lunedì 30 gennaio 2017

ESEGESI 4 - Avere accesso alla verità


Scrivere per la verità è il compito che Philip K. Dick sembra essersi dato tramite la sua ricerca esegetica che coinvolge assieme alle esperienze liminari come quella del 2.3.74 (e altre date posteriori a quella ma di pari importanza) anche il proprio lavoro narrativo nel suo complesso: “ È nel mio lavoro che esiste il mio asse della crescita e io ne sono ben consapevole; sono da tempo a disposizione del mio lavoro, vedendo me stesso come suo strumento, e non esso come mio.”(1076) E cioè se la vita di Dick come sembra lui voglia e come sembra in effetti diventare sempre di più indissolubilmente legata alla verità è inevitabile che ciò comporti “un esercizio di incessante ‘alterazione’ dell’esperienza individuale, in un continuo diventare altro e mirare a una vita diversa o ‘altra’” ma, con in più, il rischio duplice “di non aver mai una rete di protezione, cioè di non sapere dove davvero ci conduce l’alterazione di noi stessi, e un rischio paradossalmente opposto e assai più temibile, quello di mirare comunque alla realizzazione rassicurante di un’’altra vita’.”1 L’essere riuscito, da parte di Dick, a far fronte a questo doppio grande rischio è forse il risultato più grande e anche il meno riconosciuto. L’aneddotica di un Dick in preda alle droghe e ormai completamente ‘fuori’, al di là delle concessioni che comunemente si permettono agli artisti e poeti maudits, sono tanto condivise quanto quella di un Dick convertito a una fede trascendentale. Ma proprio leggendo e rileggendo la sua ultima opera, la più privata e la più pubblica (nel suo essere priva di protezioni e maschere) non si può non vedere come la sua figura più intima e personale sia quella di “non farsi mai trovare là dove l’interrogazione di verità ci vorrebbe immobilizzare.”2 Dick ha resistito alla personale disgregazione proprio grazie alla sua ricerca che “è degna quanto la meta” e che è “vita dinamica della mente” e tramite la quale “io scrivo, io apprendo, io mi evolvo e cresco; dunque sono.”(1231) e allo stesso tempo è rimasto  indenne dalla tentazione della verità assoluta, rivelata, di un’’altra vita’: “Adesso sono convinto che la mia esperienza del 2-3-74 non è reazionaria ma che mi sta portando nel futuro… un vasto salto di qualità dall’azione politica a una colossale meta-visione della realtà che abbraccia il politico e lo spirituale, lo scientifico e il religioso: quello che per me personalmente può essere la sommatoria fondamentale della mia intera vita di ricerca e di visione del mondo; per me e per il genere umano si sta aprendo una nuova età in cui il sacro, che ci si attende dall’alto, per così dire, ritorna al fondo, allo strato di spazzatura del vicolo, umile e nobile, bellissimo e sofferente e vivo e cosciente”.(1165) Si può certo facilmente isolare il Dick religioso e vedere, come fa Carlo Formenti, “che la lunga ricerca del senso da parte dello scrittore raggiunge finalmente il proprio obiettivo, e cioè quella divinizzazione dell’uomo che coincide con il nucleo essenziale della gnosi fantascientifica.”3 Ma per quanto potrebbe sembrare lecita questa visione resterebbe comunque una visione parziale del pensiero di Dick. Una parzialità tendente a ridurre e a depotenziare una complessità che invece avrebbe bisogno, prendendo a prestito una felice espressione di Paolo Virno4, di un “materialismo dalle spalle larghe”. Qualcosa di molto simile a quel ‘materialismo spirituale’ che Philip K. Dick ha saputo costruire con tenacia, piacere e sofferenza nell’arco della sua non lunga ma intensa vita. 

