venerdì 30 gennaio 2015

Antonello Silverini: Illusione di potere


La copertina di Illusione di potere è a prima vista particolarmente criptica. Ci lancia una sfida a cercare di accostare quel che viene raffigurato con il contenuto del libro. Proprio il non privilegiare un elemento specifico ci fa pensare a un’illustrazione più aderente a un qualche avvenimento emblematico della trama. Uno strano macchinario, una specie di macchina inutile alla Tinguely montata su un carrello con ruote e con in cima un cappello da uomo, due mani realistiche che sembrano voler afferrare un medicinale, una pillola. Alle sue spalle un uomo accovacciato, presumibilmente un tecnico sistema il meccanismo (motore?) della macchina, e sullo sfondo un’automobile ferma, in attesa. Il tutto poggia su una specie di pavimento di legno con un orizzonte cartaceo marrone ocra. Il rosso della macchina si staglia spargendo riflessi rossastri sia sull’uomo che sull’auto in lontananza. Bene! Potrò sbagliarmi, ma questa immagine non corrisponde a niente del contenuto manifesto dell’opera. Il macchinario antropomorfizzante non ha nulla a che vedere con gli scarti delle “unità di controllo Cani Pigri Marroni” le uniche a cui potrebbe alludere, troppo grande, troppo antropomorfo, troppo comicamente inutile. Appunto come una macchina celibe. Ed è forse pretestuoso da parte mia cercare di vedere una certa somiglianza nel profilo del “tecnico” accovacciato con l’artista Jean Tinguely accovacciato in alcune fotografie che lo ritraggono durante la costruzione delle sue macchine celibi; ma per quanto appunto pretestuoso, prima di scartare questa fragile associazione potremmo cercare di vederne una sua possibile utilizzazione. Tinguely recuperava scarti di macchine, oggetti rotti, fuori uso e li riportava a una nuova vita. Bruce Himmel, il tecnico di Illusione di potere che monta le unità di controllo difettose su minuscoli carrettini lo fa perché li considera vivi “solo perché sono difettosi, incapaci di guidare un’astronave nello spazio profondo, questo non significa che non abbiano il diritto di vivere la loro misera vita. Io li libero e loro se ne vanno in giro per… direi per sei anni o forse di più, tutto qui. Questo gli restituisce ciò che gli spetta di diritto.” E’ la vita, il desiderio di vivere che accomuna tutte le cose, animate e inanimate1 o almeno questa è l’idea che probabilmente Philip K. Dick aveva del mondo e delle cose che lo abitano, e qui in questa immagine di copertina, anarchica, alla Jarry, si mette a nudo l’essenza delle cose, tutte: l’innato bisogno di vivere, di non cedere all’entropia, al nulla. Filosofia dickiana magistralmente esplicitata dall’estro di Silverini che evidenzia in primo piano questo ibrido di prototipo di un possibile nuovo rapporto tra uomo e macchina e che relega nello sfondo l’artefatto di una concezione di questo rapporto obsoleta e ormai anacronistica.
1 Vedi la dichiarazione di Willis il robot di Guaritore galattico “Nessuna struttura, nemmeno una artificiale, gradisce il processo entropico. E’ il destino ultimo di ogni cosa, e ogni cosa vi si oppone.” voce:  Robot  

