giovedì 30 marzo 2017

Moda


“Nella società del biopotere” ci ricorda Antonio Caronia in un suo seminario su Michel Foucault: “lo Stato ha un tale potere, una tale possibilità di  intervento sui processi vitali, sui processi della vita che non si interessa più di rendere così banalmente uniforme la società”, come accadeva nella società disciplinare, “la gente può vestire come vuole, può avere anche le preferenze sessuali che vuole,  (…) perché tanto è andato più a fondo il potere, controlla un livello che prima non controllava. (…) È l’intera vita degli esseri umani come specie che diventa oggetto di una pratica di amministrazione. Si possono finalmente amministrare i geni della vita.”1 Il mondo che Dick descrive nelle sue opere è un mondo di transizione, di passaggio tra questi due diversi tipi di potere, ed è per questo che anche le più colorate descrizioni dei costumi sessuali, della moda, dei consumi ecc. non sono mai fini a se stessi, ma significano. Stanno lì a raccontare come un determinato periodo storico caratterizza le proprie forme, le proprie modalità di appartenenza a una specifica vita comunitaria.                                                                                                                   Quella che segue è una selezione di esempi riguardanti i modi del vestire: frammenti di un caleidoscopio che caratterizza l’apparente libertà di una società altamente omologata nelle sue effettive pratiche di vita.
“Così questo è il tipo su cui tutti vanno scrivendo, disse Erickson tra sé. Sembrerebbe migliore di noi altri e indossa un completo in pelle di grillotalpa marziano.” SVEGLIATEVI DORMIENTI (1963)
“La cameriera indossava le lunghe calze di fibra e la sexmicetta, che erano i due indumenti femminili maggiormente di moda in quel periodo. La sexmicetta era una tunica corta che lasciava un seno, quello destro, scoperto, e il capezzolo era elegantemente infilato in un raffinato ornamento svizzero, composto di numerosissime parti miniaturizzate; l’ornamento, che aveva la forma di una grande gomma di matita d’oro, con il suo perfetto foro centrale, suonava della musica semiclassica e brillava di una serie di luci dai diversi colori, brillanti e attraenti, che gettavano una trama luminosa sul pavimento, davanti alla cameriera, illuminandole la strada, in modo da permetterle di passare tra le affollatissime tavole del ristorante.” UTOPIA, ANDATA E RITORNO (1963)
“La sbirciò di nascosto e la trovò attraente. I suoi corti capelli color bronzo creavano un gradevole contrasto con la pelle grigio chiara. Inoltre, la ragazza aveva una delle vite più sottili che Joe avesse mai visto, che, come tutto il resto del corpo, risaltava generosamente nella camicetta e nei pantaloni di schiuma-spray permoform.” GUARITORE GALATTICO (1967)
“La porta della stanza si spalancò di colpo. –Che volo!- esclamò ansante Rachel Rosen, facendo il suo ingresso avvolta in un lungo soprabito a squame di pesce sotto cui s’intravedeva una parure identica di calzoncini e reggiseno.” MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? (1966)
E gli svariati esempi in UBIK (1966):
“Lei ricorda questo annuncio, signor Runciter? Mostra un marito tornato a casa dal lavoro; indossa ancora la sua fascia da vita color giallo elettrico, il gonnellino a petalo, calze al ginocchio e un berretto a visiera militare.”
“Una ragazza ossuta con gli occhiali e i capelli lisci giallo-limone, vestita con un paio di bermude e una mantiglia di merletto nero, con l’aggiunta di un cappello da cow-boy.”
“Una donna più anziana, dalla pelle scura e piuttosto bella, con un paio di occhi scaltri e leggermente stravolti, che indossava un sari di seta, un obi di nylon e dei calzini troppo corti.”
“Un ragazzino adolescente dai capelli lanosi perennemente avvolto da una cinica nube di orgoglio; questo abbigliato con una camicia a fiori giganteschi e con calzoni da sci in spandex.”
“signora trentenne e mascolina dalla pelle color sabbia che sfoggiava calzoni in finta vigogna e una camicetta sulla quale era stampato un ritratto sbiadito di Lord Bertrand Russell.”
“Accanto alla finestra, infilato nei soliti eleganti pantaloni in scorza di betulla, la cintura in corda di canapa, una maglietta trasparente e un alto cappello da ferroviere in testa”
“Un uomo calvo, munito di una barbetta caprina, indicò se stesso. Portava un antiquato paio di calzoni di lamé dorato stretti ai fianchi, eppure riusciva ad apparire elegante: forse il merito ricadeva anche sui bottoni della sua camicia verdealga, grossi come uova. Trasudava a ogni modo una grande dignità, una nobiltà superiore alla media. Joe ne fu impressionato.”
“un individuo magro con la faccia seria che sedeva eretto sulla sua sedia, le mani sulle ginocchia. Indossava un costume tirolese in poliestere, copricalzoni di cuoio stile cow-boy decorati con finte stelle d’argento e teneva i lunghi capelli avvolti in una reticella. Ai piedi un paio di sandali.”
“Un giovanotto dal naso sottile, abbigliato con una maxigonna e dalla testa davvero piccola, non più grande di un melone”
“un tizio flaccido di mezz’età con i piedi enormi, i capelli impomatati e la pelle fangosa, senza contare un pomo d’Adamo particolarmente sporgente, che per l’occasione sfoggiava un abito da lavoro color culo di babbuino.”
“Panciuto, tozzo e con le gambe grosse, Stanton Mick avanzò verso di loro. Indossava calzoni da donna a mezza gamba color fucsia, pantofole in pelo di yak rosa, una camicia senza maniche in pelle di serpente e un nastro nei capelli tinti di bianco che arrivavano fino alla cintola.”
“Una persona simile a un coleottero, abbigliata con tipici indumenti del Vecchio Continente: una toga di tweed, pantofole, una sciarpa scarlatta e un berrettino rosso con elica stile anni Cinquanta.”
“Indossava calzoni alla zuava di feltro verde, calze grigie da golf, un giubbotto senza collo in pelle di tasso e un paio di scarpe senza lacci in finto cuoio”


