Un ratto astuto e feroce sopra una lattina di olio
per motori; la coda come una frusta taglia orizzontalmente l’intero campo
dell’immagine. Sullo sfondo rossastro, in evanescenza, tubature e valvole. Il
tema della mutazione genetica è colto qui nel suo aspetto più inquietante,
quella di un topo dalla testa scheletrica ma dall’aspetto ben vivo, vibrante,
come nell’attesa di ghermire una preda. Per capire Dick, come molto giustamente
osserva Antonio Gnoli nella postfazione, prima ancora che interpretazione
occorre complicità. Ed è complicità quella che mette in atto Silverini nella
realizzazione delle sue copertine. Qui la complicità è sottile, sa quasi
dell’astuzia del ratto. L’olocausto atomico è tra i temi più battuti, e anche
tra i più triti, della narrativa fantascientifica; Dick lo incornicia in un
paesaggio rurale, in una “visione pastorale” (Pagetti) in cui l’eccezionalità
della catastrofe, per citare ancora Gnoli, non è tale rispetto alla normalità
bensì “abita nella normalità”. Silverini si rende complice, ascolta il lucido
delirio dell’autore, ne vede il responso finale, che è terribile e senza
scampo. La fine del mondo è sempre presente nell’umanità come crisi che impone
una scelta; una morte e una rinascita. Ma l’olocausto nucleare è una scelta che
non prevede ricominciamento, qui la fine del mondo è definitiva e l’astronauta
Dangerfield, costretto a girare all’infinito intorno a una terra devastata,
manda il suo ultimo messaggio-discorso a nessuno, nessuno riesce ad ascoltarlo
perché la verità è che nessuno è rimasto per ascoltarlo. Anzi, no qualcuno è
rimasto, quel topo famelico che Silverini pone là nel sottosuolo cosparso di
tubature, reti fognarie, dove rimangono inutili resti che ricordano un ben più
feroce predatore che non ebbe pietà neanche per i suoi simili. “Cronache del
dopobomba getta nello sgomento, disorienta e suscita ammirazione” (Gnoli).
Venerdì
27 febbraio: Antonello Silverini Noi marziani
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