Non c’è verità più vera
della verità rivelata e questa à depositata una volta per tutte nelle sacre
scritture. E’ per questo che in DIVINA
INVASIONE (1980) “la chiesa
cristiano-islamica non permetteva la traduzione della Bibbia in un ologramma con
un codice di colori. Con un po’ di pratica si imparava gradualmente a inclinare
l’asse temporale, l’asse della vera profondità, finché diversi strati
successivi non si trovavano sovrapposti e appariva un messaggio verticale, un
nuovo messaggio. In questo modo, si entrava in comunicazione con la Scrittura,
che diventava viva. Diventava un essere senziente che non era mai lo stesso. La
chiesa cristiano-islamica, naturalmente, voleva Bibbia e Corano bloccati
nell’immobilità per sempre. Se la scrittura le fosse sfuggita, la chiesa
avrebbe visto svanire il suo monopolio.” Ma c’è anche chi aggira
l’immobilità biblica usando il sacro libro come uno strumento di divinazione, “trovò una Bibbia di Gideon, - Potrei
leggere questa – disse lei, sedendosi di nuovo. – Formulerò una domanda e poi
l’aprirò a caso; si può usare la Bibbia in questo modo. Io lo faccio sempre.–“ IN SENSO INVERSO (1965). Un uso certo un po’ spregiudicato, ma la
cosa più sorprendente che ci rivela Dick sulla Bibbia riguarda la sua
creazione. Nel racconto UN AUTORE
IMPORTANTE (1954), ripreso e inserito nel romanzo SVEGLIATEVI DORMIENTI (1963), la Bibbia risulta essere l’invenzione
di un riparatore di lampobolidi. Questi trovo, grazie a un difetto di uno di
questi veicoli, un passaggio verso il passato della Terra e comunicando con gli
abitanti (gli antichi israeliti) con un traduttore universale, produsse le
storie narrate dalla Bibbia. O almeno questa è la leggenda che viene
raccontata.
martedì 31 marzo 2015
venerdì 27 marzo 2015
Antonello Silverini: L'occhio nel cielo
L’omino gobbo, il ferro
di cavallo, la civetta, un cornetto, uno scarabeo e tanti altri simboli su
altrettanti foglietti di carta attaccati all’interno di una giacca e sulla
maglietta di un signore, un uomo dal volto oscurato dall’ombrello che tiene
aperto per l’evenienza di un improvviso temporale. Prevenzione, prudenza,
meticolosa assicurazione contro i possibili inconvenienti della vita. L’uomo si
apre, evidenzia la sua natura fragile, paurosa nuda vita; il trance, soprabito
che si spalanca è gesto di scandalo, già usato da Karel Thole per un altro
romanzo dickiano, “Redenzione immorale”1 . Come per il sesso che il
vecchio satiro mostra alle fanciulle che passeggiano indifese nei parchi,
Silverini ci spiattella in faccia
qualcosa di altrettanto scandaloso, una miriade di simboli al servizio
di colei che rende la nostra vita soggetta al dominio del puro caso, la
fortuna. L’immagine è forte, atterrisce e attrae allo stesso tempo; appartiene
a quel caravanserraglio delle immagini da circo, di illusionisti e ciarlatani
di strada, pronti a venderci, con le loro chincaglierie, illusioni di felicità.
Il mondo circostante è cupo, turbolento, macerato da tutte quelle utopie umane
andate a male. Ma la cosa più inquietante è quella mano che tiene aperta la
giacca e allunga il braccio in modo inverosimile. Anche la stoffa si allarga,
ma al posto di nuovi oggetti, di nuove offerte simboliche, un buco. La stoffa
si lacera, al troppo tirare, la realtà, infine scompare.