lunedì 27 marzo 2017

ESEGESI 12 - Nel cuore della notte


Angel Archer è il primo personaggio che assurge al ruolo di protagonista nell’ultimo dei romanzi di Dick, l’opera ‘testamento’ La trasmigrazione di Timothy Archer. Angel, per Gabriele Frasca, è la “coscienza infelice” che non solo saprà divincolarsi dalla “struttura delirante” creata dall’ossessiva ricerca della “verità vera” da parte dell’ultimo Dick, ma che saprà anche offrire “al proprio autore, attraverso un esplicito flusso di pensieri, l’occasione, prima che la morte lo metta a tacere per sempre (…), di una straordinaria consapevole confessione.”1 Quello che in sostanza Frasca ci dice della confessione di Dick tramite Angel è che tutta questa ossessiva ricerca del vero altro non è che un “pacco” (a packaged fraud)2 e che questa “fame” di assoluto è ciò che rende la vita non vissuta e quindi inutile. L’ultimo romanzo, come lascito dickiano, si presenta perciò nella forma di monito a non seguire le sue orme; un romanzo dipinto “col pennello del Flaubert più acido, quello di Bouvard et Pécuchet per intenderci” che raccontando dei rotoli del Mar Morto e “della misteriosa setta dei zadochiti, finisce col diventare l’ennesima ‘idea prevalente’ che consegna, col dovuto anticipo, gli ‘stupidi’ alla morte.”3 Quel che sembra possa desumersi da questa articolata e stimolante critica di Frasca è che l’ultimo Dick, quello di Valis (ma anche di conseguenza tutta quella vena di ricerca sulla ‘verità’ che attraversa l’intera sua opera) altro non è che la dimostrazione dello spreco di un’esistenza vissuta nella ricerca del motivo del nostro esistere e patire. Un fallimento che si salva in extremis con questo testamento confessione che consente di ribaltare la sentenza su tutto questo lavorio intellettuale rivedendolo come una sorta di antidoto (Ubik), capace di smontare il grande sciocchezzaio delle futili parole e permettendo così di “avere il coraggio di assumere ciò che va assunto, e poi, con altrettanto coraggio, in un’epoca in cui la massiccia dose di informazioni ci arreda costantemente la vita coartandoci al passato ‘narcisistico’, (…) espellere tutto il resto.”4 Ma ora che abbiamo a disposizione l’Esegesi, anche se solo in forma parziale, possiamo renderci conto che la febbricitante ricerca dickiana non termina col testamento di Archer; il sciocchezzaio dei Bouvard et Pécuchet continua, come continua la vita e, forse, quest’ultima continua proprio perché caparbiamente non si vuole accettare di “espellere tutto il resto”. In altri termini: se fosse possibile espellere dalla vita ciò che non serve cosa rimarrebbe?                                                              
“Nel cuore della notte ho avuto un’intuizione straordinaria.”(1240)