Nota 1: Pier Aldo Rovatti, Dimmi chi sei. Foucault e il dilemma della veridizione, in Aut Aut n. 362 aprile-giugno 2014, Il Saggiatore, Milano, p. 46
Nota 2: P. A. Rovatti,  Dimmi chi sei. Foucault e il dilemma della veridizione, cit. p. 47.
Nota 3: Carlo Formenti, La gnosi di Philip K. Dick, in Trasmigrazioni. I mondi di Philip K. Dick a cura di V. M. De Angelis e U. Rossi, Le Monnier, Firenze 2006 p. 46

Nota 4: Paolo Virno, Promemoria su Ernesto De Martino, in Studi Culturali a. III n. 1 giugno 2006 p. 147

Lunedì 6 febbraio: ESEGESI 5 - Potrebbe non finire con me.

giovedì 26 gennaio 2017

Omosessualità



“Phil era fortemente terrorizzato dall’idea di scoprire in sé tendenze gay. La benevolenza che mostrava verso i suoi amici gay era tabù se applicata a se stesso.”1 Ed è proprio la paura a scoprire una tendenza latente di omosessualità a intercorrere qui e là nelle pagine dei suoi libri, come nel romanzo I SIMULACRI (1963): “quattro matrimoni, e l’ultimo era stato il più breve. Stava perdendo colpi. Magari, Dio non lo volesse, era un omosessuale latente”.  Nel racconto L’ULTIMO TEST (1979): “gli fecero un esame fisico, gli tagliarono i capelli, gli diedero un uniforme, una brandina per dormire, e lo sottoposero a molti test psicologici. Bibleman sospettò che il vero obiettivo dei test fosse decidere se era un omosessuale latente, poi sospettò che i suoi sospetti indicassero che era un omosessuale latente”. Ironicamente arriverà a interpretare come debolezza il fatto che ai “disegnatori di armi alla moda, in contrasto con le loro controparti disgraziate appartenenti al mondo della sartoria (…) piacessero le donne” MR. LARS SOGNATORE D’ARMI (1964). Ma probabilmente non era tanto la norma, il dover essere “normale” il cruccio di Dick, quanto la propria virilità, il non essere debole, passivo (cosa che gli era stata spesso rimproverata dalla madre e in parte anche dal padre). Vecchio problema di cui non erano esenti neanche quei costumi, considerati erroneamente tanto permissivi degli antichi greci. È l’essere attivo piuttosto che passivo a fare la differenza. “Gli occhi da pesce morto della ragazza si voltarono a fissarlo. –Ma sei frocio?- Gli chiese Connie. –Cerco di non esserlo. Per questo ti ho portata qui questa sera. –Devi lottare molto contro questi tuoi impulsi? –Puoi ben dirlo. Connie assentì con il capo. –Sì, credo che tra poco lo scoprirò. Se sei un finocchio latente vorrai probabilmente che sia io a prendere l’iniziativa. Coricati e faccio io. Vuoi che sia io a svestirti? Va bene, distenditi semplicemente e farò io tutto. – Allungò la mano verso la cerniera dei suoi pantaloni.” UN OSCURO SCRUTARE (1973). 

Nota 1: Lawrence Sutin, Divine invasioni, Fanucci, Roma, 2001, p. 69.

lunedì 23 gennaio 2017

ESEGESI 3 - Perché l'Esegesi?


