Quello
che segue è il testo di una conferenza di Antonio Caronia su Philip K. Dick
tenutasi alla libreria Utopia di Milano il 26 ottobre 2002. Non esiste uno
scritto alla base della conferenza ma solo un registrato audio che non ha
potuto essere rivisto dal suo autore scomparso nel gennaio dell’anno scorso. Si
è preferito mantenere il più possibile l’andamento del parlato, con le tipiche
digressioni di Antonio Caronia, sacrificando piuttosto alcune parti
difficilmente trascrivibili se non a costo di una pesante riscrittura. Nonostante
il suo andamento rapsodico, fortemente digressivo o forse proprio grazie a ciò,
questo documento ci mostra una modalità di ragionamento, un moto del processo
del pensiero che proprio perché preso nel suo farsi può essere utile tanto
quanto un lavoro più organico e ragionato, costruito a tavolino. Sperando di
fare cosa gradita a chi l’ha conosciuto e a chi lo ha solo letto, pubblichiamo
questa prima parte della conferenza a cui seguirà la seconda, relativa alla
successiva discussione col pubblico. Sull’opera di Dick di Antonio Caronia si possono vedere oltre alla
fondamentale Enciclopedia dickiana pubblicata nel 2006 insieme a Domenico
Gallo, le schede a ‘La svastica sul sole’ e ‘I simulacri’ nei “Labirinti della
fantascienza” (Feltrinelli 1979, Mimesis 2012); Gli universi di Philip K. Dick
(Alter settembre 1982), Philip K. Dick: Realtà e verità (Pulp n.24,
marzo-aprile 2000), Philip K. Dick: Deus absconditus (Il Manifesto-Alias 16
febbraio 2002), tutti e tre rieditati in A.Caronia, ‘Universi quasi paralleli’,
Roma, CUT-UP Edizioni 2009; Inchiostro
acquoso e storie confuse. Corpo e media in P. K. Dick (qui) ; Philip K.
Dick un filosofo in veste di romanziere, Il Manifesto 1.3.2012. (qui)
"Una stanza per Philip K. Dick" allestimento alla Libreria Utopia di Marisa Bello e Giuliano Spagnul |
Philip K. Dick è uno scrittore complesso,
complicato. Tutti gli scrittori sono complessi e complicati, certo, ma Dick è
particolarmente complesso, particolarmente complicato perché da un certo punto
di vista in lui possiamo facilmente trovare temi e atteggiamenti tipici della
modernità classica. Intendo come modernità classica anche le sue ultime
propaggini, cioè oltre a quelle dell’immaginario inaugurato dalle riflessioni
di Baudelaire nella metà dell’Ottocento e poi ripresa e commentata da Benjamin
negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, quelle caratterizzate da quei temi e
argomenti di quella che si usa chiamare, con un termine molto brutto, lo userò
forse qualche volta senza nessun impegno, postmodernità o postmoderno o, si
potrebbe dire, quella forma della modernità che si è inaugurata in qualche
momento (che non sappiamo bene quale sia) intorno alla seconda metà del secolo
XX° in cui tutta una serie di problemi tipici della fase della modernità classica
slittano, cambiano significato, vengono poste domande differenti ecc. Allora da
un certo punto di vista si potrebbe dire che Dick è decisamente un autore
post-moderno per una cosa, per la sua grande attenzione al tema dell’ontologia
e al ruolo che lui dà alla possibilità all’interno dell’ontologia. Questo vale
soprattutto per la letteratura. Tutti sapete che i grandi romanzi, non solo
dell’Ottocento ma anche del Novecento, cioè quelli della tradizione modernista,
diciamo Proust, Joyce, Kafka… ma già nell’area
tedesca forse la cosa non è così
semplice, cioè Musil e Kafka forse hanno anche qualche altro… ma insomma
soprattutto Joyce e Proust, che sono due tra i “campioni” del romanzo
modernista cioè della crisi ecc., ecco la loro narrativa è prevalentemente