Nota 1: Gabriele Frasca, Come rimanere rimasti, in Trasmigrazioni. I mondi di Philip K. Dick, a cura di V. M. De Angelis e U. Rossi, Le Monnier, Firenze 2006 p. 251 (lo stesso testo ampliato in: G. Frasca, L’oscuro scrutare, Meltemi, Roma 2007)
Nota 2: ivi, p. 249
Nota 3: ivi, p.251
Nota 4: ivi, p. 258

Tra sette giorni: Esegesi 13 - Oh Ho, Oh On

giovedì 23 marzo 2017

Verità


“Papageno: -Figlia mia, cosa dovremmo dire ora?-
Pamina: -La verità. Questo diremo.-“
MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? (1966)

“Tu conoscerai la verità, pensò Adams, e grazie ad essa sarai libero.” LA PENULTIMA VERITA’ (1964) 1 Ma forse nella traduzione italiana si sarebbe potuto anche scrivere: “…grazie ad essa non potrai essere assoggettato, reso schiavo.” Essere libero, nel mondo dickiano, è un’affermazione un po’ troppo forte. La verità è qualcosa in sé  pericolosa, che potrebbe portare a effetti molto simili a quelli di una crisi psicotica: “-Hai avuto un episodio psicotico, stanotte?- -Neanche lontanamente. Ho avuto un momento di verità assoluta.” I GIOCATORI DI TITANO (1963). Ma se è chiaro, almeno per chi frequenta spesso la narrativa dickiana, che la verità assoluta (la realtà ultima che sta dietro tutte le cose) non è accessibile se non, appunto, come allucinazione psicotica o visione mistica, la verità, quella più prosaica, quella sulla condizione umana, non è detto che sia meno pericolosa: “La verità! Che cosa voleva dire? Come per un bambino che si arrampicasse sulle ginocchia di un Babbo natale in un grande magazzino, sapere la verità sarebbe stato come piombare a terra stecchiti. Era questo che volevo?” L’ANDROIDE ABRAMO LINCOLN (1962); “Pensavo che un dottore, come un avvocato o un prete, potesse superare lo shock di vedere la vita così com’è: pensavo che la verità fosse il suo pane quotidiano.” ILLUSIONE DI POTERE (1963); e ancora: “-È strano- disse Juliana. –Non avrei mai pensato che la verità la facesse arrabbiare.- La verità, si disse. Terribile come la morte. Ma più difficile da trovare.” LA SVASTICA SUL SOLE (1961). E anche quando si prova a prendere delle contromisure, a governare le pretese della verità, il risultato non può che essere sconcertante: “-Jones può benissimo dissentire. Può credere a quello che vuole; può credere che la terra è piatta, che Dio è una cipolla, che i bambini nascono nelle buste di plastica. Può avere l’opinione che preferisce; ma quando comincia a spacciarla per Verità Assoluta….- -lo sbattete in prigione- disse Nina rigida. –No- la corresse Cussick. –Tendiamo la mano, diciamo semplicemente: dimostra o stai zitto. Conforta i fatti quello che vai dicendo. Se vuoi dire che gli ebrei sono la radice di tutti i mali – devi provarlo. Lo puoi dire, se riesci a dimostrarlo. Altrimenti, fila ai lavori forzati.-“ E JONES CREO’ IL MONDO (1954). La verità è in effetti una materia difficile da trattare e alle volte è meglio preferirle delle rassicuranti menzogne: “-Ma certo,- Jason provò un moto di simpatia. La verità. Aveva spesso riflettuto, è sopravalutata come virtù. Nella maggioranza dei casi, una bugia comprensiva ottiene risultati migliori ed è più misericordiosa.” SCORRETE LACRIME, DISSE IL POLIZIOTTO (1970). Ma Dick è sempre pronto a ripensarci e in uno dei suoi ultimi romanzi  DIVINA INVASIONE (1980) ribalta nuovamente la questione: “-La grigia verità è meglio del sogno- disse lui. –E anche questa è verità. La verità ultima, definitiva, è che la verità è meglio anche della più pietosa delle menzogne. Non mi fido di questo mondo perché è troppo dolce.”

