Esistono diverse forme di
paure: la paura che ti fa confrontare con la realtà costringendoti a prendere
delle decisioni, che però non sempre possono essere facilmente trasmesse agli
altri, come nel racconto del 1954 COLAZIONE
AL CREPUSCOLO “Tim non riusciva a
rispondere. Loro non avrebbero capito, perché non avrebbero voluto capire. Non
avrebbero voluto sapere. Avevano solo desiderio di essere rassicurati. Lo
leggeva nei loro occhi. Paura. Miserabile, patetica paura. Avevano la
sensazione di qualcosa di orribile… e avevano paura. Scrutavano il suo viso in
cerca di aiuto. In cerca di parole di conforto. Di parole che avrebbero
scacciato la loro paura.” C’è la paura che annichilisce, impedendo
l’azione, impedendo di vivere una vita degna di chiamarsi tale: “La paura può portare a commettere più
errori dell’odio o dell’invidia. Se hai paura, non ti butterai mai
completamente nelle braccia della vita. La paura ti spinge sempre a frenarti in
qualcosa.” SCORRETE LACRIME, DISSE
IL POLIZIOTTO (1970). E c’è una paura che fa correre all’indietro la
lancetta del tempo, quasi a ripercorrere a ritroso la strada dell’evoluzione: “La paura lo privò della sensazione di
essere umano, di essere un uomo. Non era una paura umana quella, era la paura
di un piccolo animale. Lo rigettò indietro, trasportandolo in ere passate,
Sradicò dal presente il suo io, il suo essere. Dio, pensò Joe, la paura che sto
provando è una paura vecchia di milioni di anni.” GUARITORE GALATTICO (1967). E la paura dell’esistenza in sé, quella
che ci portiamo dietro fin dalla nascita, inseparabile compagna della vita: “Quando considero il breve arco della mia
vita, inghiottito nell’eternità che lo precede e lo segue, il minuscolo spazio
che io occupo, o addirittura vedo, sprofondo nell’immensità senza fine di spazi
che non conosco. E che non mi conoscono, provo paura.” (…) “Era paura come
condizione esistenziale assoluta: la base stessa della sua vita. Era stato
separato, strappato via da una qualche fusione che noi non potevamo immaginare…
almeno in quel momento.” L’ANDROIDE
ABRAMO LINCOLN (1962). E infine la paura delle creature inermi, che
vorrebbero potersi esprimere, e patire, come gli umani, ma non possono: ROOG racconto del 1953 “Parla della paura; parla della lealtà;
parla di un’oscura minaccia e di una brava creatura che non riesce a comunicare
a coloro che ama la consapevolezza di quella minaccia.” (Philip. K. Dick).
giovedì 27 aprile 2017
lunedì 24 aprile 2017
Esegesi 16 - Un primo bilancio
"L'opera è qualcosa di più dell'opera:
il soggetto che scrive fa a sua volta
parte dell'opera."
Michel Foucault
Ho provato, nelle quindici puntate precedenti, a
sondare alcuni possibili percorsi da intraprendere per cominciare a orientarsi
nell’intricata materia mentale dell’Esegesi dickiana. ‘Autolavaggio
spirituale’, ‘montagna di spazzatura’, comunque la si voglia definire questo
enorme lavorio intellettuale che Dick ha partorito nelle notti che dalla sua
esperienza del 2.3.74 proseguiranno fino alla sua morte nel marzo del 1982,
difficilmente possono essere liquidate come farneticazioni di una mente
psicotica o in preda alle allucinazioni derivate da farmaci e droghe.
