“La
morte stessa uccisa; la morte stessa morirà. Il miracolo promesso è alla fine
giunto, nel tempo lineare.”(941) ‘Morte
dov’è il tuo pungiglione? Tomba dov’è la tua vittoria?’ il leitmotiv paolino
della ‘Lettera ai Corinzi’ che riverbera in numerosi romanzi dickiani cerca
costantemente la sua risoluzione nelle infinite pagine dell’Esegesi: “Siamo addormentati, ma stiamo per
svegliarci. ‘Non dormiremo tutti, ma saremo cambiati in un momento, in un
batter d’occhio… e poi giungeremo a superare le parole che sono scritte: ‘Morte
dov’è il tuo (…)’”(941) La promessa della morte, della stessa
morte che cerca il suo avveramento: essere incinta di nuova vita, “la vecchiaia è gravida, la morte è incinta,
tutto ciò che è limitato e caratteristico, fisso e pronto, precipita nel
‘basso’ corporeo per essere ripreso e rinascere.”1 Il ‘basso’ dickiano è il kipple, la
spazzatura, l’immondizia, dove spesso Dick afferma vi trovi rifugio, alberghi
il sacro. Non c’è risposta fuori dal verminaio della vita, dove morte e nuova
vita si rincorrono in un ciclo ininterrotto. Il sacro non può prescindere dal
terreno sporco e contaminato dell’umano. “Nel
momento stesso in cui cedo alla tentazione di rispondere alla domanda: tu come
te lo immagini l’al di là?, lo immagino sotto la suggestione che fa parte della
cultura di un mondo di viventi. E non esco da questa prigione. Da questa
prigione non è dato uscire se non contro la nostra volontà, con la morte.”2
E Dick è un o di quelli che non cede a questa tentazione. Non c’è né nei
suoi romanzi né nei suoi scritti più privati, come l’Esegesi appunto, alcuna
visione oltremondana. La morte non è una porta verso l’al di là, è sempre un
morire interno alla vita. L’unico possibile superamento dell’eterno rincorrersi
della vita con la morte è nella promessa offerta dal tempo lineare (il tempo
dell’Occidente) di una fine dei tempi da realizzarsi con la resurrezione
cristiana, piuttosto che con la realizzazione dell’utopia marxiana (la fine
della storia ecc.). Ma, appunto, sono promesse e per di più consumate, ormai
usurate tanto quanto l’idea di un tempo lineare, progressivo, il cui vero
rischio è inevitabilmente quello della morte della morte e conseguentemente
della stessa vita. Insomma, la morte pare non essere qualcosa di poi così
imperituro; va protetta e vanno difesi i suoi prodotti: i morti. Di questi
morti noi siamo i custodi e di questi morti noi siamo fatti. “Noi consistiamo di milioni di strati di
accrescimento formati (aggiunti) nel corso di migliaia di anni: siamo come
cirripedi. Viaggiamo lungo quest’asse spaziale di strati di depositi uno sopra
l’altro e non facciamo che crescere e crescere (‘l’uomo contiene – non il
bambino – ma l’uomo antecedente’ afferma Joe Chip3… e a ragione!)375
Nota 1: Michael Bachtin, L’opera di Rabelais,
Einaudi, 19 p. 61
Nota 2: dall’intervista di Fausta Leoni a Ernesto De
Martino in Religioni Oggi 1968
Nota 3: protagonista del romanzo Ubik (1966).
Tra 7 giorni: L'Esegesi 16 - Un primo bilancio
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