Nota 1: La precedente traduzione dell’Editrice Nord di Mauro Cesari (per gentile concessione della casa editrice La Tribuna, Piacenza) ha questa diversa versione: “Conoscerai la verità, pensò Adams, e la verità ti renderà schiavo.”  Maurizio Nati ripristina la traduzione corretta di “Yes hall know the truth, Adams thought, and  by this thou shalt enslave.” 

lunedì 20 marzo 2017

ESEGESI 11 - Sul bordo

disegno di Marisa Bello

“Sì, sono sul bordo della realtà;
livello dopo livello, ognuno più
ontologicamente reale del precedente,
e poi… il nulla. Il vuoto.
Solo un debole vento che smuove la realtà,
che la strattona.
E magari un luccichio di colore,
per un attimo.(866)

“Nelle storie di Dick, fra tutta l’angoscia per gli universi che si disintegrano e la realtà instabile, c’è sempre la sensazione di una realtà ultima nascosta sotto la contraffazione.”(130 nota)  Gabriel Mckee, l’autore di questa nota porta come esempio della fede in un assoluto da parte di Dick le figure di Ubik, di Colui che Cammina sulla Terra1 e di Wibur Mercer2. “Contrariamente alle apparenze qualcosa è davvero reale” e questo collocherebbe, in definitiva, Dick “nella tradizione dei mistici apofatici3 come Meister Eckart o l’anonimo autore di La nube della non conoscenza4.” Ora, se non c’è dubbio che Dick parli spesso di una realtà altra, che sta dietro, nascosta, è altrettanto vero che questa realtà ultima viene sottoposta dallo stesso Dick a un tale spingi e tira che alla fine il tirare, al contrario della realtà che viene tirata, risulta essere l’unica vera realtà. “Heidegger dice: ‘perché c’è qualcosa invece del nulla?’ Al che chiedo: ‘perché Heidegger pensa che ci sia qualcosa invece di nulla?’ Il tirare è reale e il campo della realtà che viene tirato non lo è. Così che ciò che è genuinamente reale viene indicato dal suo effetto sul ‘campo della realtà’ (che non è reale), ma che cos’è che tira io non ne ho idea.”(890) Allora su quale bordo di realtà si situa Dick e che tipo di fessura è quella che si è prodotta dall’esperienza del 2.3.74? Una fessura da cui guardare la realtà, quella vera, ultima come suggerisce Mckee, o quella che affaccia al baratro della follia di una realtà non più condivisa,  o ancora qualcosa di altro? Qualcosa d’altro che sia più simile allo sguardo del genealogista foucaultiano che a quello del mistico; uno sguardo che si apra alla consapevolezza che “il mondo  non è una rappresentazione che consenta di mascherare una realtà più vera e nascosta dietro le quinte. Il mondo è così come esso appare.”5 Dick confessa che ha “dovuto sviluppare un amore per il disordine e la confusione, vedendo la realtà come un grande enigma da fronteggiare gioiosamente, non con la paura ma con infaticabile fascinazione. Quello che serviva di più era la messa a prova della realtà, e la disponibilità ad affrontare l’esperienza che si autonega: ovvero le autentiche contraddizioni, con qualcosa che è allo stesso tempo vero e non vero.”(738) Cioè qualcosa che si può indagare ma che non può avere nessuna pretesa di autenticità, men che meno rimandabile a una qualsivoglia autenticità dietro le quinte. La realtà del chiosco di bibite in ‘Tempo fuori di sesto’ si dissolve lasciando al suo posto un foglietto con su scritto chiosco di bibite, non aprendo un varco verso una qualche alterità. Banalmente rimane un nome, una nominazione. Un’illusione non nasconde altro che se stessa, ma il rapporto di questa con noi stessi è tutt’altro che illusorio: “tutto quello che bisogna fare è credere totalmente che lo schema ‘X’ esiste e se ‘X’ è potenzialmente reale passerà per autentico. Questo richiede una relazione spingi-tira fra la persona e la realtà. Non può, diciamo far nascere una fenice azzurra ex nihilo; la persona deve entrare in un progressivo, intricato dialogo con la realtà in cui c’è risposta fra entrambe le parti. (questo presume capacità di sentire, volontà e intenzionalità nella realtà). È richiesta  la messa alla prova della realtà, non la sua assenza. Sta soppesando le sue parti flessibili più morbide, dove cederà, quanto e in qual modo.”(739-740) Possiamo anche considerarla illusione ma è un’illusione i cui effetti non possono essere che reali.