Comparando questo enorme flusso di coscienza narrativa con le sue opere risulta
impossibile non vederne i forti intrecci che li legano assieme. Quella
narrativa che Antonio Caronia non ha esitato a definire, senza mezzi termini,
filosofica è un dispositivo capace di interrogarci sull’oggi più di quanto
facciano tanti discorsi più propriamente filosofici. Come ha scritto Michel
Foucault: “L’uomo di lettere, colui che
scrive, nella nostra società, è come il folle del re; perché, dopo tutto, che
cos’è la letteratura? Un uomo di lettere, un romanziere, inventa una storia,
non racconta la storia, non dice le cose, dice qualcosa che non esiste, parla
nel vuoto. Tuttavia la parola letteraria è fatta per svelare qualcosa che la
pesante gravità dei nostri discorsi filosofici non può dire, e questo qualcosa
è una specie di verità al di sotto della verità. Sapete bene, dopo tutto, che
il destino degli uomini è stato descritto meglio da un romanziere o da un uomo
di teatro che non da filosofi e scienziati”. Una verità sotto la verità,
quella che ci governa, che agisce nelle nostre vite, nei nostri corpi. Scrivere
per la verità, come ha dichiarato di fare lo stesso Dick, comporta vivere una
vita senza protezioni, utopiche o trascendentali che siano; significa oggi, in
un mondo, un po’ troppo frettolosamente definito come disincantato, attrezzarsi
per costruirci una sorta di ‘materialismo dalle spalle larghe’, un materialismo
paradossalmente spirituale. E Dick è uno di quegli artigiani, che sembrano
provenire dal futuro per rifornirci degli strumenti necessari a far si che al
nostro presente non succeda di regredire nel passato come tragicamente succede
nel mondo di Ubik. La funzione dell’autore, o meglio, la funzione-autore (è lo
stesso Dick che dubita si possa parlare dell’esistenza dell’autore in quanto
tale) sembra essere proprio questa:
rendere conto delle proprie esperienze, per Dick quella cosiddetta ‘mistica’
del 2.3.74, (ma per altri possono valere diverse esperienze limite o vissute
come tali) sapendo che sarà un tentativo fallimentare ma che comunque deve
essere fatto. Perché questo è l’unico modo per ottenere un mutamento spirituale
per essere capaci di crescere cambiando. Che Philip K. Dick nell’ultima fase
della sua vita si sia fatto prendere da manie religiose è un favola; il
religioso, la fuga dalla realtà, la trascendenza consolatoria alligna in tanti
contesti, anche in quelli reputati più laici, di quanto non sembri. Ma proprio
in questa mole di interrogativi, di messa in discussione dei propri credi,
delle proprie e altrui teorie, esaltazioni di risposte trovate e delusioni
conseguenti, si tocca con mano la capacità e il coraggio di avere un rapporto
con la realtà, nella coscienza che per quanto illusoria questa possa essere, i
suoi effetti su di noi sono indiscutibilmente reali. Scetticismo e pragmatismo
sono indubbiamente inscindibili in Dick. Non c’è nessun ‘pacco’ di cose inutili in Dick; che ci piaccia o no
continuiamo (pur se spesso a nostra insaputa) a interrogarci sul senso, sul
significato e il destino della nostra vita. È un’interrogazione destinata al
fallimento, ma senza questo fallimento continuo, la vita cessa di esistere.
Si interrompe qui questa prima parte di questo lavoro, si riprenderà a SETTEMBRE con un "Indice analitico ragionata dell’Esegesi". Un elenco di voci che
cercheranno di mettere in evidenza alcuni tra i temi più importanti che
attraversano l’Esegesi: amore,
arborizzazione, campo, causalità, computer, conoscenza, Dio, entropia,
esperienza, evento, evoluzione, fantascienza, figura/sfondo, film, filosofia,
futuro, identità, informazione, labirinto, libertà, logos, marxismo, memoria,
mimetismo, misteri, ologramma, paradosso, psicosi, realtà, sofferenza, sordo,
tempo, verità e forse qualcun altro ancora.
giovedì 20 aprile 2017
Spaesamento
"-Qualcosa non va- affermò Ragle.
-Non dico in te, in me o in altre persone.
Dico in generale.- -Il tempo- citò Ragle
è fuor di sesto.-"
Tempo fuor di sesto (1958)
“Eccolo.
Impresso a caratteri neri sulla carta giallastra. Lo sfiorò con le dita,
muovendo le labbra in silenzio. Avevano chiamato suo padre Donald anziché Joe.
