“…e con passaggi veloci
lo portò fin nel cuore dei mari,
dove le profondità
turbinanti lo succhiarono al fondo
per diecimila di tese e
le alghe gli s’avviticchiarono
intorno al capo e tutto
il mondo marino del dolore gli
trascorse sul capo.”
Melville, Moby Dick (nella
traduzione di C. Pavese)
Guaritore galattico
(Le citazioni dall’opera di Dick sono
tratte dalla traduzione di Pietro Anselmi, Bompiani 1998.)
Da dove partire per parlare di un romanzo così
ingarbugliato che suscita pareri contrastanti tra i critici e di
fatto negletto all’autore stesso?1 Forse dall’elemento meno
considerato, più sottaciuto in generale, quello che il protagonista Joe
Fernwight pensa come l’unica cosa destinata a rimanere in una vita priva di
valore, il Gioco2. In questa sorta di rete telefonica in cui si
gioca una specie di gara a risolvere indovinelli basati sulla decodificazione
di traduzioni di titoli di libri e film, fatti da computer che creano non-sense
linguistici, il romanzo predispone, fin dalle sue prime battute, una sorta di
impresa collettiva che ha il compito di rimettere a posto dal punto di vista
linguistico quello stesso disordine del mondo a cui da un punto di vista
materiale il riparatore di vasi3 è idealmente predisposto. Per cui “L’intelaiatura a traliccio Arma-da-fuoco
Insetto che punge” si risolve nel romanzo di F. S. Fitzgerald “Il Grande Gatsby”, “La Progenie Maschile Si Alza dal Letto in
Aggiunta” in “Il sole sorge ancora”4
e così via: E’ il Gioco, ragazzi! E’ quella “capacità di trascorrere una vita gingillandosi con cose inutili, senza
un lavoro degno di quel nome e, al suo posto, la parata del banale, del banale
scelto volontariamente da noi, perché è su questo che abbiamo costruito Il
Gioco. Il contatto con gli altri… Sì, con il Gioco affondiamo un bisturi nel
corpo dell’isolamento e lo spezziamo.”5 E anche se alle volte ci
si sente troppo svuotati “per
partecipare ancora” non possiamo non concordare con Joe che
“loro. Gli altri che si dedicano al
Gioco, hanno bisogno di me, del mio misero contributo.” E pertanto quando
Joe, sfiduciato dagli insuccessi della gara, cade preda dello sconforto del
fallimento eccolo percepire di nuovo “nel
proprio corpo l’inizio di una tenue reazione, una specie di fotosintesi… una
raccolta delle energie rimanenti che si muovono d’istinto.” E’ “lo sforzo biologico del suo corpo” che
lotta “per rivendicare un equilibrio
fisico”. E’ in questo quadro che la nuova sfida, quella del Glimmung (la
potente divinità aliena), viene lanciata all’umile restauratore di vasi Joe
Fernwright. Una grande impresa collettiva che si prefigge, nientemeno che, di
risollevare dal profondo di un oceano di un lontano pianeta un’autentica
cattedrale dotata di poteri arcani contro la sfida routinaria di un machiavellico
gioco di indovinelli. Ma vediamo innanzitutto in quale mondo vive questo
artigiano che “ripara vasi; praticamente
qualsiasi tipo di oggetto in ceramica proveniente dai Vecchi Tempi, prima della
guerra, quando non tutto era fatto di plastica”; è un pianeta Terra “agli inizi di aprile, anno 2046, nella
città di Cleveland” che si è rapidamente sovrappopolato dopo una non meglio
precisata guerra mondiale. Avere un lavoro è un lusso, lo stesso Joe riceve
rarissime commissioni e vive faticosamente del sussidio governativo quotidiano
per reduci, denaro con cui comprare velocemente il necessario prima che
l’inflazione ne decurti irrimediabilmente il potere d’acquisto. Come gli
abitanti del villaggio del Castello di Kafka gli abitanti del villaggio globale
terrestre del 2046 sono “controllati dal governo e dai suoi impiegati anche nei
dettagli più intimi della loro vita ed asserviti anche nei loro pensieri a
quelli che hanno il potere” per loro “l’aver torto o ragione era un destino in
cui non è dato di mutare nulla.”6 E’ un asservimento completo, un
potere disciplinare del corpo fin nei minimi dettagli: ad esempio nel ritmo del
camminare,7 o nel controllo della mente: con l’interrogatorio
telepatico della polizia o ancor più con l’attività onirica irreggimentata in
un sogno unico obbligatorio. Ed eccoci