Nota 1: Labirinto di morte (1968)
Nota 2: Ma gli androidi sognano le pecore elettriche? (1966)
Nota 3: pervenire alla conoscenza di Dio tramite  negazioni: Dio non è…   http://www.treccani.it/enciclopedia/apofatico/ 
Nota 4: The Cloude of Unknowyng) è una guida spirituale pratica scritta nel XIV secolo da un anonimo inglese. Il testo è scaricabile qui: http://gianluca05.altervista.org/alterpages/files/nubenonconoscenza.pdf 

Nota 5: H. L. Dreyfus – P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, La casa Husher, Firenze, 2010, p.166

Tra 7 giorni: Esegesi 12 - Nel cuore della notte

giovedì 16 marzo 2017

Paranoia


“Ben presto sono cominciate a succedere  
cose impossibili; mi sono ritrovato in quel
tipo di universo metastatizzante di
plastilina in cui scrivo…”              
(Esegesi)1                                                                 

“-Paranoia- mormorò il dottor Sign. –La sensazione di essere guardati.-“ IN SENSO INVERSO (1965).

Se scrivere può aiutare a mettere nero su bianco le proprie paranoie, strutturandole in una materia narrativa che aiuta a distanziarsene, nel caso di Dick potrebbe sembrare al contrario che questa stessa narrazione, divenendo autonoma, si sia impossessata del proprio creatore:  “Una psicosi paranoica. Immaginare di essere il centro di un enorme sforzo collettivo di milioni di uomini e donne, che richiede miliardi di dollari e un lavoro infinito… Un universo che orbita intorno a me. Ogni molecola si muove pensando a me. Un’irradiazione di importanza che arriva… fino alle stelle. Ragle Gum. Oggetto dell’intero processo cosmico, dal principio fino all’entropia finale. Tutta la materia e lo spirito, fatti per ruotare intorno a me.” TEMPO FUORI DI SESTO (1958). In realtà Dick si compiace di far coesistere la propria immaginazione fertile di idee sempre nuove con le proprie (e altrui) ossessioni, ma sa padroneggiare entrambe non perdendo mai la coerenza interna del racconto, anche del più assurdo, e, al contempo, riuscendo a vivisezionare l’esperienza paranoide: “È la mia casa. Nessuno mi ci metterà mai fuori. Quali che siano le ragioni per per cui vorrebbero o vogliono farlo. Supponendo che ci siano dei ‘loro’ che mi stanno osservando. Paranoia. O piuttosto l’’esso’ spersonalizzato, e non ‘loro’. Qualsiasi cosa sia ciò che stanno osservando, non è umano. Non secondo il mio metro, almeno. Non ciò che io riconoscerei come umano.” SCRUTARE NEL BUIO (1973). Una sensazione, nell’essere osservati, guardati, che si può trovare fin dalle prime opere di Dick: “-C’è qualcuno, qui, che conosce ogni cosa. Il perché e il percome. Qualcosa che mi sfugge. Qualcosa di ominoso e alieno. E voi ve ne state seduti a trastullarvi.-“ LA CITTA’ SOSTITUITA (1953). E ancora, sempre nella prima produzione dickiana, nel racconto NON-O del 1958: “-Hanno sempre classificato la paranoia come malattia mentale. Ma non lo è! Non c’è una mancanza di contatto con la realtà. Al contrario, il paranoide ha un rapporto diretto con la realtà. È un empirista perfetto. Non contaminato da inibizioni etiche e morali-culturali. Il paranoide vede le cose  come realmente sono. In effetti, è l’unico individuo sano di mente.” E a proposito del racconto COLONIA del 1953 lo stesso Dick  in una nota pubblicata in occasione della ristampa del racconto, in un’antologia del 1976, scrive: “L’apoteosi della paranoia non è quando tutti sono contro di te, ma quando tutto è contro te. Non ‘il mio capo sta complottando ai miei danni’ ma ‘il telefono del mio capo sta complottando ai miei danni.’ A volte, gli oggetti sembrano possedere una volontà loro anche per una mente normale; non fanno quello che dovrebbero fare, ci si mettono fra i piedi, dimostrando una resistenza innaturale ai cambiamenti. In questa storia ho cercato di immaginare una situazione capace di spiegare in maniera razionale il bieco complotto degli oggetti contro gli esseri umani, senza allusioni a malattie mentali degli esseri umani.”