E l’indirizzo era sbagliato. Il 1386 di Fairmount Street invece del 1724 di
Pine Street. Il nome di sua madre era indicato come Sarah Barton, mentre era
Ruth. C’era tuttavia la cosa fondamentale. Theodore Barton, del peso di tre
chili e mezzo, venuto alla luce al Country Hospital. Anche questo era sbagliato
però. Era una notizia alterata, distorta. Ogni cosa era stata deformata.” LA CITTA’ SOSTITUITA (1953)
Piccole cose, dettagli,
particolari che non quadrano. Sono questi i sintomi di una malattia che ha per
oggetto il mondo in cui viviamo; che dovrebbe avere un aspetto che ci
rassicura, ci conferma e che invece all’improvviso apre delle crepe, piccole
fessure da cui sembrano trasparire scenari inconsueti o incoerenti. Lo sfondo
in cui si colloca il nostro operare non sembra essere più lo stesso. Non più
ovvio.
“Tutto
sembrava sotto controllo. Sembrava… ma c’era qualcosa che non andava. Hamilton
ne era convinto. Dentro di lui c’era la netta, sgradevole sensazione che
qualcosa di importante fosse fuori posto.” L’OCCHIO
NEL CIELO (1955)
“Avanzò
lentamente ed entrò nell’ufficio interno. L’ufficio era stato cambiato. Ne ero
certo. Alcune cose erano state alterate, mutate, riordinate in altro modo.
Niente di ovvio, niente su cui potesse puntare il dito. Ma sentiva che era
qualcosa di diverso.” SQUADRA RIPARAZIONI racconto (1954).
“-Sono
in un mondo sfasato- pensò. –Le cose stanno diventando strane.-“ DIVINA INVASIONE (1980)
Ma la cosa più inquietante
in tutto questo è che i meccanismi di difesa, le strategie per riconquistare
l’ovvio della vita, cioè l’abitudine delle cose consolidate, che sono così
perché sono sempre state così, sembra essere in definitiva solo una strategia
volta più a riconquistare l’illusione della realtà che la realtà vera e
propria.
“Quello
che mi spaventava a questo punto, pensò, è guardare fuori dalla finestra del
mio appcon discreto e defilato e vedere l’uomo di Pechino che passeggia sul
marciapiede, non da solo ma accompagnato da altri come lui.
Decise di non guardare, tanto per restare al sicuro. Di non affacciarsi
per un po’. Invece si concentrò su quel che restava della sua colazione, per
quanto insipida fosse diventata. Un compito da niente, ma familiare; lo aiutava
a ripristinare la qualità simmetrica della realtà.” SVEGLIATEVI DORMIENTI (1963)
Il familiare non è la
certezza del vero, è solo la consuetudine dell’abitudinario. Una diga, una
barriera nei confronti di una realtà incerta, non scontata che incombe e può
esondare.
“Sentiva
in testa voci che cantavano sonore: una musica tremenda, come se la realtà che
lo circondava fosse inacidita. Ora ogni cosa – le automobili veloci, i due
uomini, la sua stessa auto con il cofano alzato, l’odore dello smog, la luce
luminosa e calda del mezzogiorno – tutto era diventato rancido, come se il suo
mondo si fosse tutto putrefatto. Non tanto divenuto all’improvviso, a causa di
tutto ciò, pericoloso o spaventoso, ma piuttosto come se fosse nell’atto di
marcire, sprofondare alla vista al suono all’odore. Sentiva voglia di vomitare,
e chiuse gli occhi e rabbrividì.” SCRUTARE NEL BUIO (1973)
Il mondo non più appaesato
non è un mondo falso, distorto, ma è al contrario il mondo che torna ad essere
se stesso. L’umano che lo abita e lo rende abitabile deve sforzarsi e
concentrarsi per farlo rimanere così come siamo abituati che sia.
“Avvertì
il vuoto in modo ancora più acuto, perché attorno a lui ogni cosa era
deteriorata.”
“Dove
sono? Fuori dal mio mondo, dal mio spazio e dal mio tempo.”
“Questa
condizione ipnagogica. La capacità di concentrazione diminuisce e prevale uno
stato crepuscolare; il mondo visto semplicemente sotto i suoi aspetti
simbolici, archetipici, del tutto confuso con il materiale inconscio. Tipico
del sonnambulismo provocato dall’ipnosi. Devo smetterla con questo scivolare in
mezzo alle ombre; rimettere a fuoco la concentrazione e quindi ristabilire il
centro dell’ego.” LA
SVASTICA SUL SOLE (1961)
"-C'è qualcosa che non va- disse Barton, scosso.