1 (qui)
venerdì 3 aprile - Antonello Silverini: La penultima verità
1 (qui)
venerdì 3 aprile - Antonello Silverini: La penultima verità
lunedì 23 marzo 2015
Bambini
“Lotta
lo interruppe, spaventata. –Sento qualcosa sul tetto.- -Uccelli che corrono-
disse lui. –No, è più forte.- Timbane si mise in ascolto, e anche lui sentì
quel rumore. Piccoli colpi sul tetto; qualcuno o qualcosa che strisciava. –Sono
dei bambini.- -Perché?- chiese Lotta. Poi fissò la finestra. –Stanno guardando
dentro.- Lui si girò di scatto. Vide un faccino schiacciato contro il vetro. -Bambini- disse con voce aspra. –Vengono
utilizzati dalla Biblioteca. Provengono dal Reparto Bambini.- Tirò fuori la
pistola.” Ma è l’agente di polizia Timbane a rimanere ucciso nello
scontro a fuoco con i bambini; ha esitato troppo, si è chiesto: “Posso uccidere un bambino?1 Ma deve comunque tornare nell’utero; gli
rimane poco tempo.” Nel mondo di IN
SENSO INVERSO (1965) le cose vanno alla rovescia e gli esseri umani
subiscono la sindrome di Peter Pan in modo totale regredendo fino a tornare in
un utero disposto ad accoglierli. In MINIBATTAGLIA
racconto del 1952, piccoli soldatini meccanici venduti come giocattoli sono
in realtà esseri intelligenti che si prefiggono di sconfiggere gli esseri umani
servendosi dei bambini. LA SIGNORA DEI
BISCOTTI (racconto 1953) è un racconto in cui l’insidia
proviene da una vecchia signora che offre biscotti a un bambino. Ad ogni
incontro lei ringiovanisce mentre lui deperisce. Al ritorno dall’ultimo
incontro, davanti alla porta di casa, di lui rimane solo un ammasso di erbacce
e straccetti che il vento fa rotolare via. In NUVOLE MARZIANE (racconto 1954), in cui si incontrano quelle spore
aliene che poi compariranno anche nel romanzo “E Jones creò il mondo”, un
bambino dall’animo poco sensibile (non è ancora il tempo di E.T.) davanti alla
comunicazione telepatica del pacifico “cimicione” corre ad avvertire il
poliziotto che provvederà a distruggerlo. Ancora alieni in LA COSA PADRE (racconto 1954), una storia tipo “invasione degli
ultracorpi” ma con i bambini protagonisti e vincitori. La cosa-padre verrà
distrutta. In PROGENIE (racconto
1954) e NANNY (racconto 1955) i
bambini vengono educati dai robot con conseguenze disastrose per i
genitori. E’ del 1975 il racconto PRE-PERSONE
che costò a Dick una lettera di invettive da parte della scrittrice di fantascienza
Joanna Russ per la sua posizione sull’aborto. I bambini fino all’età di
dodici anni possono essere ancora “ritirati” se i genitori non sono soddisfatti
di loro. Ma è in tre romanzi che il ruolo dei bambini gioca la parte più
importante. In NOI MARZIANI (1962)
sarà un bambino autistico a sventare le mire di uno speculatore privo di
scrupoli, facendolo precipitare in un mondo di solitudine, il non-mondo
autistico, che farà da specchio al vuoto mondo dell’affarista, uccidendolo. In CRONACHE DEL DOPOBOMBA (1963) abbiamo
una bambina, Edie, col piccolo fratellino Bill, che vive dento di lei. Saranno
loro a salvare la Terra da Hoppy, un focomelico dotato di poteri straordinari e
terribili. E infine in LA CITTA’
SOSTITUITA (1953) un bambino di nome Peter à nientemeno che il dio Ahriman,
divinità malvagia della religione mazdeista, e la ragazzina Mary è Armaiti, la
figlia di Ormazd, il dio creatore che si oppone a Ahriman. Da questo che è il
primo romanzo di Dick si può, idealmente, arrivare agli ultimi romanzi della
trilogia di Valis. In DIVINA INVASIONE
(1980) il ragazzino Emmanuel, guarendo dalla propria amnesia, scopre che, lui e
la propria compagna di scuola Zina, sono in realtà il maschile e il femminile
della divinità che finalmente può ritrovarsi e congiungersi.