Da dove parte questa esigenza di scrittura interminabile e privata che ha accompagnato Dick nei suoi ultimi otto anni? Tutto nasce da quell’avvenimento nella sua vita che viene sinteticamente ricordato come l’esperienza del 2.3.74. Data fatidica di quell’evento definito dallo stesso Dick come propriamente mistico; l’esegesi sarà allora per Dick: “un genere di tributo da parte mia all’importanza di quello che mi è capitato, di quello che ho visto, di quello che ho appreso; questa interminabile rimasticatura è un modo per preservare il ricordo di tutto ciò; ecco il punto vero e proprio, mantenere vivo il ricordo”(862) Ma non solo, con estrema lucidità potrà aggiungere che: “La stanchezza mi ha portato al punto in cui posso dire: ho seguito tutte le linee della discussione ed ecco dove portano, portano a dove sapevo di essere, al tempo in cui è accaduto. Ma è a questo che serve un’esegesi di un’esperienza mistica, a svilupparla razionalmente in modo da poterla esprimere a parole. Alla fine le parole non si trovano, però. Ma il tentativo deve essere fatto.”(863) Ora se questo motivo non potrà non sembrarci più che lecito, la nostra attenzione dovrà però concentrarsi sull’esperienza stessa di cui l’esegesi vuole a tutti i costi preservarne il ricordo. È realmente possibile definirla come esperienza mistica? Al di là di qualunque pretesa di verifica di realtà del fatto in sé, è possibile considerarla come un episodio avente le caratteristiche tipiche di altri episodi considerati tradizionalmente mistici? Per rispondere a queste domande prendiamo a prestito il criterio che uno studioso di storia delle religioni come Dario Sabbatucci ha sancito come essenziale per definire un’esperienza come propriamente mistica e cioè la sua “funzione salvifica” la sua promessa di “salvezza assoluta”. E la “salvezza assoluta” per un mistico “è la salvezza dal dover vivere da uomini (anziché da ‘santi’ o ‘illuminati’).1 Ma tutto si può dire del 2.3.74 tranne che sia servito per Philip K. Dick a farlo morire per rinascere come un profeta, o altro, in grado di creare una nuova religione o rivoluzionarne una esistente. Tutta l’esegesi testimonia un atteggiamento che cerca di ingaggiare un vero e proprio corpo a corpo con quell’esperienza per capire senza ridurre, e in cui quel “preservare il ricordo” fosse “un tentativo di capire la mia stessa comprensione”(1135) e un luogo in cui “sto pensando al mio stesso pensare”(1136) Ma l’esperienza del 2.3.74 non è neanche definibile come “pseudo-mistica” cioè, seguendo sempre Sabbatucci, funzionale soltanto a “una salvezza relativa” come lo sono quelle dei riti di passaggio che, l’antropologia ci insegna, servono in definitiva a far vivere meglio nella società, a integrarsi ad essa. Nulla di tutto ciò è accaduto a Dick, di certo il suo essere ‘fuori’ non è stato intaccato, anzi! Ma allora come definirlo questo 2.3.74? Forse dobbiamo attenerci proprio a quello che Dick ci dice nella sua esegesi:  “Non è una dottrina o nemmeno una teoria che sto fabbricando; è un’impressione, un cambiamento in me quanto a ciò che sono. Sono diventato non più lo stesso, dopo quanto è avvenuto, e questo è stato un impegno, un atto che si è protratto per anni da parte mia. Voglio essere differente per via di quello che ho visto; voglio essere cambiato per quanto più possibile (senza ovviamente falsificare quello che è successo).  L’ultima cosa che voglio ottenere da quell’esperienza è essere uguale a come ero prima di averla. E posso cambiare solo nella misura in cui comprendo quell’esperienza; e posso comprenderla solo (come dico) costruendo attivamente un modello interiore, adeguato, appropriato (di quello che è successo). Così questo non è un rendiconto passivo. Questo è un impegno artistico, spirituale, concettuale che implica anni di lavoro. La mia concezione cresce; non è statica. Mentre cresce io cambio.”(995) È allora azzardato parlare di un’esperienza spirituale, considerando la spiritualità, come diceva Foucault, come quell’”insieme di quelle ricerche, di quelle pratiche e di quell’esperienze (…) -che- per il soggetto, per il suo stesso essere di soggetto, rappresentano il prezzo da pagare per avere accesso alla verità”2? Una verità, come ci dice Dick, come quella del cristianesimo, ad esempio, dunque non come “la verità ma una verità, che può essere evitata o nella quale ci si può immettere come si fa con una scheda perforata, in modo voluto o per caso (io mi ci sono immesso per caso)”(857) Spirituale allora più che mistico perché non cambia solo il sé ma cambiando questo cambia necessariamente anche il mondo: “L’elemento spirituale in un uomo è identificato come un certo straordinario tipo o livello di ragionamento così qualitativamente differente dal normale ragionamento da presentarsi alle persone orientate verso la religione come divino, soprannaturale, un Dio o uno Spirito Santo dentro… eppure è in effetti una facoltà di ragionamento in cui le astrazioni e le inferenze sopraverbali prendono posto nella mente come straordinarie realizzazioni sul sé e sul mondo.”(1049-50)