Cominciò a tremare. -C'è qualcosa di orribilmente sbagliato.-"
Tornando a casa racconto (1959)
lunedì 17 aprile 2017
ESEGESI 15 - La morte stessa morirà
“La
morte stessa uccisa; la morte stessa morirà. Il miracolo promesso è alla fine
giunto, nel tempo lineare.”(941) ‘Morte
dov’è il tuo pungiglione? Tomba dov’è la tua vittoria?’ il leitmotiv paolino
della ‘Lettera ai Corinzi’ che riverbera in numerosi romanzi dickiani cerca
costantemente la sua risoluzione nelle infinite pagine dell’Esegesi: “Siamo addormentati, ma stiamo per
svegliarci. ‘Non dormiremo tutti, ma saremo cambiati in un momento, in un
batter d’occhio… e poi giungeremo a superare le parole che sono scritte: ‘Morte
dov’è il tuo (…)’”(941) La promessa della morte, della stessa
morte che cerca il suo avveramento: essere incinta di nuova vita, “la vecchiaia è gravida, la morte è incinta,
tutto ciò che è limitato e caratteristico, fisso e pronto, precipita nel
‘basso’ corporeo per essere ripreso e rinascere.”1 Il ‘basso’ dickiano è il kipple, la
spazzatura, l’immondizia, dove spesso Dick afferma vi trovi rifugio, alberghi
il sacro. Non c’è risposta fuori dal verminaio della vita, dove morte e nuova
vita si rincorrono in un ciclo ininterrotto. Il sacro non può prescindere dal
terreno sporco e contaminato dell’umano. “Nel
momento stesso in cui cedo alla tentazione di rispondere alla domanda: tu come
te lo immagini l’al di là?, lo immagino sotto la suggestione che fa parte della
cultura di un mondo di viventi. E non esco da questa prigione. Da questa
prigione non è dato uscire se non contro la nostra volontà, con la morte.”2
E Dick è un o di quelli che non cede a questa tentazione. Non c’è né nei
suoi romanzi né nei suoi scritti più privati, come l’Esegesi appunto, alcuna
visione oltremondana. La morte non è una porta verso l’al di là, è sempre un
morire interno alla vita. L’unico possibile superamento dell’eterno rincorrersi
della vita con la morte è nella promessa offerta dal tempo lineare (il tempo
dell’Occidente) di una fine dei tempi da realizzarsi con la resurrezione
cristiana, piuttosto che con la realizzazione dell’utopia marxiana (la fine
della storia ecc.). Ma, appunto, sono promesse e per di più consumate, ormai
usurate tanto quanto l’idea di un tempo lineare, progressivo, il cui vero
rischio è inevitabilmente quello della morte della morte e conseguentemente
della stessa vita. Insomma, la morte pare non essere qualcosa di poi così
imperituro; va protetta e vanno difesi i suoi prodotti: i morti. Di questi
morti noi siamo i custodi e di questi morti noi siamo fatti. “Noi consistiamo di milioni di strati di
accrescimento formati (aggiunti) nel corso di migliaia di anni: siamo come
cirripedi. Viaggiamo lungo quest’asse spaziale di strati di depositi uno sopra
l’altro e non facciamo che crescere e crescere (‘l’uomo contiene – non il
bambino – ma l’uomo antecedente’ afferma Joe Chip3… e a ragione!)375
Nota 1: Michael Bachtin, L’opera di Rabelais,
Einaudi, 19 p. 61
Nota 2: dall’intervista di Fausta Leoni a Ernesto De
Martino in Religioni Oggi 1968
Nota 3: protagonista del romanzo Ubik (1966).
Tra 7 giorni: L'Esegesi 16 - Un primo bilancio
Tra 7 giorni: L'Esegesi 16 - Un primo bilancio
giovedì 13 aprile 2017
Manualità
Avere una buona manualità,
un sapere incorporato che si esprime al massimo grado nell’uso esperto delle
proprie mani nel costruire un manufatto, o nel ripararlo, in un mondo sempre
più tecnologizzato, non è più un requisito indispensabile per poter salire la
scala sociale. “I lavori manuali non
godono di grande considerazione. Perché non ti dedichi a qualcosa di
intellettuale? Non sarebbe meglio se tornassi a scuola e ti prendessi una
laurea?” CRONACHE DEL DOPOBOMBA (1963).