Nota 1: Philip K. Dick, Esegesi, Fanucci, Roma, 2015, p.686

lunedì 13 marzo 2017

ESEGESI 10 - Apologia Pro Vita Mia


Il 2 dicembre 1980, quando Philip K. Dick scrisse la parola FINE alla sua Esegesi ( fine solo provvisoria perché subito dopo, come se nulla fosse, continuò ad accumulare nuovamente pagine su pagine) scrisse su un foglio apposito il titolo che doveva avere tutta quella sua enorme fatica: “La Dialettica. Dio contro Satana & la Vittoria Finale di Dio prevista e narrata. Philip K. Dick. Un’Esegesi. Apologia Pro Vita Mia.”1 Richard Doyle nella postfazione all’Esegesi colloca questa insieme a Ibn Arabi e ai Misteri “a pieno diritto in quella che Aldous Huxley chiamò ‘la filosofia perenne’: le tradizioni contemplative al cuore di tutte le religioni del mondo.” Quella tale filosofia “che spiegherebbe e raccoglierebbe subito i frammenti di verità sparpagliati in tutti i sistemi apparentemente più incongrui”(1244)  e avrebbe di conseguenza il compito di “dissolvere il sé ordinario allo scopo di potere avere un barlume della realtà.”(1245) Ma come per le grandi tradizioni misteriche “ci si allena alle illuminazioni di queste tradizioni con l’intensità e la caparbietà di un pugile non più giovane che si prepara al combattimento” e per Dick l’obiettivo è “cercare di mettere in atto ciò che Lethem e Jackson2 chiamano ‘la mente che scruta sé stessa’. (…) Attraverso la pratica dello scrivere migliaia di pagine, P.K.D. è riuscito a dissolversi periodicamente nel linguaggio… quello che lui chiama il Logos. Il termine greco per ‘discorso’ e ‘ragione’. Il processo rivela una qualità ‘estatica’, simile all’unione col divino dei dervisci sufi che danzano fino a non ricordare più la differenza fra sé stessi e la danza.”(1245) Doyle finisce assimilando la pratica di scrittura di Dick alla pratica sciamanica; invece di “bacchette, sonagli e altri strumenti (…) gli effetti stessi delle parole”. Recitare o cantare l’Esegesi il cui “tema è: la conoscenza totale è possibile solo attraverso la paradossale accettazione del mistero totale, una cancellazione di tutto ciò che crediamo di conoscere.”(1246) E infine “in verità P.K.D. scrive in estasi… è ‘fuori di sé’ quando nell’Esegesi esterna le su esperienze nella scrittura e le contempla scrivendo, una mente che scruta sé stessa.”(1247) Siamo molto lontani da un kit di strumenti preconfezionati pronti per l’uso di una possibile nuova religione nascente? Il filosofo Antonio Lucci osserva al proposito che: “in un mondo profondamente segnato dalle ricorrenze calendaristiche cristiane, pur nella sua frazione secolarizzata, il mese di Febbraio del 1974 rappresenta il possibile anno zero di una particolarissima religione cosmica alternativa, con un testo sacro, la Exegesis, un profeta, Philip K. Dick, una serie di testi divulgativi – di vangeli -, i romanzi che compongono la trilogia di VALIS (sigla per Vaste Active Living Intelligence System, il nome che Dick diede all’entità che secondo lui si era messa in contatto von la sua mente)… e un solo fedele, lo stesso Dick.”3 Finendo però col constatarne l’impossibilità, come nuova religione nascente, in quanto si esprimerebbe in “un linguaggio non più comprensibile, una lingua antica” inaccessibile al lettore contemporaneo. Insomma: efficace o non efficace Kit del religioso? In realtà il linguaggio dickiano ci può apparire ancora ‘antico’ semplicemente perché rimescola saperi antichi, ma forse non ci si è resi ben conto che l’amalgama è affatto nuovo. Dick bypassando il fatto che “l’umanità è stanca di conoscere; vuol credere”4 (leit-motive che dimostra paradossalmente sempre più forza col progredire tecnico-scientifico) incide direttamente i nostri bisogni di certezze affrontandoli nella disperata, ma anche gioiosa, a ben vedere, ricerca del precario equilibrio tra una conferma del nostro esistere e la consapevolezza della sua illusione. Non c’è possibilità in questo di costruzione di una neo religione ma c’è tutto il religioso di cui, ad esempio, uno come Wittgenstein considerava implicite le proprie ‘Ricerche filosofiche’.5