Nota 1: Dario Sabbatucci, Saggio sul misticismo greco, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, Roma 1979, p. 21

Nota 2: Michel Foucault, L’ermeneutica del soggetto, Feltrinelli UE Saggi, Milano 2011, p. 17

Lunedì 30 gennaio: Esegesi 4 - Avere accesso alla verità

mercoledì 18 gennaio 2017

Droga



Nella premessa a LABIRINTO DI MORTE (1968) Dick scrive: “nel romanzo le esperienze di Maggie Walsh dopo la morte sono basate su una mia esperienza con L.S.D. Fino ai minimi dettagli.” Antonio Caronia ci avverte però, ricordando quanto scritto da Lawrence Sutin,1 che ben poco della leggendaria cattiva fama di consumatore di droghe corrispondeva a verità: “vero amore di Phil furono le pillole, soprattutto anfetamine, che comincia a prendere fin da adolescente in relazione ai suoi attacchi di panico, vertigine e agorafobia.”2 Il tema della droga rimane comunque centrale nelle sue opere. Fondamentale spesso per le esperienze religiose: “Senza l’assunzione di una droga allucinogena, il sacramento non poteva avere luogo; ecco perché come il culto degli indiani americani cui somigliava, la chiesa di Peak dipendeva dalla disponibilità, per non parlare della legalità, della droga.” IN SENSO INVERSO (1965). Così come per quelli, come gli androidi, che essendo privi di capacità empatiche e desiderando anch’essi poter provare l’esperienza della fusione non potevano far altro che ricorrere a specifiche droghe per ottenerla. MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? (1966). In LE TRE STIMMATE DI PALMER ELDRITCH (1964) abbiamo il can-D che è la droga illegale distribuita ai coloni di Marte e fornisce loro una ragione di vita tanto da farla considerare quasi una vera e propria religione e il chew-Z, una sostanza stupefacente introdotta da un’altra galassia  che vuole imporsi sul mercato marziano a spese di quella più vecchia e meno efficace. La nuova sostanza, in effetti, non crea solo l’illusione della vita eterna, ma sembra proprio realizzarla nella realtà. In ILLUSIONE DI POTERE (1963) la frohedaprina o JJ-180 è una droga ‘temporale’ (che permette di viaggiare nel tempo) ma  che dà subito una dipendenza assoluta e crea danni cerebrali irreversibili; ricade nella classe degli stimolanti talamici ed è un’arma fondamentale per la guerra. In MR. LARS SOGNATORE D’ARMI (1964) droghe molto simili alla mescalina (l’Excalatium, la Conjorizina) permettono a Mr. Lars, costruttore di armi alla moda, di andare in trance e trovare ispirazione per i suoi modelli. Vero incubo, anche per chi non la prova ma ha la sfortuna di capitarle vicino, è la droga KR-3 di SCORRETE LACRIME, DISSE IL POLIZIOTTO (1970); così come UN OSCURO SCRUTARE (1973) è un autentico tripudio per gli orrori di un mondo dominato dalla sostanza M (sostanza morte). Ma non sempre le allucinazioni che vengono prodotte dalle droghe sono più orribili della realtà stessa, nel racconto LA FEDE DEI NOSTRI PADRI (1967) l’uso di un anti allucinogeno svela qualcosa che fa rimpiangere l’opprimente coatta allucinazione collettiva.