giovedì 19 marzo 2015
Antonello Silverini: Deus Irae
Figura ieratica l’Ofelia che ci propone
Silverini per il Deus Irae di Dick e Zelazny. Opera ghiotta di teologia
postmillenaristica; è ancora possibile un credo religioso dopo la fine del
mondo? Le motivazioni per la scelta di questo personaggio femminile sono
raccontate dallo stesso Silverini in una sua intervista1 “questa tavola è il frutto di una
suggestione. Nella prefazione di Carlo Pagetti si parla di –(…) parodia in
chiave postmoderna di Alice in Wonderland- e ancora nella quarta di copertina
troviamo –Ed eccola che arriva, i capelli fulvi e l’ossatura talmente sottile
da fargli sempre credere che potesse spiccare il volo…- Questa donna è (cito
ancora Pagetti) -…Lurine Rae, la ragazza dai capelli rossi che assomiglia a una
strega, L’Ofelia del mondo postapocalittico abbandonata da quell’improbabile
Amleto che è Pete-. Trovarmi di fronte a una possibilità immaginifica così
varia, questa specie di antologia letteraria di citazioni e contaminazioni, è
stata per me una tentazione irresistibile; quello che volevo che venisse fuori,
quindi, era un’immagine poetica, evocativa, mi sono rifatto a un immaginario
pittorico preraffaellita cercando di evitare un’estetica ‘fantasy’ che detesto
profondamente.” Tanto basterebbe, ma forse possiamo aggiungere ancora qualcosa.
Innanzitutto è questa un’Ofelia dickiana, cioè tutt’altro che remissiva,
succube e condannata; sembra fatta piuttosto della stessa fredda enigmaticità
del gatto del Cheshire che stringe tra le braccia e a cui pizzica con
noncuranza un orecchio. Allo sguardo fisso e vitreo del gatto contrappone però
uno sguardo altero, se non proprio sprezzante. L’abito scuro, sfumato, a cono,
la definisce idolo, figura mitica di antichi poteri arcani, ma anche di antiche
e accese passioni, come il rosso vivace della fluente chioma sembra confermare.
Una chioma fiume, il fiume di Ofelia; ma anche qui un fiume non adatto a
trasportare corpi di remissive e giovani fanciulle, quanto piuttosto, col suo
turbinio vorticoso, il denso sangue della storia del mondo. Ed ecco, alla fine,
tra due volute dei capelli comparire due occhi, deliranti; gli occhi folli del
demiurgo creatore di un mondo senza senso e senza scopo. Silverini per contro,
improvvisandosi a sua volta nel ruolo di demiurgo, cerca di ridare forma e
quindi senso al riproporsi incessante di queste vecchie, consunte ma pur sempre
tragiche, storie.
Venerdì 27 marzo: Antonello Silverini - L'occhio nel cielo
martedì 17 marzo 2015
Androidi
“- Allora, chi è? – Nessuno. E’ un
androide.” ILLUSIONE DI POTERE (1963).
In una nota
del 1978 a
un racconto scritto nel 1953 L’ULTIMO
DEI CAPI Philip Dick osserva che: “E’
interessante che io mi fidi di un robot e non di un androide. Forse perché un
robot non cerca di ingannarti sulla sua vera natura.” Un inganno che può
risultare fatale per gli esseri umani come succede nei racconti IMPOSTORE (1953) (un androide bomba,
terrificante anticipazione dei moderni terroristi kamikaze) e AL SERVIZIO DEL PADRONE (1956) in cui
un ingenuo essere umano aiuta un infido androide che lo inganna e sarà causa
della sua crudele morte. L’androide è l’impostore, colui che vuole
soppiantarci, sostituirsi a noi, così come per Kleo, l’androide è l’amante del
marito Nick Appleton “Lei è soltanto un
muro coperto di trucco, come un robot o qualcosa del genere, dipinto in modo da
sembrare umano. – Un androide – disse lui.” NOSTRI AMICI DA FROLIX 8 (1968-9). Ma fondamentalmente l’androide è
un ibrido, un essere in bilico tra il naturale e l’artificiale. “Un androide è qualcosa che puzza – disse” Eric Sweetscent, chirurgo specializzato in
trapianti di organi “parafrasando T. S.