Venerdì 6 febbraio la copertina "Radio libera Albemuth" di Antonello Silverini

martedì 27 gennaio 2015

Amnesia


Esiste un’amnesia divina che compare nel primo romanzo LA CITTA’ SOSTITUITA (1953) e riguarda Ormazd, il creatore, in eterna lotta con il distruttore Ahriman. La perdita della memoria costringe la forza creatrice nel corpo di un comune mortale e lascia la piccola cittadina di Millgate, nelle mani del potere malvagio di Ahriman. Solo il ritrovamento da parte di Ormazd del “suo vero Io”  permette l’infrangersi dell’incantesimo sulla città e la liberazione di entrambe le divinità che possono riprendere a rincorrersi e a fronteggiarsi nell’intero universo. Ed è in uno degli ultimi romanzi DIVINA INVASIONE (1980)  che riappare ancora una divina amnesia. Il bambino Emmanuel dovrà ricordare, un poco per volta, aiutato dalla piccola Zina che lui e Zina sono il maschile e il femminile della divinità che si è scissa. La riunificazione permetterà loro di opporsi al potere del male, a quel potere che è “la cessazione della realtà, la cessazione dell’esistenza stessa. E’ il lento dissolversi di tutto ciò che è sino a trasformarsi (…) in un fantasma.” Il creatore e il distruttore, l’amnesia colpisce il primo e lascia il mondo in balia del secondo. Ma ritrovare la memoria è un imperativo anche per gli uomini, se è vero, come sostiene il romanzo RADIO LIBERA ALBEMUTH (1976) , che noi tutti viviamo ancora nell’antica Roma. Per Nicholas Brady (co-protagonista insieme allo stesso Dick del romanzo) la sensazione di non essere a Orange County in California, ma nell’antica Roma, diviene man mano una certezza: “Sentivo l’impero senza vederlo, avvertivo una grande prigione d’acciaio in cui languivano prigionieri umani.” “E sapevo, come se dentro di me ci fosse un orologio, che il tempo vero era il 70 d.C., che il Salvatore era giunto ed era morto ma che sarebbe presto ritornato” “Ed egli sarebbe tornato”  si chiede Brady “solo per scoprire che eravamo scomparsi, o peggio, che eravamo stati assimilati nelle regole dell’impero, perdendo lo stesso ricordo di ciò che eravamo veramente… o piuttosto perdendolo fino al momento in cui, col suo ritorno, Egli ci avrebbe restituito quel ricordo? Risvegliando in uomini addormentati la conoscenza perduta della loro reale natura?”  L’anamnesi, la perdita dell’amnesia permetterà all’uomo di “ricordare le sue sacre origini”. Più prosaicamente, qua e là, in vari racconti, l’amnesia umana riguarda la cancellazione di particolare scomparti di memoria, come per Jemmings PREVIDENZA (1953) che ha dovuto subirla per contratto. Le regole d’ingaggio della ditta che l’aveva assunto prevedevano di cancellare la memoria dell’intera esperienza lavorativa al termine della prestazione. Nel racconto PULCE D’ACQUA (1964)  lo scrittore di fantascienza Paul Anderson viene trasportato nel futuro ma al suo ritorno si provvede a una bella ripulitura dei ricordi di quanto ha visto. Douglas Quail MEMORIA TOTALE (racconto 1966)  invece è un modesto impiegato che sogna di andare su Marte, ma in realtà c’è già stato e più amnesie procurate nascondono verità pericolose e sconvolgenti. Dio e uomo possono essere entrambi colpiti dalla stessa sindrome, la perdita della memoria della loro vera identità, che per il divino comporta la perdita di senso del mondo con il suo conseguente sfaldarsi, mentre per l’uomo è il suo stesso esserci nel mondo che viene messo in discussione. Se il suo risveglio a una coscienza più alta, “divina” non riesce, l’altra faccia dell’anamnesi è la scoperta della propria, non umanità possibile. Nulla è dato una volta per tutte e Garson Poole, per un banale incidente, scopre che in realtà lui non era altro che una formica elettrica, un androide a cui era stato fatto credere di essere umano. LE FORMICHE ELETTRICHE (RACCONTO 1968) 