Nota 1: Lavrence Sutin, Divine invasioni, Fanucci Roma 2001

Nota 2: Antonio Caronia e Domenico Gallo, Philip K. Dick la macchina della paranoia. Enciclopedia dickiana, Agenzia X, Milano, 2006, p. 131.

lunedì 16 gennaio 2017

ESEGESI 2 - Una filosofia da garage


Come prendere sul serio le indicazioni di Antonio Caronia sul Dick romanziere-filosofo e cioè per restare sull’Esegesi, come approcciarne la filosofia, qui esplicitamente evidenziata senza il consueto travestimento narrativo? Seguendo ancora Caronia un primo modo sarebbe “quello di passare in rassegna tutti i momenti in cui Dick affronta esplicitamente temi filosofici, controllarli se possibile con passi analoghi dell’Exegesis (opera ben più densa al riguardo delle opere narrative), e operare una prima classificazione e confronto fra i temi ‘espliciti’ e quelli impliciti. Il secondo sarebbe quello di identificare gli assi portanti (se si possono individuare) della ‘filosofia’ dickiana. E qui, per esempio, leggere – o rileggere – le intenzioni espresse da Dick confrontate con le realizzazioni. Ora non voglio contraddirmi subito sconfessando quanto ho appena detto. Non voglio, cioè, anticipare alcuna conclusione di una ricerca che (ripeto) è ancora largamente da fare. Ma mi sarà consentito di dichiarare almeno un’impressione, e che cioè, a volte, ciò che Dick dichiara esplicitamente vada preso più sul serio di quanto sinora tutti noi non abbiamo fatto.1 Quindi accettando subito questa contraddizione e facendola anche mia, prenderò sul serio quanto Dick ha dichiarato esplicitamente. Buona, cattiva, grossolana la filosofia di Dick va presa così com’è e non gli farò il torto di passarla al setaccio delle verifiche accademiche. Del resto Erik Davis (457 nota) parla esplicitamente di filosofia da garage descrivendo le “informali discussioni di gruppo fino a tarda notte sotto l’effetto di fumo o droga” tra Dick, Terence e Dennis McKenna2  “per tutto il tempo in cui visse a Orange County.” E per la filosofia di Dick potremmo anche parlare di filosofia grossolana, parafrasando un filosofo atipico come Gunther Anders che per tante cose potrebbe essere accostato a Dick. Soprattutto per quel suo tentativo di affiancare al suo filosofare una sorta di forma letteraria definibile come “farsa ontologica”. Il principale studioso della filosofia andersiana, Pier Paolo Portinaro ci spiega come “Nelle vesti di una ‘leggenda molussica’, Anders ci racconta una cosmogonia che ha per protagonista il dio Bamba, principio dell’essere senza fondamento, il quale, non potendone più di silenzio e di eternità, decide di creare il mondo, di collocare nel vuoto illimitato dell’ápeiron il pieno limitato del peras, dando vita a ‘qualcosa di ibrido e di ontologicamente ambiguo, qualcosa tra l’essere e il non essere’, ‘una sorta di colonia divina’, indipendente abbastanza per essere ‘se stessa’, cioè distinta dal suo fondamento, e nel medesimo tempo dipendente da lui, detentore del monopolio dell’essere.”3 Se questo tentativo di narrazione filosofica alla lunga, inframmezzata nei testi più prettamente filosofici risulta un po’ pesante e farraginosa, peraltro testimonia la presa di coscienza di un deficit di immaginazione nella filosofia del Novecento, un deficit che tende a distanziarla sempre più dai problemi concreti della vita del secolo di fine millennio. L’uso che Dick fa della fantascienza è la risposta riuscita a questo tentativo parzialmente fallito di Anders. Dick saprà usare la fantascienza a suo proprio uso e consumo, senza farsi ingoiare da essa ma al contrario ingoiandola, rimasticandola e vomitandola fuori come materia filosofica.4  Avremo modo di parlare ancora di Anders, della sua filosofia in rapporto a quella di Dick, per adesso ci accontenteremo di evidenziarne la comune ricerca verso il compito più importante a cui l’umanità nella nostra ‘tarda’ modernità è chiamata ad assolvere se vuole sopravvivere: “vale a dire vivere senza speranza.5 e cioè imparare a camminare senza il faro all’orizzonte di qualsivoglia utopia.

