Un essere sonnacchioso,
ma allertato, tentacolare, in un mare paludoso, da palude definitiva, color marrone, terra
bruciata, e una cattedrale avvolta tra le sue spire, una chiesa gotica con un
rosone in facciata. Il suo viso affonda
la bocca e parte del naso nella fanghiglia ma un bagliore risplende nella
guancia sinistra, simile alla luce spettrale della cattedrale. Se fossimo
d’accordo con quanto dice l’illustratore
delle copertine dickiane di Fanucci
Antonello Silverini: “Credo che le
illustrazioni rimangano, per tutti noi, il primo coinvolgimento con il libro,
il primo sguardo nella storia d’amore con quello che leggeremo” sarebbe
allora lecito chiederci se questo coinvolgimento, se questo approccio visivo
con il testo scritto è stato raggiunto, ha avuto un viatico ben augurale con
una storia che speriamo sia storia d’amore, o quanto meno di un feeling intenso
che giustifichi il tempo, sacrificato alla vita, della lettura. Ma è proprio
così? E’ l’immagine che presenta un’opera letteraria la sua rappresentazione,
quella chiave visiva che introduce all’opera, la illustra, illustrazione
appunto? Nel caso di Silverini penso di no e questa in particolare me lo
conferma. Siamo lontani dal rappresentare il romanzo, quel viso potrebbe essere
quello di un hidalgo, con un cappello a larghe falde con in cima uno spillone a
forma di cattedrale e un passamontagna ad avvolgere gran parte della faccia.
Siamo lontani dalle puntuali illustrazioni di un Thole, a cui bastavano le
quattro righe di riassunto per sintetizzare il senso del romanzo. Ma sì
Silverini non sa illustrare, non sa rappresentare, ma forse sa
autorappresentarsi. Forse sa fare quella cosa che raramente riesce a un
illustratore, quello cioè di lasciarsi coinvolgere, di partecipare alla storia,
di essere dentro quella storia. E pertanto di rinarrarla a modo suo, da
protagonista. Antonello Silverini diventa Joe Fernwright, si sente hidalgo
nell’avventura col Glimmung. In quella carta marrone sgualcita, da pacco, si
avvolge per affrontare la perigliosa missione della cattedrale da far
riemergere. Una riemersione da un indistinto primordiale, anche se ormai un po’
fuorimoda, inconscio collettivo. Senza nulla togliere a tanta buona
illustrazione, qui siamo in un’altra cosa; non è l’arte, non c’entra, siamo in qualcosa
di diverso. E’ la capacità di un’autonomia visiva che non rinuncia, che non si
stacca comunque dall’oggetto che la influenza. In un qualche modo si crea un
doppio, un doppio sì dell’opera letteraria che l’ha generato, ma un doppio che
può essere letto a sua volta in modo autonomo e creativo. Si è generata
un’altra opera.
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