epistemologica, cioè decostruisce in parte il mondo e l’immagine del mondo che
ci siamo fatti ponendo però degli interrogativi radicali sul mondo. La Dublino
dell’Ulisse di Joyce è uno sfondo, è qualcosa su cui Leopold Bloom, Dedalus,
gli altri personaggi in qualche maniera s’interrogano, che in qualche maniera
percorrono. Lo scenario viene dato, quello che è importante e interessante,
quello che interessa a Joyce è il modo in cui i suoi protagonisti, i suoi
personaggi vedono questa città, che poi ovviamente si dilata a simbolo del
mondo ecc. Ma in qualche maniera tutta la narrativa, diciamo classica della
modernità è una narrativa dominata dall’epistemologia, cioè si chiede, quella
narrativa, che cosa e come il soggetto, un soggetto particolarmente messo in
crisi da una serie di processi, può conoscere il mondo. Nella narrativa di
genere un tipico esempio di questo procedimento è il giallo, il giallo è una
narrativa tipicamente epistemologica, cioè un enigma, l’enigma che si pone il
giallo è chi ha compiuto questo delitto e se mai il perché. Sono tutte vere le
interpretazioni che si danno sullo sfondo sociale del giallo, ma ripeto tutte
queste cose rimangono sullo sfondo. L’interrogativo fondamentale del romanzo
poliziesco e poi anche del noir, anche se questo poi introduce anche degli
altri elementi, ma il giallo classico, quello di impronta… Poe, Conan Doyle
ecc. è un tipo di narrativa che ha il problema del soggetto al centro. Che cosa
fa il soggetto, come può padroneggiare la realtà. Bisogna dire che la
fantascienza fin dall’inizio ha un atteggiamento abbastanza differente, cioè
anche nella fantascienza più ingenua, banale dei primi anni del secolo XX°, fa
sempre capolino un problema ontologico, un interrogativo anche implicito,
subdolo sulla consistenza del mondo. Perché la fantascienza è nata proprio
apposta non per parlare del nostro mondo ma per confrontare mondi diversi, il
nostro pianeta con altri pianeti, il nostro tempo con altri tempi, il nostro
spazio con altri spazi e quindi da questo lavoro, sia pure molto rozzo, in
molti casi molto ingenuo di confronto esce fuori una narrativa che ha una
preoccupazione di tipo prevalentemente ontologico, come ce l’ha una narrativa
soprattutto americana, quei filoni di narrativa americana degli anni ’50, ’60 noti
come letteratura postmoderna e che culminano in questi anni e che partono da
John Barth, William Gaddis e che oggi vede tra i nomi più importanti Thomas
Pincio e Don De Lillo, narratori ontologici. In loro c’è una domanda continua
sulla consistenza della realtà, sullo sfaldarsi della realtà e non solo del
soggetto dentro la realtà. Dick nella fantascienza è stato uno di quelli che
più hanno spinto, hanno portato avanti questo interrogativo di tipo ontologico.
Varie volte nei suoi scritti ha dato una chiave di lettura della sua produzione
letteraria, lui ha detto molto spesso: io mi sono posto nella mia opera due
domande fondamentali, che cosa è l’uomo, che cosa è la realtà. Che cosa
distingue l’uomo da ciò che potrebbe sembrare uomo ma non lo è e che cosa
distingue la realtà autentica da quella che potrebbe sembrare inautentica, al
di sotto delle apparenze del ‘velo di maja’, per usare un termine della
filosofia indiana molto cara a Dick, anche se la sua conoscenza non era poi
così approfondita, era un gran lettore, però macinava spesso roba di seconda
mano, non era uno che andava a leggersi i testi, parla molto di Parmenide ma
non era uno che aveva studiato né i frammenti di Parmenide né i passi di
Aristotele che riporta.