Nota 1:  A. Caronia,   Un filosofo in veste di romanziere, Il Manifesto 1.3.2012.   http://una-stanza-per-philip-k-dick.blogspot.it/2016/01/antonio-caronia-un-filosofo-in-veste-di.html
Nota 3: Pier Paolo Portinaro, Il principio disperazione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 51-2
Nota 4: Per Steve Erickson al contrario è stato Dick ad essere ingoiato dal genere fantascientifico dopo aver ambito, come il suo collega Theodore Sturgeon, al mainstream letterario (vedi nota a p. 238).
Nota 5: P. P. Portinaro, Il principio disperazione, cit., p. 29

Lunedì 23 gennaio: Esegesi 3 - Perché l'Esegesi?

mercoledì 11 gennaio 2017

Natura


Non c’è nessuna idealizzazione romantica, neanche in veste ecologistica, della natura in Philip K. Dick. Il ritorno ad essa è vista sotto il segno della fine, come ritorno all’indistinto, al non essere: “La loro visione: è cosmica. Non un uomo qua, un bambino là, ma un’astrazione: la razza, la terra. Volk. Land. Blut. Ehre. Non l’onore degli uomini degni d’onore, ma l’Ehre stesso; per loro l’astratto è reale, e il reale è invisibile. Die Gute, ma non gli uomini buoni, non quest’uomo buono. È il loro senso dello spazio e del tempo. Essi vedono attraverso il ‘qui’ e ‘ora’, nell’enorme e nero abisso che c’è al di là, nell’immutabile. E questo è fatale alla vita. Perché alla fine non ci sarà più vita; una volta c’erano soltanto le particelle di polvere nello spazio, gli ardenti gas di idrogeno, e niente più, e così tornerà a essere. Questo è un intervallo, ein Augenblic. Il processo cosmico procede a grandi passi, frantumando la vita e riducendola di nuovo a granito e metano; la ruota gira sempre, per tutta la vita. È tutto temporaneo. E loro – questi pazzi – rispondono al granito, alla polvere, al desiderio dell’inanimato; essi vogliono aiutare la Natur.” LA SVASTICA SUL SOLE (1961). Una visione apparentemente meno terribile la troviamo in CRONACHE DEL DOPOBOMBA (1963). C’è un parassita nel corpo della bambina Edie Keller, è il suo fratellino gemello Bill. Se il dottor Stockstill “avesse avuto la possibilità di farle una radiografia sarebbe riuscito a vedere il corpicino piccolo e raggrinzito, forse non più grande di un cucciolo di coniglio. In effetti, tastandola riusciva a sentirne il profilo… le toccò il fianco, avvertendo distintamente la sacca, dura come una ciste, all’interno del corpo. La testa in posizione normale, il corpo interamente nella cavità addominale, con gli arti e tutto il resto. Un giorno la bambina sarebbe morta e le avrebbero aperto il corpo per effettuare un’autopsia; avrebbero trovato un maschietto rinsecchito, magari con una lunga barba bianca e gli occhi ciechi… suo fratello, ancora non più grande di un cucciolo di coniglio.”  Edie è l’unico contatto col mondo esterno da parte di Bill, quello che la sorellina ascolta viene recepito anche da lui. “Curioso, pensò Stockstill, questo parassita che cresce dentro il suo corpo, in un ambiente buio e umido sempre uguale, che si nutre del suo sangue e ascolta da lei, in chissà quale strano modo, un riassunto di seconda mano di un famoso romanzo… Tutto questo rende Bill Keller parte della nostra cultura. Anche lui conduce la sua grottesca esistenza sociale. Dio solo sa a cosa gli serve conoscere quella storia. Avrà delle fantasie su di essa, sulla nostra vita? Ci sogna?”. Se volessimo disegnare un volto umano per la natura, facendoci aiutare dalla letteratura (così come per l’animale: la balena bianca di Melville) l’omuncolo dickiano Bill Keller sarebbe un ottimo candidato. La sua cecità, antichità, ma soprattutto la temibile paura che questo esserino induce alla potenza del mutante Hoppy ne sono una spia evidente. Una mutazione, per quanto potente, anzi proprio in quanto potente, è costitutivamente fragile e soggetta a estinguersi in tempi brevi, a essere ‘ritirata’ dalla natura stessa. E l’idea che la natura ci sogni, fantastichi sulla nostra storia, è un’idea potente ed efficace del reale significato del termine natura: quell’enorme laboratorio che crea esperimenti, dei quali il più difficile, complesso ma anche affascinate è proprio il nostro.