qui a un punto centrale, il sogno del protagonista, quello che ci potrebbe
sembrare una gag comica fine a se stessa, il letto che non si lascia ingannare
e capisce che Joe non sta facendo sesso e quindi lo costringe ad addormentarsi e
a sognare, chiarisce in realtà quale sia la posta in gioco dell’intero romanzo,
determinare i limiti e le possibilità di un individuo all’interno di un sistema
di potere capace di controllare sia i corpi che le menti degli esseri a lui
assoggettati. Il sogno a cui Joe è costretto a sottostare è un sogno collettivo
frutto di un concorso giornaliero che può far vincere ricchi premi in denaro e
che premia il copione vincitore con un “viaggio
tutto compreso fuori dalla Terra… in un luogo a vostra scelta!”. Il sogno
di quella notte si intitola INCISO IN MEMORIA e vede Joe (come del resto tutti
gli esseri umani che stavano dormendo in quel momento) davanti al Segretario
del Supremo Consiglio Fiduciario (S.C.F.) mentre questi gli comunica che le
lastre incise dal suo laboratorio erano state scelte per stampare il nuovo
denaro, “il suo lavoro ha vinto. E’
stato scelto tra gli oltre centomila presentati.” Ma a questo punto nasce
il problema, per Joe le nuove banconote dovranno avere il suo volto in effigie,
mentre per il S.C.F. solo la firma, e sarà solamente con la ferma risolutezza e
con la minaccia di ritirare il proprio lavoro, cosa che determinerebbe il
crollo dell’”intera struttura economica
della Terra”, che Joe riesce a spuntarla. “E tornando alla mia firma, come fece quel grande eroe del passato, Che
Guevara, quel nobile spirito, quell’uomo eccezionale che morì per gli amici,
ebbene, in sua memoria sui biglietti scriverò solamente ‘Joe’. Ma la mia faccia
deve avere più di un colore… almeno tre.” E sulle lodi e gli applausi del
Segretario “la sveglia di Joe interruppe
il sogno.” Il sogno di tutti i ‘Joe’ del pianeta mercifica e rende
obbligatorio quel ‘cambiare la valuta’ che nel precedente romanzo, Ubik,8
era stato appannaggio di un solo Joe. Il sistema si è fatto furbo, ha imparato;
dove Joe Chip poteva essere in una certa misura ancora flaneur e sperperare il
proprio denaro, Joe Fernwright non riesce più a farlo, perché è il denaro
stesso che si consuma rapidamente nel suo valore effettivo, almeno quello governativo,
i buoni del sussidio, mentre l’eventuale tesoretto dei soldi buoni, il denaro
vero, quello che si guadagna faticosamente con un lavoro che non c’è, è raro e
comunque sottoposto a regole ferree che impediscono appunto di sperperarlo,
regalarlo, pena l’arresto immediato come in effetti succede a Joe Fernwright. E’
dunque un sistema che non lascia più spazi, interstizi dietro di se? Vuoti di
potere? Certo non possiamo definire Guaritore galattico un romanzo comico,
ancor meno una parodia; è un romanzo tragico, che sembra essere chiuso non alla
speranza, che Dick non ha mai coltivato, ma al senso del possibile, a quella
ricerca sempre disperata del possibile che permea tutta la sua opera. Forse
Glimmung è il sogno di Joe, è il sogno che lui può far concorrere per vincere
quel “viaggio tutto compreso fuori dalla
Terra” verso quel pianeta del contadino con la cattedrale da far riemergere
dal profondo dell’oceano. E allora è questo sogno, questo nuovo sogno che può
far vincere trentacinquemila briciole, nella moneta del pianeta del contadino,
che al cambio terrestre corrisponderebbero a
200.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000 dollari. Un’enormità9,
del resto si sa, nei sogni si esagera sempre. Ed è pertanto comprensibile se in
un romanzo come questo, più che in altri di Dick, verrebbe voglia di tirar
dritto, scorrere la trama a volo d’uccello e fermarsi solo nei punti più
interessanti, quelli che evidenziano meglio una tesi piuttosto che un’altra. Si
può fare, ma i risultati sarebbero piuttosto impoverenti che il contrario. Non
c’è storia, trama inutile nei romanzi dickiana, per quanto spesso sembri che la
materia narrativa soverchi il significato, ne travalichi il senso. Bisogna
accettarne il gioco, accettarne la sfida dell’eccesso, dell’apparente futilità.