Eliot” ILLUSIONE DI POTERE (1963).
Ma sentire la puzza di un androide è più facile per un animale che per un essere
umano. Lo sciacallo marziano, pur affamato, si guarda bene dal voler mangiare
il precog Barney Mayerson, contaminato dalle stigmate artificiali di Palmer
Eldritch. “- Sporco – pensò tra sé
l’animale; si fermò a distanza di sicurezza e lo guardò spaventato, con la
lingua a penzoloni. – Tu sei una cosa sporca – lo informò, deluso.” LE TRE STIMMATE DI PALMER ELDRITCH (1964). Ma per gli esseri umani l’unico modo
per individuare un androide è trovare il confine che li separa da essi. E’
vitale per l’umano determinare ciò che fa la differenza. Nel
primo dei due romanzi aventi come argomento principale gli androidi, L’ANDROIDE ABRAMO LINCOLN (1962),
l’androide è immediatamente riconoscibile, essendo costruito sull’immagine di
antichi personaggi storici. In questo caso il presidente Lincoln, il suo
assassino John Wilkes Booth e il suo Segretario di Guerra Edwin M. Stanton. Ma
è un’evidenza che non rassicura nessuno. Il Lincoln artificiale non capisce
perché lui non dovrebbe essere umano se nessuno è in grado di spiegargli “che cos’è un uomo?” E alle certezze di un individuo che gli
spiega come la differenza tra umano e artificiale sia costituita dal fatto che
quest’ultimo non ha un’eredità biologica ma sia stato costruito da qualcuno, il
Lincoln osserva allora che anche l’uomo è una macchina in quanto anche lui ha
un creatore. Così come sosteneva Spinoza a proposito degli animali che sono
macchine intelligenti, a questo punto forse il nodo critico è rappresentato
dall’anima. “Una macchina può fare tutto
quello che fa un uomo… lei è d’accordo. Ma non ha un’anima. – L’anima non
esiste – replicò Barrows. – Sono tutte fandonie. – Allora, - riprese
l’androide, - una macchina è la stessa cosa di un animale. – E continuò
lentamente, con tono ironico e paziente: - E un animale è la stessa cosa di un
uomo. Non è esatto?-“ Anche per Louis Rosen, socio della ditta che ha
costruito gli androidi, c’è poco da essere rassicurati. In cura dallo
psichiatra, gli confida di essere un androide. “Dopo aver detto al dottor Horstowski che ero un androide, non riuscivo
a togliermi l’idea dalla testa. Un tempo c’era stato un vero Louis Rosen, ma
adesso era sparito e io mi trovavo al suo posto, ingannando quasi tutti,
compreso me stesso.” Ma la cosa inquietante sembra essere più che la loro
sospetta non umanità, al contrario una eccedenza di questa. “Ancora una volta sperimentai la mia
impressione: che sotto molti aspetti esso fosse più umano (che Iddio mi aiuti!)
di Pris o di Maury, o perfino di me, Louis Rosen. Soltanto mio padre lo superava
in dignità. Il dottor Horstowski, un’altra creatura solo parzialmente umana,
scompariva accanto a questo simulacro elettronico.” E quattro anni dopo il secondo romanzo MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE
ELETTRICHE? (1966) esemplifica in modo definitivo l’essenza ambigua di
questa creatura artificiale. Il Test a cui debbono essere sottoposti gli
androidi per poter essere ritirati (eliminati) non è propriamente sicuro.
Infatti il Test della Scala Voigt-Kampff si basa sulla misurazione della
capacità empatica, caratteristica degli esseri umani, e dato che la mancanza di
questa accomuna gli androidi ad alcuni malati mentali, in particolare agli
schizofrenici, la possibilità di errore è sempre presente. In quest’ultima
apparizione della figura dell’androide nei romanzi di Dick, invece di
precisarsi, si fa sempre più evanescente.
giovedì 12 marzo 2015
Antonello Silverini: Il trittico del gioco
Una sfida! Come si fa a
parlare di un’immagine che è servita per illustrare tre copertine di tre
diversi romanzi dickiani? Un’immagine sola concepita per tre diverse storie.