Volk: popolo – Land: terra – Blut: sangue – Die Gute: il bene – Ein Augenblic: un attimo 

 

lunedì 9 gennaio 2017

ESEGESI 1 - Un autolavaggio spirituale


Potremmo essere tentati di definire l’Esegesi1 di Philip K. Dick con le stesse parole con cui lui ha descritto la personale esperienza del 2-3-742 “un enorme autolavaggio spirituale trascendentale, un sistema per rimettere a lucido un essere umano”(293)  Le oltre 1.200 pagine selezionate tra le 8.000 dattiloscritte e manoscritte trovate dopo la sua morte e messe in salvo dall’amico Paul Williams3 sono il prodotto di un enorme lavoro da parte di un equipe di esperti e amici dello scrittore. Ma di questo si è già ampiamente parlato nelle recensioni in occasione dell’uscita dell’edizione italiana.4 Da allora un anno è passato e non mi risultano altri articoli o studi di approfondimento. Immagino sia solo questione di tempo, la non semplice lettura di questa “opera” richiede impegno e pazienza. Cominceremo così, per rompere il ghiaccio, un lavoro di scavo (archeologico?) in quest’enorme massa di spazzatura, montagna di rifiuti in cui “scintilla la piccola, assennata, limpida voce”(467) del divino. E innanzitutto “che ne direste di metterci dentro un trotzkista?”(1.015) Descrivendo la comunità della Baia di S. Francisco Dick si chiede se per metterci dentro un po’ di politica radicale non ci starebbe bene un trotzkista, e allora perché no, anche se ex e al di là del giochino suggerito dalla battuta dickiana, iniziare con Antonio Caronia è doveroso oltreché utile: “…mi sembra giunto il momento, a trent’anni dalla morte, di tentare un salto di qualità nella lettura di Dick. E di riconoscere a questo autore frenetico e polimorfo, irrequieto eppure già ‘classico’, la qualifica di narratore-filosofo, capace di innervare i suoi dispositivi narrativi (sia quando sono smaglianti sia quando zoppicano – e gli capita non di rado) in un vero paesaggio concettuale, in una ricerca sulle vicende teoriche del reale e dell’immaginario, del mondo e del soggetto, che meritano a pieno titolo il nome di ‘filosofia’.”5 Un narratore-filosofo, forse un azzardo ma sicuramente è quello che anche Dick sentiva di essere: “…sono di base analitico, non creativo; i miei scritti sono semplicemente un modo creativo di gestire l’analisi. Io sono uno che fa filosofia romanzata, non un narratore; la mia capacità di scrivere romanzi e racconti viene impiegata come strumento per esprimere la mia percezione. L’essenza delle cose che scrivo non è l’arte, ma è la verità.”(971) Sul significato della parola verità in questo contesto avremo modo di ritornare in un altro momento, per adesso quello che ci interessa delineare qui è la figura di Dick, come collocarla nella storia dell’arte e del pensiero del Novecento. A questa affermazione di fare filosofia romanzata due dei curatori dell’Esegesi prendono posizioni contrapposte. Per Steve Erickson “Dick non è un filosofo o un teologo più di quanto non lo siano stati Vincent Van Gogh o L. Ron Hubbard. Dick è stato uno dei più importanti romanzieri americani della seconda metà del XX secolo e quello che ha offerto non è stata la lucidità e il rigore di una visione filosofica, ma l’immaginazione e l’ambiguità di una visione letteraria.”(971 nota*) Per Simon Critchley invece “C’è qualcosa di illuminante nella dichiarazione di Dick che lui non è un romanziere, ma uno che scrive filosofia romanzata e la cui preoccupazione non è l’arte, ma la verità. Ci troviamo qui in presenza di un apparente paradosso in cui la preoccupazione per la verità, la meta classica del filosofo, non è giudicata in opposizione al romanziere, ma come una conseguenza della fantasia e di un’opera della fantasia.  Credo che questo collochi Dick nei paraggi di un altro filosofo  che faceva consapevolmente narrativa: Nietzsche.”(971 nota**) Molto probabilmente anche Antonio Caronia concorderebbe nell’accostare Dick con il filosofo che più di tutti è riuscito a mettere in crisi l’impianto della filosofia classica e le certezze dell’uomo positivista del XIX secolo. Non meno causticamente Dick è riuscito (sta riuscendo) a mettere in crisi la crisi, quella specie di pseudo rilassatezza di un relativismo spicciolo che tenta di arginare in modo schizoide la mancanza di quegli argini valoriali che si sono dissolti nell’arco di tutto il secolo scorso. L’Esegesi, insieme a quel “meta-romanzo” composto dai circa 35 romanzi e 150 racconti, “senza alcuno studio sistematico della filosofia, di nessuna filosofia (né di quella occidentale né di quelle orientali), ma semmai con una pletora di letture affastellate, spesso disordinate, a volte superficiali (…) congiunte all’intensità della sua interrogazione su se stesso, nella sua smisurata curiosità sul mondo, alla sua incredibile (spesso ingenua) apertura all’altro” sono stati sufficienti  “per produrre uno dei corpus più originali di ‘narrativa filosofica’, un corpus che (a modo suo) non sfigura accanto a quello di Robert Musil né di Albert Camus.”6