Un po’ come si fa con i sogni appunto. Ebbene sfidiamolo allora questo sogno,
questo sogno bislacco che vede il Joe di turno ricevere messaggi dalla divinità
nello sciacquone del proprio gabinetto. E’ ancora il mondo di Ubik, ma questo
Joe è ancora più disperato dell’altro, l’impresa che gli si prospetta sembra
architettata da “un’immensa e vecchia
creatura. Chiaramente inferma” e da cui ben difficilmente può sperare di
cavarci un soldo. Voltando allora le spalle all’ignoto dell’avventura Joe decide
di investire il gruzzolo di soldi veri risparmiato in tanti anni, nella
consultazione di quel vero e proprio oracolo della futura Terra del XXI secolo
che è Mr. Lavoro. Ma per far questo, per dirigersi fuori, all’aperto, alla
cabina telefonica che lo metterà in contatto con il consulente del lavoro più
costoso e avaro di parole, e quindi di informazioni utili, dovrà attraversare
quell’”enorme, animalesca entità ansante
che costituiva la massa dei disoccupati – e che del resto non potevano trovare
un impiego – di Cleveland” che “si
raccoglieva fermandosi lungo i marciapiedi della città. Si fermava ad
aspettare, e nell’attesa si fondeva in un ammasso informe, oscillante e
triste.” E’ la folla con quel suo “odore
penetrante, simile all’aceto, un odore ormai familiare, della loro presenza,
della loro compattezza surriscaldata, eccitata e tuttavia tristemente delusa” che
avvolgerà Joe, impedendogli di avanzare, di proseguire verso il suo obiettivo.
E qui avviene qualcosa di insolito, un’esperienza di quelle che segnano,
mutano irrimediabilmente il destino di un individuo. Nell’ansia, nella paura
che quella moltitudine voglia strappargli il prezioso sacchetto coi soldi, il
cuore gli duole “come se avesse scalato
la cima di un monte, la
cima ultima della vita stessa, una collina terrificante cosparsa di teschi.”
Una paura di essere contaminato, di essere trascinato “nella loro bufera d’apatia” e quando si trovò a dare i suoi soldi
a quelle mani protese, ma non violente, capì: “Erano semplicemente là, ad aspettare… ad aspettare in un silenzio
fatto di speranza”. “Spaventoso. (…) Questa
gente crede che io stia per far loro un regalo… un regalo che attendevano
dall’universo… l’universo non ha concesso nulla a costoro, nulla per tutta la
vita, e loro lo hanno accettato in silenzio, come adesso. E vedono in me una
specie di divinità soprannaturale”. L’arrivo della polizia concluderà con
l’arresto l’esperienza di autoconsapevolezza di Joe, quell’autoconsapevolezza
che lo porterà nel successivo interrogatorio da parte della polizia a
rispondere, in modo esplicitamente sovversivo, che il popolo non è lo stato. E
da qui in poi l’andamento da incubo, ma pur sempre realistico, del romanzo
cesserà per lasciare posto a un susseguirsi di esperienze surreali che
caratterizzeranno l’avventura extraterrestre del protagonista e del suo
ingombrante datore di lavoro, il Glimmung. Il viaggio/sogno di Joe è la
faticosa esplorazione dei propri limiti e delle proprie possibilità attraverso
un’impresa destinata comunque al fallimento. Ma “Forse Glimmung ha ragione, forse anche il fallimento serve a qualcosa
(…) il fallimento ci fa conoscere i nostri limiti, traccia i nostri confini.” Ma
il Glimmung fa anche qualcosa di affatto diverso dall’insegnare limiti e
confini e quindi le potenzialità che ogni individuo è in grado di esprimere;
egli mette in dubbio la possibilità di conoscenza di se medesimo che
l’individuo pensa di possedere. La verità intima, interiore di un individuo non
è da lui conoscibile se non in termini di possibilità di fare. “Nessuna creatura conosce se stessa (…) tu
non ti conosci; non possiedi alcuna conoscenza, neppure la più vaga, delle tue
potenzialità più intime. Capisci cosa significa per te il Sollevamento? Tutto
ciò che è esistito in te in potenza, allo stato latente… ebbene, tutto questo
si esplicherà. Tutti coloro che parteciperanno al Sollevamento, ogni essere che
si troverà coinvolto nell’impresa… individui provenienti da decine di pianeti
sparsi qua e là nella galassia, ebbene… tutti si realizzeranno, tutti saranno. Tu non sei mai stato, Joe Fernwright. Tu esisti
solamente. Essere è fare.” Tutto si situa in superficie, al livello dove si
producono le pratiche, il fare della vita. E’ un colpo a quel precetto che, a
dire di Foucault, ha costituito quel rapporto tra soggetto e verità nell’età
moderna in cui “così come esso è, il soggetto è capace di verità, e (…) la
verità così com’è, non è capace di salvare il soggetto.”10 Il
Glimmung spezza questo ciclo perverso, Si è accusato spesso Dick di essere
antimoderno, anzi di non essere mai nemmeno entrato nella modernità11
ma in realtà con Dick siamo ben oltre ogni modernità o postmodernità, e i ponti
alle spalle sono stati inesorabilmente tagliati. Non c’è fuga indietro, “Chi desidera tornare sul suo mondo è
libero di farlo, - disse Glimmung. – Io provvederò ai biglietti di ritorno… in
prima classe. Ma quelli che torneranno indietro troveranno tutto come prima. La
stessa vita invivibile. Voi tutti avevate intenzione di autodistruggervi e lo
stavate facendo quando vi ho trovati. Ricordatelo. Ecco cosa c’è alle vostre
spalle. Non fate in modo di ritrovarvelo
di fronte.” ma neanche in avanti, in una qualsivoglia utopia. Alla fine
dell’impresa Joe rifiuta la fusione col Glimmung. Joe ha capito “che la verità
come e in quanto tale, è capace di trasfigurare e salvare il soggetto”12
ma ha capito anche che la verità non alberga né dentro di lui ne in nessun
altro posto. La verità che si situa in un determinato posto, si cristallizza e
muore. La sua funzione salvifica permane fintantoché è capace di modificare e
cambiare il soggetto che le sta di fronte e che la cerca, e pertanto è una
verità che non può mai essere definitiva, l’ultima verità. La storia termina
con la decisione di Joe di creare un vaso. Alla fine ci viene detto che “il vaso era orribile”. Ma per la prima
volta Joe aveva fatto un vaso invece di ripararlo.