giovedì 22 gennaio 2015

Antonello Silverini




Ho già detto in precedenza1 che se si parla di illustratori dickiani in Italia si fa necessariamente riferimento a Karel Thole e a Antonelli Silverini; ma in verità sarebbe più giusto considerare il solo Silverini come un autentico interprete figurativo dickiano. Le immagini per Dick di Thole, pur essendo molto efficaci, non possiedono una valenza così autonoma dal resto della sua produzione fantascientifica. Thole si lasciava suggestionare da pochi elementi del romanzo con cui, attraverso un enorme deposito/archivio di immagini dei più disparati ambiti figurativi, da lui ben padroneggiati, elaborava un condensato evocativo sia della trama del soggetto in questione che del più vasto armamentario simbolico del genere o sottogenere letterario a cui appartiene. Insomma Dick è rappresentato sì, ma nella singola opera, al pari di un altro autore, all’interno di una coerenza stilistica che vale per tutto il genere. In ultima analisi possiamo dire che Thole è illustratore dickiano quanto è illustratore ballardiano, asimoviano, ecc., cioè è illustratore, in primis, di fantascienza. E’ in questo senso che per Silverini invece si può  parlare di illustratore dickiano piuttosto che di fantascienza. Sgomberiamo subito il campo da possibili equivoci, non è qui questione di “misura”, chi è più grande, più bravo ecc. Mi creerebbe molte difficoltà il tentare di farlo e comunque per cercare un’ipotetica obiettività dovrei riuscire prima a depurarmi di quel coacervo di emozioni a puntate che le copertine di Urania hanno distillato in me fin dall’adolescenza. Antonello Silverini non è semplicemente un illustratore dickiano ma è più precisamente un autore dickiano, non interpreta Dick, non ne individua solamente gli elementi importanti per darne una spiegazione sintetica, concisa dei romanzi; Silverini fa Dick. Cerco di spiegarmi. Il lavoro dell’illustratore è lavoro appassionante e ingrato allo stesso tempo. Condivide col fare artistico la creatività, l’invenzione e pertanto la libertà, ma è costretto dentro limiti ben precisi dettati dalla cosa da illustrare, dai gusti del committente e dai presunti gusti del pubblico, il tutto dentro una ferrea logica di mercato. Questo ovviamente a grosse spanne e guardandomi bene qui dall’avviare qualsivoglia discorso sull’arte, sul mercato dell’arte, sulla libertà dell’artista in generale, ecc. All’interno di questa logica paradossalmente forse l’illustratore più bravo, più originale è quello meno libero, quello che attenendosi a una griglia che si è dato o che gli hanno imposto sa muoversi al meglio, sfruttando lo spazio che gli è concesso. In una sorta di lotta per la sopravvivenza l’illustratore si deve fare furbo, deve giocare la sua partita tra imposizione e libertà con le risorse dell’astuzia. Ho l’impressione che Silverini non possa essere considerato semplicemente un grande illustratore perché dentro un recinto scalpita, è impaziente; ha voglia d’aria, anela libertà. L’incontro, l’occasione dickiana penso sia stata una grande fortuna. Un corpus di opere di un autore, un intero mondo letterario, pur a prima vista di genere, un editore appassionato, uno stuolo di critici altrettanto appassionati e un esercito di lettori transgenerazionali. Ma soprattutto l’incontro con Dick, con un autore con cui Silverini ha dimostrato di avere un’affinità elettiva. Un’affinità elettiva determinata dal fatto che ambedue detengono un immaginario fatto di cose. L’opera di Dick è intrisa, è piena di cose, di oggetti, di artefatti i più vari; e il bambino Antonello li prende, li afferra e li dispone con cura, cioè ne ha cura, sopra una tela pretrattata con chiazze di colore e grumi di varia materia. E’ un operare pittorico sì, ma dentro un ambito mentale, un pensiero progettuale capace di assemblare le cose e di cambiarne il senso e secondo del tipo di assemblaggio. Per Dick sono le cose della vita, le cose che fanno, compongono le nostre forme di vita; per Silverini sono le immagini di queste cose, le loro proiezioni, le loro ombre che vanno a configurare il mosaico del nostro vivere. Silverini fa Dick in quanto ne mostra la trama, non tanto dei suoi singoli romanzi, quanto del suo pensiero, e perché no… della sua filosofia.


Venerdì 30 gennaio: la copertina di Antonello Silverini "Illusione di potere"

martedì 20 gennaio 2015

Americani


“Gli Americani leali potevano tornare a respirare liberamente. La loro libertà di fare ciò che gli veniva detto di fare era stata salvaguardata.” RADIO LIBERA ALBEMUTH (1976)