Il sapere manuale può addirittura essere visto come un pericolo, un’abnormità: “Quest’uomo è diverso. Sa aggiustare tutto,
fare tutto. Non si serve della conoscenza, della scienza, cioè di una serie di
nozioni ordinatamente classificate. Non sa nulla. Nella sua testa non esiste
alcuna traccia di cultura, di preparazione. Lavora per intuizione… il suo
potere è nelle sue mani, non nella sua testa. È una specie di jolly, un
factotum. Le sue mani! Come un pittore, un artista. Tutto nelle sue mani…” L’UOMO VARIABILE racconto del 1953. Può
addirittura fomentare rivolte, come in VULCANO 3 (1959-60): “-Porrà termine alla setta della tecnocrazia?-
domandò Fields. –Il mondo non deve essere più forgiato a misura di soli
esperti, gestito da e per coloro che vedono nella conoscenza verbale l’unica
religione. Sono più che stufo di quella roba mentale; mi dà la nausea… Come se
abilità manuali quali tirare su un muro non possono costituire un degno
argomento di conversazione. Come se tutta la gente che lavora con le mani…- Si
interruppe. –Sono stanco di vedere sminuito questo genere di persone.-“ Oppure
può essere un buon motivo per andarsene, evadere in un altro mondo, un’utopia
che potrebbe però rivelarsi, alla fine, un incubo: “Vuoi cominciare una nuova vita, per servirti della tua mente e delle
tue mani, dei doni che Dio ti ha dato? Pensaci, amico, pensaci bene. Che cosa
te ne fai di quelle mani, di quelle capacità, in questo momento? Eh? Che cosa
te ne fai?- Cosa se ne stava facendo lui? Premeva bottoni con le mani, bottoni,
uno dopo l’altro, quando si accendeva una luce verde sul cruscotto. Lavoro di
verifica e manutenzione, in una linea automatica pubblica. Bottoni, luci verdi,
bottoni. Un lavoro che qualsiasi macchina avrebbe fatto meglio di lui. E, in
effetti, c’era una macchina che accendeva luci verdi, e un’altra macchina che
controllava se il suo lavoro veniva svolto nella maniera migliore, e un’altra
macchina…” UTOPIA, ANDATA E RITORNO (1963).
La manualità ha un gran peso nell’opera di Dick; come scrive Antonio Caronia:
“La sua narrativa abbonda (…) di
artigiani: gente che lavora la materia (dal legno, ai metalli, all’argilla),
riparatori, intagliatori, bricoleurs, vasai. (…) Insomma, non ‘belle arti’ ma
‘arti applicate’ (come si sarebbe detto ancora cinquant’anni fa). È un campo di
attività in cui confluiscono abilità tecniche, e anche artistiche ma, Dick ne è
convinto, non capacità scientifiche.” 1 Ma questo non deve farci
cadere nell’equivoco di un Dick arcaico, che vuole tornare ai vecchi
consolidati valori del passato. Un Dick recalcitrante a voler entrare nella
modernità; anche l’esaltazione della manualità può aver fini ben poco nobili: “Un giorno venne il dottor Todt e ispezionò
quello che aveva fatto il nostro gruppo. E mi disse: -Hai delle buone mani-. È
un grande momento, Juliana. La dignità del lavoro; le loro non sono semplici
parole al vento. Prima di loro, prima dei nazisti, tutti guardavano dall’alto
in basso il lavoro manuale; anch’io. Aristocratici. Il Fronte del Lavoro ha
posto fine a tutto questo. Per la prima volta ho visto le mie mani.” LA SVASTICA SUL SOLE (1961). Ma forse
in Dick più che un ipotetico rifiuto della scienza o del mentale c’è il rifiuto
di considerare questi come incorporei, immateriali, pure astrazioni. Il sapere,
che ci piaccia o no, è sempre qualcosa che si fa corpo. In alternativa c’è solo
la malattia, come nel pianista Kongrossian I
SIMULACRI (1963) che con la forza del pensiero sostituisce le mani per
suonare, ma che inevitabilmente sprofonda nell’invisibilità.
