“Una creatura vivente,
un vecchio, solo dal petto in su, il resto era un groviglio di pompe, tubi e
quadranti, un macchinario incessante attivo che ticchettava.” E’ Manfred, il
bambino autistico nella sua “apparizione finale come uomo-macchina, fatto di carne
e metallo” (Pagetti). Una visione insostenibile che provoca la fuga della madre
nella notte marziana. Tutti ingredienti per un’immagine forte, con tutte le
possibili commistioni da incubo incarnato a cui la moderna cinematografia
fantascientifica ci ha abbondantemente assuefatto. La soluzione di Silverini
scarta il facile immaginario cyborg-horror, pur privilegiando il tema
corpo-macchina, presentandoci il Manfred bambino seduto su una antiquata sedia
da barbiere in uno stile che evoca le figure infantili di Norman Rockwell e il
macchinario accozzaglia di ingranaggi, pompe, fili, un obsoleta macchina da
scrivere e altro non meglio identificato collegato a un grosso orologio.
Nell’insieme, guardando a occhi socchiusi, sembra configurarsi una mappa, una sorta
di carta con una bussola posata su di essa. La carta di un pianeta, Marte, con
i suoi canali, alcune macchie scure che potrebbero essere agglomerati urbani,
un immenso deserto che circonda il tutto, una landa grumosa, lattiginosa, piena
di asperità e screpolature con ai bordi il disegno di una creatura fantastica,
come d’uso nelle antiche mappe, sconosciuta e più aliena nella sua glaciale
normalità di un qualunque altro mostro con ali e artigli. Ma rispalancando gli
occhi e ricominciamo a immaginare che il bimbo non sia Manfred ma un bambino
qualunque della scuola marziana e il mucchio di ferraglia i vari robot-maestri
ridotti a informe poltiglia. Ma se poi ancora volessimo soddisfare il nostro
innato bisogno di senso potremmo vedere noi stessi in quel bambino, intenti nel
laborioso e interminabile tentativo di arginare l’entropia ricostruendo forme
disponibili a nuove utilizzazioni. E’ un gioco che potrebbe continuare a lungo
e che potremmo definire, parafrasando Jung, di ‘immaginazione attiva’1
e che se tanto si adatta all’opera di Dick, altrettanto vale per l’immaginario
figurativo di Silverini.
1 La
tecnica di immaginazione attiva è stata esplicitamente citata in Le tre stimmate di Palmer Eldritch “active
immagination” tradotta nella nuova edizione di Fanucci con “immaginazione
vivace”, una svista che evidenzia la scarsa considerazione dell’influsso
junghiano sull’opera di Dick presente in gran parte della critica italiana.
Venerdì 6 marzo: Antonello Silverini – Labirinto di
morte