D’altra parte non è che si possa pretendere questo, non
lo dico per criticare Dick, ma per mettere nella giusta consistenza
un’affermazione che potremmo essere
tentati di fare leggendo le sue cose, un Dick filosofo. Dick non era un
filosofo nel senso classico, era principalmente un narratore, e per nostra
fortuna, e tutte queste idee lui le andava arraffando qua e là nell’universo
mediatico e nelle enciclopedie, di cui era grandissimo divoratore. Molti dei
volumi dell’Enciclopedia Britannica che lui possedeva erano consunti e logorati
dall’uso. L’Enciclopedia Britannica ha dei gran begli articoli, anche
l’edizione degli anni ’60 che lui aveva, a me è capitato per una serie di
circostanze fortunate di possederne una copia che non so se sia esattamente
l’edizione sua, forse la sua era precedente, la mia è del ’62, e a volte mi
sono effettivamente divertito ad andare a vedere alcuni articoli sulla
filosofia indiana trovandovi molte cose
che Dick ha usato. E allora torniamo al punto, Dick si poneva questo problema…
certamente c’è anche in Dick un interrogativo epistemico, cioè chi è l’uomo
davvero, però è sempre fortemente collegato con un interrogativo ontologico,
sulla natura e sulla consistenza della realtà. Allora da questo punto di vista
si potrebbe, si sarebbe tentati di dire e collocare Dick sul versante del
postmodernità, anche se di questo termine si è abusato, comunque della
ipermodernità, modernità tarda, di questa modernità malata che è quella dei
nostri anni. Se vogliamo usare un termine che proviene dall’analisi economica,
dall’analisi sociale, diciamo Dick è stato uno che ha annusato molto bene ai
suoi tempi quello che oggi noi chiamiamo universo postfordista, che ovviamente
ai tempi suoi non era ancora ampiamente dispiegato ma che negli Stati Uniti
degli anni ’70 già era abbastanza visibile o perlomeno visibile a chi avesse
uno sguardo così presbite, lungo come aveva appunto Dick. Però da un certo
altro punto di vista possiamo dire che Dick era un postmoderno, uno che ci dice
guarda che il mondo non è unico, ci sono vari mondi, si può passare da un
universo parallelo all’altro, da un mondo possibile all’altro, che è quello che
succede in gran parte dei suoi romanzi, cominciando da alcuni romanzi degli anni ’50 in cui lui aveva posto
questo problema come in Tempo fuori luogo,
o come La città sostituita per finire invece negli anni’60 in cui il
tema scoppia, da L’uomo dell’alto
castello a Le tre stimmate di Palmer
Eldritch a Ubik in cui questo
slittamento da un mondo all’altro in cui i protagonisti sperimentano vari mondi
senza mai essere in grado di dire quale è il mondo, diciamo reale, e questo
tipo di cosa appare obbiettivamente come un tratto, come una visione del mondo
tipicamente postmoderna. (…) Nei suoi romanzi Dick appositamente ci lascia
senza strumenti, non ci da mai alcun indizio. C’è una situazione di
indicibilità analoga a molti (lo dico in termini molto superficiali) dei
problemi affrontati dai logici matematici nel corso degli anni ’20 e ’30 e la
loro scoperta che esistevano alcuni problemi formalmente indicibili. Come tutti
sapete, Kurt Godel su questa questione delle proposizioni formalmente
indicibili ha scritto un saggio1
nel ’31 o ‘32 che ha cambiato tutto il
modo di vedere i fondamenti della matematica prima di allora. Dick non ha letto
Godel, però da un certo punto di vista noi ci troviamo di fronte a un vacillare
del concetto stesso di realtà, della stabilità del reale. Però da un certo
punto in poi della sua vita, Dick ha cominciato a pensare di aver trovato una
risposta. Ci sono state le famose esperienze mistiche (del febbraio marzo del
’74) in cui lui venne visitato da questa misteriosa entità aliena e lui
rifletté per un sacco di tempo su questa cosa e scrisse quella monumentale
opera inedita, che sono le ottomila pagine della esegesi; nella quale a un certo
punto si convince di aver strappato in qualche maniera il ‘velo di maja’ e di
aver scoperto che noi viviamo in una sorta di continuo presente. In pratica
viviamo tutti ancora nel 70 dopo Cristo e che tutta la storia del mondo da
quella data agli anni 1970 in cui lui scriveva queste cose è un’orrenda
finzione, è una maschera ecc. Tutti gli ultimi anni della vita di Dick sono
caratterizzati da questa cosa. Io sono contrario a chiamarla svolta mistica
perché io cito sempre a questo proposito una bellissima pagina dell’esegesi,
che Sutin cita distesamente, e a ragione, nella sua biografia di Dick dal
titolo Divine invasioni2, in cui Dick discute con Dio (scritta nelle
ultime settimane prima della sua morte). E c’è un bellissimo duello con Dio, un
duello dialettico (che ricorda molto i filosofi medioevali) nella quale Dick
dubita e dice: non so se tu ci sei davvero. Non so se tu sei davvero la causa
delle cose che mi sono successe, io dubito. E Dio dice: fai bene, dubita,
prova, dai una certa spiegazione, vedrai che a un certo punto troverai un
assurdo, troverai una catena infinita, troverai un regresso all’infinito. Cioè
una delle figure cattive del ragionamento tipiche della logica aristotelica e
poi della logica scolastica. E Dick fa questa cosa e dice allora infinito; come
lui trova quel regresso all’infinito Dio gli dice: ecco l’infinito, io sono
l’infinito, vai avanti fai un’altra ipotesi e lui fa questa ipotesi. E in
questo c’è questa cosa in cui si vede che Dick non ha mai abbandonato una
fiducia nella ragione, pur con tutti i suoi fallimenti. Pur con tutti i limiti
che lui stesso riconosce. Ci sono delle cose che non si possono fare. Non ci
possiamo cavare dalla palude come il barone di Munchausen tirandoci per il
codino. Abbiamo bisogno di un fondamento che vada da qualche altra parte. E
questa cosa è obbiettivamente moderna, non ha nulla del gioco, a volte un po’
cinico, anche se molto interessante, con il quale i narratori postmoderni
giocano con l’idea di realtà. Se avessi avuto più tempo vi avrei parlato anche
di un analoga ambiguità che ha Dick nei confronti della figura dell’androide.