Nota 1: L'Esegesi di Philip K. Dick è stata pubblicata da Fanucci nel novembre del 2015 con la traduzione di Maurizio Nati.
Nota 2: “È il termine con cui Dick indica gli eventi, le visioni e i sogni iniziati tra il febbraio e iol marzo 1974 e ai quali attribuì enorme importanza, ritenendoli il segno che ‘qualcosa di vivente’, spesso identificato con Dio, stesse cercando di comunicare con lui.” Antonio Caronia e Domenico Gallo, Philip K. Dick. La macchina della paranoia. Agenzia X, Milano 2006 p. 247.
Nota 3: giornalista di Rolling Stones, grande amico di Dick fin dagli anni Settanta e che, come giustamente scrive Umberto Rossi, andrebbe fatto santo.
Nota 4: 
Nicola Lagioia, Quando Dick vedeva cose che noi umani…., La Repubblica (R2 Cultura), 26.11.2015 http://www.minimaetmoralia.it/wp/lallucinazione-non-e-una-faccenda-privata-lesegesi-di-philip-k-dick/   
Jonathan Lethem, Dick: “Dio mi ha illuminato con un pesciolino d’oro” La Stampa (Tuttolibri) 5.12.2015 http://www.lastampa.it/2015/12/05/cultura/tuttolibri/dick-dio-mha-illuminato-con-un-pesciolino-doro-xdHZXP82fXooZHSP1QinRP/pagina.html   
Stefano Scalich, Dove volano le anime androidi?, Il Sole 24 ore http://www.ac2.eu/news_article/pkdick24/
Antonio Lucci, L’Esegesi: Il vangelo secondo Philip K. Dick, http://www.doppiozero.com/materiali/recensioni/lesegesi-il-vangelo-secondo-philip-k-dick
Gian Paolo Serino, Filosofia, droghe e profezie. Il testamento di Philip Dick http://www.ilgiornale.it/news/spettacoli/filosofia-droghe-e-profezie-testamento-philip-k-dick-1196100.html
Lucandrea Massaro, L’Esegesi di Philip K. Dick, http://it.aleteia.org/2016/01/08/lesegesi-di-philip-dick/
Andrea Cortellessa, Dio ti scrive, Pagina 99 http://www.leparoleelecose.it/?p=23229   
Nota 5: A. Caronia, Un filosofo in veste di romanziere, Il Manifesto 1.3.2012.   http://una-stanza-per-philip-k-dick.blogspot.it/2016/01/antonio-caronia-un-filosofo-in-veste-di.html

Nota 6: Ibidem

Lunedì 16 gennaio: Esegesi 2 - Una filosofia da garage