Nota 1: Antonio Caronia e
Domenico Gallo, Philip K. Dick. La
macchina della paranoia, Agenzia X, Milano, 2006, p.101.
lunedì 10 aprile 2017
ESEGESI 14 - Tracce di memoria dal futuro
“Ci
stiamo facendo il culo al servizio di qualche struttura assoluta, scopo, meta o bisogno; forse quello
che ho visto è una creazione continua e noi siamo operai involontari collocati
qua e là, come un milione di api attorno alla struttura, che martelliamo e
seghiamo mettendocela tutta, e il progetto non ci è visibile (lo è solo
all’architetto). Le nostre istruzioni sono in un qualche modo dentro le nostre
teste… ho la netta intuizione, probabilmente giusta, che la nostra serie
originale di engrammi, i molti programmi messi in cantiere e poi inibiti alla
nascita, vengano continuamente aggiornati
e raffinati durante il sonno; mentre ognuno di noi dorme viene istruito
attraverso lo stato del sogno: nel complesso le persone sembrano non
soffermarsi mai sul fatto che molto spesso sembra che i sogni abbiano a che
fare con il futuro. La ragione è ovvia: è nel futuro che i compiti di cui ci
informano i sogni avranno luogo.”(128)
Gli engrammi sono tracce di memoria, “modificazioni
che avvengono nel cervello, sia fugaci sia durature, che risultano dalla
codificazione neuronale di un vissuto”. Praticamente
si possono definire come contrassegni di un determinato evento e
contribuirebbero “a rappresentare quel
che noi soggettivamente viviamo come ricordo di qualcosa”.1 Ovviamente
coabitano dentro il nostro cervello milioni di questi engrammi e il problema,
che la scienza non ha ancora risolto, è di come alcuni di essi possano passare
da uno stato di inattività latente a uno stato di attività che ci fa ricordare
un dato evento. Questa attività cerebrale che per la scienza collega il passato
con il presente per Dick collegherebbe il futuro con il presente. Queste
istruzioni vengono reiterate nei sogni allo scopo di ripetere l’addestramento
originale, quello che ci porterà a reagire in un dato modo quando un segnale
apposito nell’ambiente ce lo segnalerà. Se per un errore si dovesse mancare un
segnale spunterebbe “fuori un intero universo alternativo”.(129) Quindi l’engramma sarebbe un programma
che dal futuro verrebbe a implementarsi nel passato di una persona per poter
farla reagire in un dato modo in un determinato tempo. Un percorso prestabilito
tracciato dai segnali necessari. La cosa importante però è che sono segnali
disinibitori, cioè non innescano riflessi condizionati ma servono a portare
alla memoria un addestramento (programma) originario, quel che si deve fare in
quell’occasione. Tutto sommato un sistema alquanto macchinoso “un modo tutt’altro che economico e ordinato
per Dio di gestire le cose.” In definitiva una programmazione troppo
incline alla possibilità di un errore (di una libera scelta dell’individuo?).
Nota 1: Nicolas Pethes, Jens Ruchatz, Dizionario della memoria e del ricordo, Bruno
Mondadori, Milano 2002, p. 164.
