorrei indugiare su una sollecitazione di carattere fantascientifico (meglio: dickiano) che il testo offre esplicitamente in un punto in cui cita il racconto di Dick: Minority Report,4 ma che inevitabilmente lo pervade, data la natura dell’argomento, nella sua totalità. Parlando della Global Community di Zuckerberg e del suo impegno per la ricerca sull’Intelligenza Artificiale ci avverte che: “Anche se ci vorranno ancora anni, scrive Zuckerberg, perché l’IA diventi un vero agente semiotico in grado di capire e valutare il senso di tutti i contenuti del social network in modo da poter intervenire opportunamente, questo resta l’obiettivo di FB ‘per combattere il terrorismo mondiale’. La promessa di costruire l’infrastruttura sociale che aiuterà la Global Community di FB a ‘identificare i problemi prima che avvengano’ va nello stesso senso e si ispira direttamente a Minority Report.”  È un esempio calzante, ma se dalla situazione particolare di FB ci confrontiamo con la realtà più generale presa in esame dall’articolo, cioè quella “messa al lavoro della vita tramite la tecnologia della Web2.0” e soprattutto quell’”asservimento macchinico che ‘consiste nel mobilitare e nel modulare le componenti pre-individuali, pre-cognitive e pre-verbali della soggettività, e fa funzionare gli affetti, le percezioni e le sensazioni come parti o elementi di una macchina.’5 più che a questo vecchio racconto sarebbe  opportuno riferirsi a una delle sue opere chiave: il romanzo Ubik.6 Le premesse di questo mondo bioipermediatico7 non ci portano tanto a una distopia da grande fratello elevata all’ennesima potenza, spettro fantascientifico ormai depotenziato come gran parte degli scenari della science fiction novecentesca, quanto a un mondo caotico, confuso, denso di contraddizioni e ambiguità. I Zuckerberg e i Trump, acerrimi rivali nel nostro mondo, si possono equiparare, nel mondo di Ubik, agli Hollis e ai Runciter con le loro rispettive funzioni di spionaggio e controspionaggio che governano la vita di tutti gli individui. La funzione di Hollis è quella di un potere tendente al controllo della vita nelle sue singole componenti umane (spiandone le menti e pianificando coercitivamente il loro futuro) mentre quella di Runciter si qualificherebbe come il bisogno di governare questo processo, più che combatterlo (Runciter steso si avvale, come il suo avversario, di telepati e precog, per i suoi bisogni). Che Runciter, per chi legge il romanzo, appaia il più simpatico dei due, collima con il fatto che un Zuckerberg “in contrasto coi populismi nazionalisti di cui Trump è il capofila” risulti infine “in un certo senso più ‘moderno’ ed attraente (o forse solo più accettabile) agli occhi di generazioni di nativi digitali.” Il mondo della semi-vita di Ubik, in cui tutto sprofonda è un mondo di cadaveri viventi e, come ancora Mumford ci ricorda: “…se ogni cosa, eccettuata la tecnica, è un sogno nebuloso, che cosa resta dell’uomo se non un cadavere vivente…?”.8  È in questo riconoscersi cadavere vivente che il protagonista Joe Chip, sfigato personaggio seriale dickiano, ritrova la forza di resistere ai poteri che lo vogliono assoggettato a una docile ubbidienza. Quel cadavere vivente, il corpo, è ciò che noi siamo, e potremo essere corpo collettivo, resistente, solo a partire da questa ritrovata consapevolezza. Tutta l’opera dickiana, del resto, tende a ritrovare il possibile aggancio della dimensione culturale, che sempre più si esprime in un’esplosione dell’immaterialità, con quella della materia, e del corpo in prima istanza. Senza questo antidoto ubikiano temo che l’idea di una possibile ‘liberazione’ del ‘comune’, cioè di raggiungere quei “modi per rendere veramente autonoma la Global Community e tutte le altre comunità delle piattaforme del Capitalismo” auspicata da Griziotti, rimanga una bella, ma ancora un’altra, irraggiungibile utopia dell’avvenire.
Nota 1: L. Mumford, Arte e tecnica, Universale Etas, Milano 1980, p. 96
Nota 3: di cui ho recensito il libro Neurocapitalismo: http://www.labottegadelbarbieri.org/neurocapitalismo-e-cura/
 Nota 4: racconto del 1956 portato sugli schermi da Steven Spielberg nel 2002
Nota 5: M. Lazzarato, Le macchine, 10/2006  http://eipcp.net/transversal/1106/lazzarato/fr
Nota 6: per un’analisi del romanzo rimando al mio http://una-stanza-per-philip-k-dick.blogspot.it/2014/08/ubik_30.html 
 Nota 7: “Bioipermedia è termine d3erivato dall’assemblaggio di bios/biopolitica e ipermedia, come una delle attuali dimensioni della mediazione tecnologica. Le tecnologie connesse e indossabili, i cui oggetti popolano il territorio, ci sottomettono ad una percezione multisensoriale in cui spazio reale e virtuale si confondono estendendo ed amplificando gli stimoli emozionali.” G. Griziotti, Neurocapitalismo Mimesis 2016, p. 120
Nota 8: L. Mumford, Arte e tecnica, cit. p.40