Un’immagine unica da smembrare, da suddividere, da piegare a tre esigenze
narrative che hanno solo vagamente come minimo comun denominatore il gioco. Il
gioco è per “Lotteria spaziale” quel sistema di lotteria del potere su cui si
basa l’elezione del Quizmaster, l’essere umano designato dalla sorte a
governare il mondo. In “I giocatori di Titano” è il gioco d’azzardo che gli
alieni padroni della Terra, i Vug, ectoplasmi abitanti di Titano, hanno
insegnato ai terrestri resi sterili dalle radiazioni della guerra, per operare
una specie di scambismo delle coppie e aumentare la possibile fertilità. E
infine “Nostri amici di Frolix 8” in cui il gioco è rappresentato dal sistema
usato per rendere possibile la scalata sociale ed è basato su una serie di
test, che poi si riveleranno truccati. A prima vista, quella di Silverini,
sembra una operazione al risparmio e forse, chissà, in parte può essere stata
dettata da una possibile stanchezza, un bisogno di risparmiare energie nella
lunga e laboriosa avventura di illustrare tutte le copertine di Dick. Certo è
che se i tre romanzi in questione perdono il privilegio, che gli altri hanno
avuto, di un’attenzione mirata, per contro il corpus dell’opera dickiana
acquista una focalizzazione particolare su uno dei temi cardine che sottende
l’intera filosofia della narrativa dickiana. Quella del caso, del fortuito, del
gioco appunto.1 Se mai fosse necessario scegliere un’immagine per un
ipotetico cofanetto contenente tutti i romanzi di Dick, questa sarebbe la cover
più appropriata. “A Dio piace giocare”2 e Dick non perde occasione
per ricordarcelo. Il tappeto magico che ospita il gioco dei monopoli con al
centro un cerchio che sembra alludere alla roulette contiene tre personaggi,
due specie di croupier e un signore di spalle seduto su una mazzetta di fiches di carta. Ognuno di loro occupa una porzione
di spazio che seguirà la naturale divisione per le tre copertine. Particolare
curioso ma accattivante, l’uomo in alto, seduto su uno sgabello, a seguito del
taglio sembrerà più un pescatore con la lenza che un croupier intento a
raccattare i soldi con il suo rastrello. Un pescatore triste, alla Keaton, per
la copertina di “I giocatori di Titano”. In piena conformità con l’idea del
romanzo di una ricerca spasmodica di futuro, di un futuro che per questa
umanità stanca e sfibrata si configura nella ricercatissima e improbabile
capacità di procreare nuovi eredi alla razza umana. Attesa di una pesca tanto
meravigliosa quanto inutile. Al centro invece si concentra il turbine del gioco
vero e proprio, la necessità di aver fortuna. Il croupier ha il volto basso,
intento nel suo lavoro rivela fattezze d’automa. E’ un gran gioco quello di
“Lotteria spaziale” per un potere fine a se stesso, che più che di
prevaricazione sa di morte; il gioco finale, l’ultimo. E infine l’omino
pensieroso della porzione in basso, che servirà per “Nostri amici di Frolix 8”,
probabilmente è assorto in un sogno, nell’inutile sogno di qualcuno che
dall’esterno, da qualche parte lassù, ci venga a salvare.
