LOGIC
LANE - ANTONIO CARONIA. Milano 5/6 06 2015 Accademia di Belle Arti Brera
Quando
mi è stato chiesto di partecipare a questo incontro ho subito pensato di
indagare il possibile legame tra l’opera di Philip Dick, un autore spesso
associato al nome di Antonio Caronia e che anch’io ho letto molto, e un tema
che mi interessa particolarmente e cioè quello del rapporto tra musica e
potere. Non a caso: la musica è sempre presente da qualche parte nelle opere di
Dick, un po’ come lo sono i gatti, ed arriva persino a meritare l’apparizione
nel titolo di un romanzo; si tratta di Scorrete Lacrime, Disse il Poliziotto,
titolo che riecheggia quello di “Flow my tears”, forse la composizione più
conosciuta di John Dowland, compositore rinascimentale inglese.
Quello
del potere, poi, è un tema addirittura onnipresente e pervasivo nel lavoro di
Dick. Lo troviamo a partire dal microcosmo della vita famigliare, tipicamente
tra il protagonista e sua moglie o la sua amante, o negli equilibri di un
gruppo di amici, come in Un Oscuro Scrutare o più in generale di un
gruppo di persone, come ad esempio in Ubik o in Labirinto di Morte,
fino a coinvolgere non solo l’intera società spesso ingabbiata in una distopia
totalitaria, sia essa di stampo militarista, religioso o consumista, ma anche
l’intera esistenza umana, o almeno quella del protagonista, perso tra mondi
paralleli, governati da divinità personalzzabilii, come Palmer Eldritch, o
ingannato dal velo di illusione intessuto da forme biologiche parassite e
aliene per noi inconcepibili, come la Zebra di VALIS.
Ciononostante,
è estremamente difficile individuare nel lavoro di Dick una relazione esplicita
tra musica e potere, così che forse l’unico esempio che possiamo trovare è nel
finale di Radio Libera Albemuth, che è per così dire la “prova generale”
di VALIS, trilogia che costituisce l’ultima opera di Dick. Nella conclusione di
questo romanzo, la musica di una band pop è l’ultima opzione rimasta ai ribelli
per riuscire a delegittimare il dittatore Fremont, attraverso la diffusione di
messaggi subliminali. Dunque comunque alla fine non si tratta della musica in
sé che ha il potere di indurre la sovversione, ma del testo che in essa può
essere nascosto.
Eppure
proprio la musica, con la sua complessa architettura di relazioni tra scale,
note, accordi, figure e melodie che si ripetono e vengono variate, con le sue
forme e i suoi organici vocali e strumentali, ma allo stesso tempo con
l’ampiezza della sua diversità interculturale ben si presta a esemplificare il
processo di costruzione di un’ideologia e il suo volersi porre come orizzonte
di senso nel regime totalitario.
E
forse è proprio per questo motivo che ci sembra eccessivo pensare alla musica
come uno strumento di soggezione: in fondo la musica allieta, ci emoziona (come
vuole la retorica di massa); e se non è così, non è musica: è rumore, non ci
dice niente e guardiamo con sospetto chi sostiene che ciò che per noi è un
insensata accozzaglia di rumori per altri è musica. Ma anche quando la
riconosciamo come musica, la musica degli altri pur aliena ed esotica, spesso
non possiamo evitare di considerarla l’espressione di un livello culturale
inferiore rispetto al nostro, che è quello di
“esseri civili”. Oppure la facciamo discendere da un concettualismo che
interpretiamo più come truffa, come mistificazione, che come genuina
manifestazione musicale.
Oggi
si litiga molto sulla musica. Anche se siamo lontani dalle risse che
scoppiavano durante i concerti di musica contemporanea negli anni ’60, è facile
offendere qualcuno dicendogli che non apprezziamo un dato brano musicale che
magari viene adorato dal nostro interlocutore o peggio se gli smontiamo il
brano e lo riportiamo a banali cliché. Ciò avviene tipicamente perché ci identifichiamo
con la musica che ascoltiamo e se qualcuno rifiuta la nostra musica è un po’
come se rifiutasse noi stessi. Siamo in genere disposti a tollerare chi ha
gusti alimentari diversi dai nostri, ma per qualche motivo con la musica questo
ci riesce più difficile; come diceva un meme di qualche anno fa: “se ci devono
mettere in prigione perché scarichiamo musica, che almeno ci dividano a seconda
dei generi musicali”.
Dunque
oggi sembra che l’ascolto musicale si stia spostando dal riconoscimento di
strutture al riconoscimento di generi, operando una formazione identitaria, una
distinzione sociale, non più attraverso il grado di sensibilità, ma attraverso
l’orientamento di questa verso specifici target, che formano le coordinate
sempre diverse di ciò che chiamiamo “musica”. Insomma, la musica oggi viene in
qualche modo reificata: diventa parte di un arredo, viene indossata come un
indumento, o un tatuaggio.