Tra 7 giorni: ESEGESI 15 - La morte stessa morirà
Tra 7 giorni: ESEGESI 15 - La morte stessa morirà
giovedì 6 aprile 2017
Telepatia
La telepatia è un tema in Dick che ha una grossa affinità con quello
della paranoia: “-Noi
schizofrenici abbiamo questo problema, captiamo l’ostilità inconscia degli
altri.- -Capisco. Il fattore telepatico. Con Clay andò sempre più peggiorando
finché…- Lo guardò. –L’esito paranoide.- -È la cosa peggiore della nostra
condizione, questa coscienza del sadismo e dell’aggressività sepolti e rimossi
negli altri intorno a noi, perfino negli estranei. Come vorrei che non
l’avessimo, lo percepiamo perfino nei ristoranti…-“ NOI MARZIANI (1962). Il telepate è effettivamente un mestiere molto
difficile, in cui la capacità acquisita tramite l’addestramento e il duro
lavoro risultano importanti forse ancor più delle potenzialità innate: “Un telepate doveva imparare ad avere la
pelle robusta. In pratica, doveva imparare a sintonizzarsi sui pensieri consci,
positivi, di un individuo, tralasciando la mistura assortita dei suoi processi
mentali inconsci. Sbirciando in quella regione, si poteva trovare praticamente
di tutto… e quasi in chiunque. Ogni dattilografo che transitava per il suo
ufficio aveva pensieri fuggevoli di distruggere il proprio superiore per
prendere il suo posto… e alcuni miravano anche più in alto; strutture mentali
ricche di fantastiche illusioni personali esistevano anche negli uomini e nelle
donne più miti…” NOSTRI AMICI DI
FROLIX 8 (1968-9). E forse in realtà la telepatia è qualcosa che tutti
possono imparare: “Secondo la teoria di
convergenza di Balkani, esisteva una scorciatoia che consentiva un contatto tra
le particelle di materia a prescindere dalla distanza che le separava. Era
attraverso questo punto di convergenza che le vibrazioni dell’aura si
trasformavano in telepatia a largo raggio. Quindi, sempre secondo questa
teoria, Balkani era riuscito ad addestrare un discreto numero di persone – tra
cui Percy X – rendendole capaci di penetrare la mente anche a distanze
considerevoli. Di fatto, però, la teoria implicava che chiunque, nelle
condizioni adeguate, avrebbe potuto stabilire un contatto telepatico. In fin
dei conti tutti hanno una relazione con il punto di convergenza.” LA CONQUISTA DI GANIMEDE (1964).
Oppure si può acquisire per caso: “Con un
sospiro, il signor Lee disse: -La scatola empatica l’ha trasformata per un
momento in un telepate involontario. È stato un colpo per lei.- Gli batté sulla
spalla. –La telepatia e l’empatia sono due versioni della stessa cosa.” I SEGUACI DI MERCER racconto del 1964.
Ma per i telepati di mestiere non è solo un lavoro duro e faticoso, è anche un
mondo, una forma di vita da cui è impossibile separarsi (e nel caso lo fosse
sarebbe estremamente doloroso): “Dai suoi
occhi trapelava una sofferenza interiore. –Ormai è finita, è come diventare
improvvisamente ciechi. Dopo l’intervento ho urlato e pianto per un sacco di
tempo. Non riuscivo ad abituarmi e sono crollata.-“ LOTTERIA DELLO SPAZIO (1953-4). In ogni caso la telepatia vista da
quelli che ne sono privi, risulta essere un potere malvagio e opprimente: “-Tutti odiano i Tel- disse Sally. –È un
potere cattivo, sporco. Scrutare nella mente degli altri è come guardarli
quando fanno il bagno o si vestono o mangiano. Non è naturale.- Curt sorrise.
–Sono diversi dai Precog? Non puoi definire naturali nemmeno i nostri poteri.-
-La precognizione ha a che fare con eventi, non con persone- disse Sally.
–Sapere cosa sta per succedere non è peggio del sapere quello che è già
successo.-“ nel racconto IL MONDO
DEI MUTANTI (1954). E ancora: “-Sto
captando molte stranezze nella sua mente- -Esca dalla mia mente- ribatté brusco
Jason, con un senso di repulsione. Non gli erano mai piaciuti i telepati
impiccioni, spinti solo dalla curiosità, e quel tipo non faceva eccezione.” SCORRETE LACRIME, DISSE IL POLIZIOTTO (1970).
Ovviamente c’è anche chi si serve dei telepati, come, ad esempio, la polizia: “Un poliziotto stava estraendo una barretta
telepatica, un sensore che avrebbe captato e registrato i suoi pensieri per dar
modo alla polizia di controllarli.” GUARITORE
GALATTICO (1967). Se ne servono perfino quelli che combattono i mutanti: “…i castrati telepatici tollerati perché
erano utili nella difesa contro altri mutanti.” LE ILLUSIONI DEGLI ALTRI racconto del 1957. Ma per chiunque, anche
per chi non ha nulla da nascondere, l’idea di poter essere violati nel luogo
ritenuto più sacro e intimo, la nostra mente, risulta intollerabile: “-Le abbiamo inserito nella testa un
trasmettitore telepatico che ci tiene costantemente informati.- Un
trasmettitore telepatico, fatto con un plasma vivo che era stato trovato sulla
Luna. Rabbrividì di disgusto. Quella cosa viveva dentro di lui, dentro al suo
cervello, si nutriva, ascoltava, si nutriva…” nel racconto del 1966 MEMORIA TOTALE. E allora ecco che,
anche sapendo di fare una cosa illegale, la voglia di opporsi, di resistere si
fa avanti, costi quel che costi: “SALVE!