1 “pertanto, fu
scrivendo Guaritore che raggiunsi la
fine – logoro, morto come scrittore; avevo grattato il fondo del barile e ero
morto, dal punto di vista creativo e spirituale. Che tristezza!” dall’Esegesi
di P. K. Dick in Divine invasioni di
Lawrence Sutin, Fanucci 2001, pag. 182.
2 “Guaritore Galattico è opera innovativa
perché sviluppa un metodo intertestuale, fatto di rimandi e di echi letterali,
che non riguardano solo la fantascienza, e che rivelano un gusto quasi joyciano
evidente nell’attenzione al linguaggio e alle sue manipolazioni, come si coglie
subito dal Gioco che impegna gli abitanti della Terra” Carlo Pagetti,
Introduzione a Guaritore Galattico, Roma Fanucci, 2001. Pag.11
3 Va qui
sottolineato che il vaso, è uno tra gli oggetti più presenti nell’opera di Dick
e il suo aspetto di fragilità ne amplifica la sua già forte valenza simbolica.
“Come, nella Cabala’, si parla di shviràth hskrlìn, di questi vasi rotti nel
momento della creazione, così oggi noi dobbiamo vedere la possibilità di una
simile rottura, su una scala tanto vasta quanto la prima, che implichi la
totalità dell’Essere. Rottura tra passato e futuro, tra creazione e creatore,
fra l’uomo e il suo simile, fra l’uomo e il suo linguaggio, fra le parole e il
senso che esse nascondono.” Elie Wiesel, Credere o non credere, La Giuntina
1986.
5 Non siamo poi
così lontani dall’idea contemporanea della comunità virtuale dei social
network.
6 (H. Arendt, Il futuro alle spalle). Joe arrestato
dalla polizia viene lasciato in libertà condizionata per un anno “_Senza un processo?_ chiese Joe. _Vuole
essere processato?_ L’ufficiale gli lanciò un’occhiata penetrante. _No._ ammise
Joe.”
7 “_Lei
cammina troppo lento,” gli notificò l’agente puntandogli una pistola laser
Walter & Jones. _Su si spicci o la schediamo._ _Giuro su Dio che andrò più
spedito,_ si giustificò Joe. _Mi dia solo il tempo di prendere la mia andatura.
Sono appena partito._” D'altronde siamo nel mondo del
XXI secolo e anche se Joe potrebbe di fatto sentirsi di appartenere a quella
categoria di persone particolari, affini agli artisti, che hanno un attività
artigianale e autonoma che rende inutile e controproducente l’affrettarsi, di
fatto un’andatura lenta potrebbe associarlo a quella figura del XIX secolo, il
flàneur, l’ozioso bohemien descritto da Baudelaire, che nel mondo di Joe
risulterebbe affatto eversivo.
9 Ma
ricordiamoci le cifre inflazionistiche della Repubblica di Weimar
10 Michel
Foucault, L’ermeneutica del soggetto,
Feltrinelli Universale economica pag. 21
11 “Parafrasando
un concetto espresso da Michael Hardt e Antonio Negri in Impero, e relativo a un contesto totalmente differente, mentre la
fantascienza prefigurava l’uscita dalla
modernità, Philip K. Dick ne contestava addirittura l’entrata.” Domenico Gallo,
Avvampando gli angeli caddero, in
Paolo Bertetti e Carlos Scolari, Lo
sguardo degli angeli,Testo & Immagine, Torino 2002, pag. 207.
12 M.
Foucault, cit. pag. 21