Formare
le identità, magari identità ad hoc, è uno strumento fondamentale nella
dominazione. L’identità non è semplicemente il modo con cui noi ci distinguiamo
dagli altri, ma è soprattutto la membrana cognitiva con cui diamo un senso al
mondo, è il nostro Umwelt personale. Così che noi non percepiamo
la nostra identità in sé, ma piuttosto l’alterità di ciò che ci circonda contro
la quale ci ergiamo in difesa, per così dire, della nostra integrità di senso.
Non c’è quindi da stupirsi se la musica, con la sua liquidità inafferrabile e
la sua pervasività inevitabile, possa divenire lo strumento ideale per formare
i cittadini del regno, della Prigione di Ferro Nera, come la chiama Philip Dick,
entro la quale siamo rinchiusi. E questo vale anche se la finalità diretta è
semplicemente quella di diffondere il più possibile un’opera musicale per avere
maggiori profitti, anzi, vi è una precisa connessione tra ripetizione e
modulazione della coscienza. Ed è proprio questo il punto: è attraverso la
ripetizione che si forma l’universo che incontriamo, come uno specchio sempre
incrinato.
Insomma,
è naturale quindi che mi sarebbe piaciuto leggere un romanzo di Philip Dick, in
cui per una volta fosse proprio la musica a squarciare il velo dell’illusione
costruito dal demiurgo parassita per dominarci e trasformarci in un docile e
insensibilmente felice gregge.
Magari
la storia sarebbe potuta iniziare a partire dal finale di Radio Libera
Albemuth, quando il protagonista, che è lo stesso Philip Dick, dall’interno
della prigione in cui è stato rinchiuso si rende conto che i messaggi
subliminali non sono bastati a sconfiggere il dittatore e che anzi, sono gli
stessi giovani, i destinatari di questi messaggi sovversivi, a consolidare il
potere del tiranno.
In
prigione però, lo scrittore si accorge del dilagare di uno strano culto i cui
adepti si riuniscono segretamente per ascoltare in silenzio un singolo suono o
a volte un accordo che continua per ore e ore, apparentemente senza minime
variazioni. Ovviamente Philip Dick, grande appassionato di Wagner e di Linda
Ronstadt, rifugge da questa setta, ma tra i detenuti incontra una giovane
ragazza, che è stata incarcerata per aver spacciato vinili di musica
degenerata. Questa introduce il protagonista a un mondo di culti e di pratiche
di ascolto di cui non aveva mai nemmeno sospettato l’esistenza: chi ha fatto
voto di ascoltare per il resto della propria vita solo Gute Nacht di
Schubert, il primo Lied del Winterreise, chi invece è devoto al rumore
bianco, che per definizione contiene tutte le musiche del passato e del futuro
e cerca di recuperarle scolpendo con l’ascolto il rumore bianco come un blocco
di marmo, chi si riunisce per ascoltare le musiche portate dai singoli adepti,
però tutte insieme contemporaneamente, e tanti altri culti ancora.
Il
romanzo poi avrebbe potuto seguire il percorso esistenziale di Dick mentre si
addentra in queste pratiche vietate dal regime, descrivendo come ogni nuovo
esercizio dell’ascolto lo conduce a una diversa percezione del mondo intorno a
sé, un po’ come un’esperienza psichedelica. E piano piano il mondo si
trasforma. Il meccanismo di proiezione della realtà fittizia, il Vasto Sistema
di Intelligenza Vivente Attiva o VALIS come lo chiama Dick, sembra vacillare
perché non riesce a sostenere i continui cambiamenti cognitivi del
protagonista: dove prima c’era una cella ora c’è una palude, dove c’era un
secondino ora c’è una sorta di legionario romano da incubo, nel cielo ogni
tanto si può scorgere un gigantesco sguardo malevolo e sogghignante, ma
soprattutto al posto dei muri della prigione ora c’è lo spazio aperto. Che
quello che si percepisce sia la vera realtà, il sostrato, non è certo. Quello
che è invece certo è che il velo di Maya è stato squarciato. Ma solo per un
momento.
Ora
però la resistenza sa finalmente cosa deve fare per sconfiggere il tiranno. Non
c’è bisogno di sottoporre gli ascoltatori a messaggi subliminali, tutto il
contrario: occorre far ascoltare a tutti i suoni e le musiche del mondo.
Bisogna occupare le televisioni, le radio, le sale da concerto e fare musica,
suoni, rumori di tutti i tipi. Certo anche Wagner e Linda Ronstadt hanno il
loro posto in questa babele sonora, ma il loro ruolo è cambiato: ora sono una
voce tra un miliardo, tra mille miliardi. Sono una possibilità, un percorso
sonoro unico. Ancora di più perché l’ascolto liberato delle persone può trovare
in questi brani ogni volta suggestioni diverse.
E
così alla fine, con il diffondersi di questa esplosione di diversità di ascolti
e pratiche, tutti riescono finalmente a vedere il tiranno per quello che è, la
Prigione di Metallo Nera viene distrutta e ora è possibile costruire una nuova
società. Ma un nuovo tiranno si sta già preparando per salire al potere.
Ecco,
un romanzo di Philip Dick sul rapporto tra potere e musica avrebbe forse potuto
avere una trama come questa. Oppure chissà, forse, anzi molto probabilmente, il
romanzo sarebbe stato completamente diverso.
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