venerdì 16 gennaio 2015

Karel Thole


In Italia se si vuole parlare di illustratori dickiani non si possono fare altri nomi oltre a quelli di Thole e Silverini. Poche e sporadiche le eccezioni.1 Karel Thole è stato un illustratore prestato alla fantascienza e che ha trovato in questa il suo più naturale e congeniale habitat espressivo, nonostante la sua totale estraneità culturale al genere stesso. Gli storici curatori di Urania Fruttero e Lucentini ricordano “che Thole arrivò a Urania già completo, assemblato, con tutte le sue tecniche di lavoro perfezionate, i suoi colori calibrati, il suo gusto, la sua cultura pittorica, la sua fantasia formale già pienamente stabilizzata.”2 E’ cosa risaputa, per bocca dello stesso Thole, che non leggeva i romanzi da illustrare “ma traevo spunti dai dati che mi passavano i curatori della collana e così la mia fantasia era stimolata, perché quei pochi dati mi dicevano cosa fare, ma non come farlo.”3 Il non fantascientifico Thole con il suo “miracoloso, magico verismo” si è staccato “senza possibilità di confronto dalla produzione quasi sempre mediocre, ingenua dei vari illustratori di fantascienza”, e ancora, sempre Fruttero e Lucentini aggiungono, in un’apparente provocazione scherzosa: “la verità è che il preteso signor Thole (…) finge di illustrare romanzi di fantascienza.” In questa nota divertita, funzionale a un gioco caricaturale su una presunta origine aliena dell’illustratore, sta forse il segreto di una capacità creativa che, totalmente inserita nell’immaginario del genere riesce di fatto a trascenderlo concretizzandosi in un risultato denso di rimandi ed echi al più vasto e articolato mondo figurativo nella sua accezione più ampia, compreso quello in movimento del cinematografo. La finzione di illustrare fantascienza gli ha permesso di condensare gli stereotipi propri del genere operando una specie di saturazione alchemica da cui poter far emergere le visioni di un vero e proprio “manuale dell’ignoto”. Tradendo il genere, con una licenza poco poetica, possiamo affermare che Thole infischiandosene è riuscito a fregarlo. Certo non è stata la sua un’irriverenza derivante da una scarsa considerazione, da uno snobismo culturale; la sua dichiarazione: “considero la fantascienza una cosa seria, e seriamente cerco di interpretarla”4 sarebbe ingiusto considerarla insincera. E’ che è tutto il mondo della scrittura probabilmente ad essere vagliato secondo un filtro a grana grossa da parte di Thole, come dimostra lo scempio della Metamorfosi, con quell’osceno scarafone in primo piano. Con buona pace del povero Franz Kafka e delle sue premure a che Gregor non venisse rappresentato in tale modo. Ma Thole molto probabilmente pensava, sentiva per immagini e le immagini facevano altrettanto con lui, e per non rimanerne sopraffatto aveva trovato per sua fortuna il modo di usarle al proprio vantaggio.
1Nella collana Vertigo di Einaudi troviamo due titoli dickiani In terra ostile e Cronache del dopobomba che meritano una nota positiva  per la realizzazione delle copertine da parte dello studio fotografico Amendolagine e Barracchia di Milano, con un sapiente utilizzo non convenzionale della tecnica dello still life.
2 Nell’introduzione di Fruttero e Lucentini al Manuale dell’ignoto. La pittura fantascientifica di Karel Thole, Arnoldo Mondadori, Milano 1981.
3 La verità di Karel Thole in Manuale dell’ignoto cit.

4 ibidem

Ancora su Thole: Redenzione immorale    e  Cronache del dopobomba 


martedì 13 gennaio 2015

Altro


Se in basso si estende il mondo della tomba “il mondo immutabile della causa e dell’effetto, il mondo del demonio” e in alto il mondo etereo, il paradiso in contrapposizione all’inferno, l’uomo si trova al centro. Lì in quello strato dove “in ogni istante un uomo poteva affondare… discendere, sprofondare” ma da cui poteva anche ascendere, salire allo stato superiore, lì “ogni aspetto, o sequenza della realtà, poteva diventare una delle due alternative, in qualsiasi istante.”  Se l’una “la depressione, la pura malattia  della mente, faceva affondare, l’altra… come si otteneva? Grazie all’empatia. Comprendendo un altro, ma non dall’esterno ma dall’interno.” LE TRE STIMMATE DI PALMER ELDRITCH (1964). Chiave, perno della salvezza dell’uomo è la comprensione dell’altro. Ma cosa significa dall’interno e non dall’esterno? “Forse” come suggerisce il riparatore di vasi Joe Fernwright, protagonista del romanzo GUARITORE GALATTICO (1967) “ci siamo sempre sbagliati. La caritas” che oggi chiamiamo empatia “non è un sentimento, ma una forma superiore di attività cerebrale, una capacità di percepire qualcosa nell’ambiente che ci circonda… di notarla e (…) di preoccuparci. E’ un atto cognitivo, ecco cos’è. Non si tratta del sentimento opposto al pensiero: è un atto cognitivo e basta.” Questo è il conoscere dall’interno. Nell’impossibilità della conoscenza reale dell’altro, la necessità di riconoscerlo come tuo simile. “Abbiamo ottenuto o imparato qualcosa, dal nostro inatteso incontro con i Pechinesi? Si chiese” Salisbury Heim direttore della campagna elettorale del primo candidato nero alla presidenza USA nel romanzo SVEGLIATEVI DORMIENTI (1963) “Abbiamo scoperto, decise, che la differenza tra un bianco come me e un negro è così dannatamente lieve, alla luce di tutti i criteri validi, che in pratica non esiste. Quando si verifica un evento simile, un incontro con una razza diversa dall’Homo Sapiens, finalmente la verità affiora.” L’empatia è un atto cognitivo e serve a riconoscerci nell’altro