Nota 1: Lawrence Sutin, Divine invasioni, Fanucci Roma 2001 p. 304
Nota 2: i curatori dell’Esegesi
Nota 3: Antonio Lucci, L’Esegesi: il vangelo secondo Philip K. Dick. http://www.doppiozero.com/materiali/recensioni/lesegesi-il-vangelo-secondo-philip-k-dick 
Nota 4: Vittorio Macchioro, Zagreus, Mimesis, Milano 2015, p. 519.

Nota 5: “alla pur giusta affermazione che Wittgenstein non fu un uomo religioso, potrebbe fare da contrappeso il fatto che le sue riflessioni su se stesso e sull’umanità, e addirittura sullo scopo del suo intenso lavoro filosofico, erano compenetrate di pensieri e sentimenti di carattere religioso.” Norman Malcolm, Ludwig Wittgenstein, Bompiani, Milano, 1988, p. 117. 

Tra 7 giorni Esegesi 11 - Sul bordo

lunedì 6 marzo 2017

ESEGESI 9 - Stasi


Scrive Lawrence Sutin nella biografia su Dick ‘Divine invasioni’: “dei suoi anni alle superiori è sopravvissuto un racconto di fantascienza (…) ‘Stability’1 (Stabilità). Tratteggia una distopia post-venticinquesimo secolo retta dal principio soffocante della ‘stabilizzazione’, che non permette cambiamenti politici o tecnologici. Analoghe distopie statiche sarebbero comparse in due suoi romanzi di fantascienza degli anni Cinquanta: The World Jones Made2 (E Jones creò il mondo) e The Man Who Japed (Redenzione immorale).”3 Poi sembra che Dick abbandoni per sempre questo tipo di distopie troppo consuete e consumate nella SF tradizionale, ma in realtà della stasi e del suo necessario superamento sono intessute le trame di molti altri suoi romanzi. Il governo dello status quo viene rappresentato in modi più variegati e sofisticati ma l’idea di un sistema in equilibrio che non permette trasformazioni sostanziali è sempre presente. Cos’altro sono i due sistemi di spionaggio e controspionaggio che governano in modo perfettamente simmetrico il gelido mondo di Ubik? Ma quello che demarca una linea di confine tra i primissimi romanzi citati da Sutin e i via via più maturi che seguono possiamo cercare di capirlo proprio da alcune annotazioni che si trovano nell’Esegesi: “Che ci piaccia o no, il marchio di garanzia del reale è l’inflizione e dunque l’esperienza del dolore… fisico e mentale: poiché per far sì che si verifichi l’attività (il cambiamento) nell’organismo totale, la sua ‘respirazione’… dev’esserci un incessante (e intendo davvero incessante) smantellamento di ogni forma (o stasi) per far posto alla stasi successiva.”(432)  Cioè ne va proprio della realtà. Non è solo una questione di distopia, della dittatura di una utopia realizzata che si trasforma nel suo contrario, un potere che, per dirla con Foucault, si trasforma in dominio.4 Per Dick, scrittore filosofo, il mondo necessita sì di raggiungere una stasi ma solo a patto che questa possa essere nuovamente distrutta per far posto a quella successiva. È la concezione di una stasi che contiene in sé l’idea di un conflitto permanente, un “disordine” che “è sempre sottostante – come una costante – non prima dell’ordine, ma ‘sotto’ di esso.”(443)  Conflitto come unica possibilità per produrre il cambiamento, quel cambiamento che è costitutivo della vita, a cui noi, come singole parti, apparteniamo. La stasi allora non è assenza di tensioni ma al contrario ciò che le rende possibili. 

Nota 1: Stabilità, pubblicato in Tutti i racconti vol. 1 Fanucci
Nota 2: Ma qui la stabilità è vista come l’interdizione di qualunque dogmatismo tramite, paradossalmente, un dogmatico relativismo che si impone come legge dello Stato sopra ogni pretesa di verità assoluta.
Nota 3: Lawrence Sutin, Divine invasioni, Fanucci Roma 2001 p. 66
Nota 4: cioè da potere di relazione si trasforma in potere di costrizione.

Tra 7 giorni Esegesi 10 – Apologia pro vita mia