2 Philip K. Dick, Divina invasione, 1980
Venerdì 20 marzo: Antonello Silverini - Deus Irae
martedì 10 marzo 2015
Gioco
Nel racconto INVASIONE OCULARE del 1953 il
protagonista leggendo un romanzo in cui si parla dell’invasione aliena della
Terra rischia di lasciarsi suggestionare a tal punto da non distinguere più la
finzione dalla realtà. Terrorizzato abbandona la lettura e trova la quiete
unendosi alla moglie e ai figli nel gioco del Monopoli. Tutt’altro che
rassicurante, nel racconto del 1955 YANCY,
che servirà di base per il romanzo LA
PENULTIMA VERITA’ (1964), il Kriegspiel “scacchi
giocati su due scacchiere. Ogni giocatore ne ha una, coi suoi pezzi, ma non
vede l’altra. C’è un arbitro che le vede entrambe, e avvisa ciascun giocatore
quando un suo pezzo è stato mangiato, appena lui ne ha mangiato uno
all’avversario, o si è mosso in una casella occupata, o ha fatto una mossa
impossibile, o ha dato scacco, o è sotto scacco. (…) Ciascun giocatore deve
dedurre lo schieramento avversario. Gioca alla cieca (…) I Prussiani
insegnavano in questo modo la strategia si loro ufficiali. E più che un gioco è
una specie di lotta libera su scala cosmica.” Ma anche il Monopoli può
essere visto come un gioco pericoloso soprattutto nella variante aliena di
Ganimede, nel racconto IL GIOCO DELLA GUERRA (1959), in cui
vince chi perde e che ha il subdolo scopo di inculcare il desiderio della
sconfitta da parte dei terrestri. Gli extraterrestri ci riprovano cercando di
impiantare illegalmente delle case da gioco sulla Terra nel racconto PARTITA DI RITORNO del 1967. Insomma
agli extraterrestri piace proprio giocare anche se non sempre con scopi
maligni; i Vug, ad esempio, gli ectoplasmici abitanti di Titano, I GIOCATORI DI TITANO 1963, dopo aver
sconfitto i terrestri insegnano loro un gioco d’azzardo per operare una specie
di scambismo delle coppie e aumentare così la possibile fertilità di una
popolazione resa sterile dalle radiazioni della guerra. E tra gli
extraterrestri appassionati del gioco non può mancare quello più extraterrestre
di tutti, come si evince dal romanzo del 1980 DIVINA INVASIONE anche “anche
a Dio piace giocare”. E Dick non perde occasione per far giocare il più
possibile i protagonisti dei suoi romanzi. In LOTTERIA SPAZIALE (1954) tutto il sistema di potere si regge sul
gioco del Minimax, una specie di lotteria da cui si estrae il nome del signore
assoluto della Terra, assoluto in tutto tranne che della sua vita minacciata,
da quel momento in poi, da chiunque voglia assassinarlo per prendere il suo
posto. Perfino nel mondo puritano di REDENZIONE
IMMORALE (1955) si inventano “giochi
di destrezza per le festicciole. Per tenere occupate le mani oziose” Ed è
vitale per la sopravvivenza degli umani il gioco che la gazzetta di una piccola
città pubblica quotidianamente; un concorso in cui occorre indovinare dove si
recherà l’indomani l’omino verde. Il campione in carica da ben tre anni Reagle
Gum cercando di indovinare permetterà a sua insaputa e grazie alle suo doti
predittive di scoprire dove avrebbero bombardato i Lunatici il giorno
successivo, IL TEMPO SI E’ SPEZZATO (1958).
Ma ancora strategicamente importante è il gioco del labirinto in MR. LARS (1964), una vera e propria
trappola empatica per eliminare persone politicamente pericolose. E infine,
volendo proprio finire, quel gioco per eccellenza chiamato appunto il Gioco che
Joe Fernwright, il riparatore di vasi di GUARITORE
GALATTICO (1967) pensa come l’unica cosa destinata a rimanere in una vita
priva di valore. Un gioco che si serve delle rete telefonica per instaurare una
specie di gara a risolvere indovinelli basati sulla decodificazione di
traduzioni di titoli di libri e film, fatti da computer che creano non-sense
linguistici. Poca cosa si potrebbe dire, invece è il Gioco, ragazzi! E cioè è
quella “capacità di trascorrere una vita
gingillandosi con cose inutili, senza un lavoro degno di quel nome e, al suo
posto, la parata del banale, del banale scelto volontariamente da noi, perché è
su questo che abbiamo costruito il Gioco. Il contatto con gli altri… Sì, con il
Gioco affondiamo un bisturi nel corpo dell’isolamento e lo spezziamo.” Tutto
sommato solo un gioco, ma non molto diverso da quello in cui oggi ci troviamo
virtualmente sempre più avvolti.