QUESTO SCHERMO ANTISONDA LE VIENE INVIATO COI COMPLIMENTI DEL FABBRICANTE E
NELLA SINCERA SPERANZA CHE POSSA ESSERE DI QUALCHE VALORE PER LEI. GRAZIE.
Nient’altro. Nessuna ulteriore informazione. Aveva riflettuto a lungo. Doveva
metterlo? Non aveva mai fatto niente. Non aveva fatto nulla da nascondere,
nessuna slealtà all’Unione. Però l’idea lo affascinava. Col cappuccio, la sua
mente sarebbe stata soltanto sua. Nessuno avrebbe potuto scrutarla. La sua
mente sarebbe di nuovo appartenuta a lui, privata, segreta. Avrebbe potuto
pensare come preferiva: una successione sterminata di pensieri a uso e consumo
suo, e di nessun altro.” IL
FABBRICANTE DI CAPPUCCI racconto del 1955.
lunedì 3 aprile 2017
ESEGESI 13 - Oh Ho, Oh On
“Ci
chiama alla ribellione
per
la libertà,
il
piccolo vaso d’argilla
che
ha forgiato l’universo.”(859)
“Adoreremo
il potere per sé, confondendo il potente con il sacro? Tutto quello che è
colossale è un inganno. Nella spazzatura rifiutata scintilla la piccola,
assennata, limpida voce. Possiamo ignorarla e adorare il potere. Ma l’ironia è
che l’adorazione del potere ci deruba del nostro stesso potere: è tutto
debitamente preteso da YHWH.1 Adorare il potere esterno significa perderlo da sé, la disparità
diviene assoluta. Ho On aveva ragione: il vaso più umile è quello davvero più
sacro.”(467) Il piccolo vaso d’argilla, oggetto umile e sacro,
che si trova disseminato in numerosi romanzi di Dick2 evolve nella
stesura dell’Esegesi da simbolo di una riconciliazione possibile tra ciò che è
stato creato e colui che l’ha creato (ricordiamoci come “nella Cabalà, si parla di Shviràth hskrlin, di quei vasi rotti nel
momento della creazione”)3 in una figura, all’opposto, di
‘ribellione per la libertà’. Il vasaio non ripara più, l’artigiano evolve
nell’artista creatore e l’artista in colui che pensa e agisce la propria
ribellione. Ovviamente questo è solo un’azzardata ipotesi interpretativa che
vale quanto un’altra, o forse meno; rimane comunque che Oh On o Oh Ho è “il nome di una vaso d’argilla fatto da Dick
per un amico” e che “in una
precedente visione ipnagogica, Dick sentì il vaso, che si identificò come ‘Oh
Ho’, che gli parlava in un tono arrogante e irritato di argomenti spirituali.
In seguito Dick teorizzò che il nome ‘Oh Ho’ poteva riferirsi alla frase greca
Oh On, che significa ‘Colui che è’. La frase ‘ho on’ appare in Esodo, 3:14,
quando Dio si identifica come ‘io sono chi sono’ (nel greco della versione dei
Settanta: egò eimi ho on).” (1278 glossario) Avere a che fare
direttamente con ‘colui che è’ tramite un artefatto è già un atto di un
rapporto diverso col trascendente, un atto materiale che comporta un fare e un
disfare. “Sostituite ogni ‘è’ con ‘fa’ e
l’ontologia svanisce.”(664) Forse non c’è atto di ribellione più
grande!
Nota 1: “YHWH nella Bibbia ebraica il vero nome di
Dio” dal Glossario p. 1293
Nota 3: Elie Wiesel, Credere non credere, La Giuntina, Firenze, 1986
Fra 7 giorni Esegesi 14 - Engrammi, tracce di memoria dal futuro
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