La figura dell’androide è una delle figure centrali dei suoi romanzi, è uno dei
costituenti di questo mondo artificiale; anche lì noi leggiamo tante cose da
cui appare che Dick considera e anche narrativamente utilizza la figura
dell’androide come polo negativo nei confronti dell’uomo, come ciò che di
inautentico c’è nell’uomo, come ciò che di meccanico… nel
suo libro Concato3
ha giustamente fatto un ponte tra alcune intuizioni, alcune figure di Rilke e
anche di Baudelaire, di Benjamin, su questa figura della marionetta,
dell’angelo, e queste cose in parte tornano in Dick, però se voi pensate a come
la sceneggiatura di Blade Runner ha cambiato le cose, ha alterato il modo in
cui sono dipinti gli androidi nel romanzo, dal simbolo del male ne ha fatto
invece una sorta di eroi romantici o decadenti, con una grande coscienza della
limitatezza della vita, ecc. ebbene tutto questo non è senza fondamento in
Dick, ci sono molti passaggi in altre opere in cui a un certo punto si
interroga sulla progressiva diminuzione dello scarto tra l’animato e
l’inanimato. E’ uscito sette, otto anni fa un libro di Kevin Kelly, redattore
capo della famosa rivista Wired, che si intitola Out of control4 e
la cui tesi centrale è che c’è sempre meno differenza tra quello che lui chiama
l’inanimato e il prodotto, cioè i due mondi del biologico e dell’artificiale si
avvicinano perché l’artificiale da un lato si biologizza sempre più, cioè
assume e simula modi, processi e caratteristiche del mondo della natura, della
biologia e da un lato il biologico si artificializza sempre di più, cioè, per semplificare, non
c’è più il grano che cresce spontaneamente ma ci sono delle tecnologie che lo
fanno crescere. Io mi sono divertito ad andare a cercare i prodromi di questa
tesi, ci sono già ad esempio in certi libri di Lewis Mumford degli anni ’30,
Tecnica e cultura5, che Kevin Kelly non cita mai, ma ci sono anche
in Dick, che non aveva letto Mumford, credo che si possa evincere dalle sue
cose, ma voi sapete che le idee vanno per l’aria, circolano. Quindi allora
anche lì Dick si mostra fortemente ma fecondamente ambiguo, anche su questo
tema dell’artificiale nell’uomo, collegato con l’artificiale nel mondo, quindi
c’è sempre un’oscillazione continua in Dick, c’è la ricerca, l’unico filo rosso
che possiamo trovare è che lui aveva una grande passione e che sentiva questi
temi come i temi della sua vita oltre che della sua opera e da questo punto di
vista direi che possiamo metterlo, anche se per tante altre cose non centri
nulla, ma insomma è un altro degli eredi delle avanguardie storiche artistiche
dei primi del Novecento che vollero ribellarsi contro la distanza, la
separazione, la forbice tra arte e vita e in qualche maniera Dick nella sua
California degli anni ’50, ’60, ’70 provò a fare anche questo per suo conto.
Grazie.
1 Über formal unentscheidbare Sätze der
Principia Mathematica und verwandter Systeme, «Monatshefte für Mathematik und
Physik», vol. 38, 1931
2 Lawrence
Sutin, Divine invasioni, Roma,
Fanucci 2001, pag. 300.
3 Giorgio
Concato correlatore nella conferenza con Antonio Caronia, autore del libro L’angelo
e la marionetta, Bergamo, Moretti & Vitali 2001.
4 Out of control: The New Biology of Machines, Social Systems and the
Economic World (Perseus Books, 1995)
5 Lewis Mumford, Thecnics and Civilization, 1934
Nessun commento:
Posta un commento