Su uno scenario
apocalittico di edifici distrutti si staglia la figura di un uomo in abito
grigio che inforca una specie di bicicletta composta da vari pezzi riciclati.
La figura è composta, dignitosa, stridono in lui unicamente quelle scarpe
bianche poco in tono con l’abito signorile, così come stride dell’improbabile
velocifero la ruota anteriore a forma di rullo, anch’essa rigorosamente bianca.
Bianche sono anche le nuvole nel cielo azzurro e bianco infine il colletto
della camicia da cui spunta la testa glabra dell’austero superstite di quel
mondo del dopobomba di cui il romanzo di Dick vuole narrare le cronache.
Insomma siamo già alla ricostruzione e alla dignità di una nuova impresa
dell’umano reagire alle disavventure della vita, anche se queste disavventure
coinvolgono l’umanità intera e hanno la cifra di un disastro di proporzioni
bibliche. Di fatto sembra la speranza a prevalere, anche se…, anche se il
diabolico Thole semina qui e là piccoli indizi che provano a inquinare questo
quadretto di speranzosa umana ripresa. Non tanto le ovvie rovine, che da quelle
necessariamente si deve ripartire, quanto quel colore violaceo delle montagne
in lontananza oltre il ponte, oltre il Golden Gate, anch’esso distrutto,
anch’esso violaceo; di quel colore alieno, da camera oscura che vieta
l’ingresso del sole. E quella ruota, quel piccolo rullo posto d’innanzi
piuttosto che dietro, atto più che a rallentare a intralciare, ad alludere a
un’idea più distruttiva che costruttiva. Ma alla fine ancor di più quei piccoli
tocchi di bianco, innaturali, spettrali e fuori posto quanto quella faccia
impassibile, imperturbabile e imperturbata dal disastro che pur circondandolo
sembra non riguardarlo.
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