venerdì 6 marzo 2015
Antonello Silverini: Labirinto di morte
Un coniglio giallo alla Gromit con una grezza
struttura corporea di plastilina. Il pupazzo, sdraiato su un letto di sabbia e
crateri, si tira su con le zampe anteriori; osserva, un po’ stupito, con quella
sua testa dalle enormi orecchie, gli oggetti appesi a un filo che si stagliano
davanti a un cielo fondale rosato con stampigliato sopra un pianeta (la terra?)
e un saturno con tanto di anelli. Alle cordicelle sono appesi una pistola
giocattolo, alcune stelle e una sagoma di falce lunare. Un’immagine spaesante
per uno dei romanzi più torbidi e cupi dell’intera produzione dickiana. Così
spiazzante e terribile, che ci inchioda tutti, come quel simulacro animale, a
osservare increduli un universo, un mondo, una realtà che sempre più ci appare
fittizia, assurdamente falsa. Che ci si presenta sì come un gioco, come
qualcosa che vuole allettarci, ma che alla fine ci rende cavie e, sempre più,
cavie tragicamente consapevoli dell’inutilità del soffrire che questo ‘gioco’
alla fine ci procura. E’ una burla questa di Silverini che gioca a inquietarci
con una copertina bambinesca fatta della crudeltà dell’immaginario infantile.
Venerdì
13 marzo: Antonello Silverini – Trittico del gioco
martedì 3 marzo 2015
Autentico
“C’è la storia di quel tizio che
portò a Picasso un disegno di Picasso e gli chiese se era autentico, e Picasso
lo firmò immediatamente e disse – Adesso è autentico.” SPERO DI ARRIVARE PRESTO racconto del 1980.
In quella
dimensione parallela, contigua alla nostra e a chissà quante altre, in cui la
seconda guerra mondiale è stata vinta dall’Asse del Male e in cui i Giapponesi
la fanno da padroni sulla costa ovest dell’America, LA SVASTICA SUL SOLE (1961), il piacere più ambito dagli occupanti
è la ricerca di oggetti autentici della storia americana, dal fumetto d’epoca
all’arma in uso nella guerra di secessione. In una realtà fragile e incerta, in
cui un semplice libro (clandestino) che ipotizza una diversa storia (la
vittoria degli Alleati contro l’Asse) è capace di insinuare una sottile
inquietudine in tutti quelli che lo leggono o che ne sentono parlare; proprio
lì la richiesta di autenticità delle cose rappresenta una necessità. Ed è
proprio una fiorente attività illegale di oggetti falsi che rischia di mettere
in pericolo l’intero commercio antiquario, la cui sopravvivenza si basa sulla
possibilità di riconoscerne l’autenticità. Due identici oggetti, uno dei quali
è appartenuto a un personaggio famoso, non si distinguono l’uno dall’altro se
non per la “storicità “ intrinseca che uno dei due possiede. E ciò che lo
dimostra è “un documento di autenticità.
Quindi è tutto un falso, un’illusione di massa. E’ il documento che ne dimostra
il valore, non l’oggetto in se stesso.” L’incrinarsi della credibilità del documento
apre alla crisi e i nuovi oggetti di artigianato locale che compaiono
all’improvviso sul mercato, che non hanno bisogno di alcun certificato perché
non rappresentano altro che quello che mostrano, acuiscono la crisi invece di
risolverla. Ma è una crisi in cui il rischio, che ogni crisi in quanto tale
porta dentro di se, apre a qualcosa di autenticamente nuovo sulla faccia del
mondo. I semplici oggetti artigianali testimoniano di un prodigio: “non avere storicità, e neppure un valore
artistico, estetico, e comunque partecipare di un valore etereo…” , il
valore del fare, in quanto autentico valore dell’umano. L’antiquario americano
Childan ribatte alla proposta del funzionario giapponese che lo voleva umiliare
proponendogli di mercificare, in una produzione industriale in serie, i nuovi
prodotti artigianali: “gli uomini che
hanno fatto questo, (…) sono artisti americani, e sono orgogliosi. Me compreso.
Perciò proporre di usare questi oggetti come amuleti scadenti significa
insultarci, e io chiedo le sue scuse.”
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