venerdì 9 gennaio 2015

Antonello Silverini: Redenzione immorale


Davanti a un fondale di cartapesta imbiancata, cosparsa di grumi di colore bianco grigio rosato, con toppe dello stesso materiale, leggermente più scure, incollate sopra, sfilano tre macchine robotiche, ossequiose, al servizio di un “umano” padrone di cui si intravedono unicamente le gambe accavallate su di uno scorcio di sedia. La copertina di Redenzione immorale è tutta qui. La statua sfigurata e sconciata del maggiore Streiter non viene rappresentata così come il personaggio principale, il burlone, al massimo ce lo si può immaginare nella parte mancante della copertina, in quella cesura che esclude il corpo soprastante quelle lunghe gambe e quei piedi privi di calze installati dentro scarpe forse un po’ troppo comode. Ma se manca la parte essenziale, il volto, il sembiante di Allen Purcell, il dissociato protagonista del romanzo, manca pure del tutto la raffigurazione satirica, graffiante che la precedente versione di Karel Thole per Urania (qui) metteva in assoluta evidenza. Silverini preferisce il tono pacato, un’apparente descrizione di superfice, monodirezionale, monotematica: l’ossequiosa servitù dei media. Il sofisticato apparato tecnologico dei media desideroso di soddisfare e ingraziarsi il padrone di turno; padrone capo o padrone utente che sia. Ma è un ben strano potere quello che li comanda ed è un ben strano servizio quello che qui si trova a servire. Una luce aranciata sulla sfera munita di cinepresa e che funge da testa, concentra la nostra attenzione sull’unica tonalità di vita, di vita “accesa”, dell’intero quadro: la vita per delega.

Venerdì 16 gennaio: Karel Thole 

mercoledì 7 gennaio 2015

animali



Delle indagini di un cane di uno dei primi racconti ROOG (1953), lo stesso Dick commenta in una nota del 1976: “Parla della paura; parla della lealtà; parla di un’oscura minaccia e di una brava creatura che non riesce a comunicare a coloro che ama la consapevolezza di quella minaccia.”  L’animale  non è più un’alterità da cui difendersi, che va cacciato o domato. E’ sempre più solamente il nostro amico fedele che “rifiuta di entrare in Paradiso senza il suo padrone. E così aspettano, anno dopo anno. I NOSTRI AMICI DI FROLIX 8 (1968-9).  L’animale, quello vero, quando non è completamente estinto (come per i romanzi I SIMULACRI (1963) e LA PENULTIMA VERITA’ (1964) in cui non ci sono più neanche quelli domestici) sopravvive solo nelle forme aliene dei pianeti in via di colonizzazione o nel mondo postatomico di CRONACHE DEL DOPOBOMBA (1963) in cui l’estremo impoverimento della tecnologia, un vero e proprio crollo, riporta in primo piano il rapporto tra l’umano e l’animale. “Stava pensando che i rapporti con gli animali, adesso, erano diversi, molto più intimi. Non esisteva più l’abisso che c’era un tempo tra uomini e bestie.”  Il totemismo dell’animale di un tempo arcaico o futuro (come ad esempio nel romanzo DOTTOR FUTURO del 1959) con la sua funzione protettiva nei confronti del gruppo umano che lo adotta, viene sostituita, quando va bene, da una sorta di funzione empatica “credi (…) che possedere un animale aumenti l’empatia di una persona”  SCORRETE LACRIME, DISSE IL POLIZIOTTO (1970), ma per lo più  dal bisogno di possedere uno status symbol  che evidenzia una raggiunta posizione sociale. Nel mondo di MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? (1966) i pochi animali ancora esistenti sono tutti inseriti nel catalogo Sidney, con tanto di prezzo indicativo nazionale e disponibilità costantemente aggiornata. Chi non può permettersi un animale vero, deve ricorrere, giocoforza, ad uno artificiale.  Ma un animale autentico resta come desiderio insopprimibile; il rimprovero di Rachael, l’unica androide legalizzata nel romanzo, fa al cacciatore di androidi Rick è lapidario: “Quella capra (…) Tu ami quella capra più di me. Più di tua moglie, probabilmente. Prima viene la capra, poi tua moglie, poi dopo tutti gli altri… - Scoppiò a ridere, allegramente: - Cosa si può fare, se non ridere? Concluse.”