Un piano orizzontale divide in due la copertina di
Vulcano 3, uno dei più bistrattati romanzi di Dick, tanto dalla critica che
dall’autore stesso. Una delle opere in
cui la matrice fantascientifica tout court si fa sentire di più e in modo decisamente
grossolano. Ma per contro, come giustamente fa notare Carlo Pagetti
nell’introduzione, il clima paranoico del sospetto ne pervade tutta la
struttura narrativa. Un climax che sottende e sostiene tutta la struttura
traballante e cialtronesca di quella “serie
di episodi bellici talvolta confusi, a metà strada tra la space opera e
l’assalto a una roccaforte giapponese del Pacifico”. D'altronde l’intera
opera di Dick è composta di tasselli, da quelli più piccoli e apparentemente
semplici o ingenui come questo, a quelli più vasti, complessi o addirittura
abnormi come l’Esegesi. La copertina di Silverini premia la semplicità
esaltandone la varietà dei contenuti. E’ ricca di cose, di situazioni, di
eventi. Ed è divisa, come dicevamo, in due parti: una di sotto e una di sopra.
Se la guardiamo d’impatto, nel suo insieme ci parla di un mondo in cui
succedono tante cose e di un’entità che domina, sovrasta questo mondo. Viene
l’idea di una mente che fa succedere le cose, le coordina, le determina. Ma se
proviamo a fare un giochetto, che ogni tanto si fa con le immagini, cioè ne
copriamo con la mano una parte per evidenziarne l’altra e nel siffatto caso
ovviamente copriamo alternativamente una delle metà, scopriamo una cosa
interessante. Che se copriamo la parte inferiore la parte superiore mantiene il
senso degli avvenimenti descritti mentre al contrario la sola parte inferiore
non significa niente. Quasi a volerci dire che tutto si trova in superficie,
tutto ciò che ha significato si trova già in superficie. Giù si dovrebbe
trovare il “computer Vulcano 3, le sue
fondamenta si spingono fino alle viscere della Terra – come fossero grandi
radici artificiali – tanto che nessuno riesce ad avere una vista complessiva
del mostro.” Del resto la profondità, come ben scriveva Walter Benjamin “è
una dimensione a sé, per l’appunto profondità, dove niente viene alla luce.”1
Silverini ci rappresenta questa oscurità mostrandocela nella sua palese
insignificanza. E’ una delle più belle rappresentazioni dell’opera di Dick. Del
suo senso più vero, mi verrebbe da dire autentico se non fosse palesemente un
termine così poco confacente a Dick stesso. Le cose degli uomini, le loro
azioni, il ,loro destino in ultima analisi, che sembrano motivate da ragioni e
forze fuori dalla loro storia concreta e dalle loro pratiche, in realtà
ricadono solo su di loro. La loro storia e la responsabilità di questa ricade
su di loro e su di loro soltanto.
1 Walter
Benjamin, Avanguardia e rivoluzione,
Torino, Einaudi 1973 pag. 222
Venerdì
20 febbraio due articoli: Cronache del
dopobomba di Karel Thole e di Antonello Silverini
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