Non di tutto ciò che
percepiamo come esperienza possiamo essere certi che lo sia realmente e non
solo illusoriamente vissuta come tale. “ciò
che vedi non è il mondo, ma una rappresentazione che si forma nella tua mente,
creata dalla tua mente. Conosci solo per fede tutto ciò di cui hai esperienza.
Ed è anche possibile che tu stia sognando.” E ancora più drasticamente: “Camminando, mi resi conto che ero io, in un
senso molto reale, a creare il mondo di cui avevo esperienza. Creavo il mondo,
e al tempo stesso lo percepivo.” LA
TRASMIGRAZIONE DI TIMOTHY ARCHER (1981). Ma se l’esperienza più immediata
non ci garantisce della sua buona fede, proprio quella più allucinatoria
potrebbe per contro essere rivelatrice di un barlume di verità: “Quello che avevo visto nel marzo del 1974
quando avevo percepito la sovrapposizione dell’antica Roma e della moderna
California consisteva in esperienza reale di ciò che avviene normalmente visto
soltanto dall’occhio interiore della fede.” VALIS (1978). Decisivo rimane però saper distinguere tra quellE che
potremmo definire “buone” e “cattive” allucinazioni. Le prime sono rivelazioni,
aperture a una coscienza più profonda della realtà (quelle tipiche dei mistici
o di alcuni artisti per intenderci), le seconde appartengono alla follia e alla
psicosi. “l’arresto del tempo. La fine
dell’esperienza, di ogni cosa nuova. Quando la persona diventa psicotica, non
le accade più niente.” NOI MARZIANI (1962).
Difficile comunque rimane chiarire cosa sia un’esperienza autentica, suscettibile
ad aprirsi alla realtà vera: “Nessuna
parola va bene. È questo il punto: non può essere descritto. Bisogna provarlo.”
I SEGUACI DI MERCER racconto del
1964. E per noi comuni mortali, privi di esperienze assolute? C’è sempre la
possibilità dell’esperienza del soffrire: “soffrire
è morire ed essere vivi allo stesso tempo. L’esperienza più assoluta, più
totale che si possa trovare.” SCORRETE
LACRIME, DISSE IL POLIZIOTTO (1970).
martedì 27 settembre 2016
martedì 20 settembre 2016
Divinazione
La divinazione, in
particolare nella consultazione del libro dell’ I Ching, è protagonista
indiscussa del romanzo L’UOMO DELL’ALTO
CASTELLO (LA SVASTICA SUL SOLE) (1961). Quel “libro creato dai saggi della Cina durante un periodo di cinquemila
anni, vagliato e perfezionato; quella cosmologia – e quella scienza – superba,
codificata prima ancora che l’Europa avesse imparato a fare le divisioni.” In
mancanza di questo testo specificatamente divinatorio ci si può arrangiare con
una classica Bibbia, come in SENSO
INVERSO (1965) “trovò una Bibbia di
Gideon, -Potrei leggere questa- disse lei, sedendosi di nuovo. –Formulerò una
domanda e poi l’aprirò a caso; si può usare la Bibbia in questo modo. Io lo
faccio sempre.”- Due sono gli
aspetti importanti da sottolineare qui: il primo è quello del caso ; l’apertura
a caso di un libro sacro, che sia l’I Ching, la Bibbia o il libro di
Specktowsky, come in LABIRINTO DI MORTE
(1968) è “un metodo caldamente
raccomandato”; e il secondo è la
negazione, il rifiuto a rispondere a domande che l’oracolo o la divinità, come
succede in VALIS (1978), ritiene
prive di significato. “Sei Valis? –
chiesi. Sophia disse: - Sono quello che sono -. Voltandomi verso Eric e Linda,
dissi: - Non risponde sempre -. Alcune domande sono prive di significato –
disse Linda.” Caso da parte dell’interrogante e capriccio da quello
dell’interrogato; il futuro evocato si dispiega ai nostri occhi in un intreccio
che ingarbuglia ancor più la già complicata trama del nostro vivere. Ma il
mondo di Dick dispone di altri mezzi per scrutare il futuro: una numerosa
schiera di precog che incarnando il potere della preveggenza rendono di fatto
obsoleti libri e oracoli.
martedì 13 settembre 2016
Guerra
“Dal fondo della sua opera
Dick non cessa di ripetere un unico enunciato: ‘La guerra. Sempre la guerra’ (Tony and the Beetles, TONY E I COLEOTTERI, 1953). Non ha
avuto inizio, non ha data di nascita, non ha un’origine definita che permetta
di identificarne i motivi: ‘Non c’è stato
un momento preciso in cui è cominciata’ (Breakfast at Twilight, COLAZIONE AL CREPUSCOLO, 1954). (…) La
guerra, al di là della sua fenomenologia, rimane per Dick la ‘sola vera catastrofe’ (MUTAZIONI p. 89) che ci abbia mai riguardato;
più che risolversi in un esercizio descrittivo, questo dato deve essere assunto
come orizzonte ideale del nostro mondo, bisogna cioè ‘dare la catastrofe per avvenuta e partire da lì’ (ibid). Nell’universo
di Dick si è nello stesso tempo guerriglieri e reduci.”1 Sull’onnipervasività
della guerra nell’opera di Dick concorda anche la voce GUERRA di Antonio
Caronia nell’Enciclopedia dickiana: “Con gli anni Settanta generali, battaglie,
astronavi e missili scompaiono dalle opere di Dick. Non scompare la guerra in
quanto tale, che però si allarga, acquista respiro, cambia natura, attori,
scenari e finalità.”2 Non ci resta che prendere atto della totale
sovrapponibilità tra i romanzi e i racconti di Dick e la guerra; tanto che la possibilità stessa
di eliminare la guerra una volta per tutte deve passare necessariamente
attraverso una replica perfetta, simile fin nei minimi dettagli, della guerra
stessa: “proponiamo al presidente
Mendoza, là nel Campidoglio della nostra nazione, di abolire la guerra e di sostituirla
con un centenario della Guerra Civile che copra un arco di dieci anni, e in
seguito noi, la fabbrica Rosen, forniremo tutti i partecipanti, i simulacri –
anche se il termine corretto sarebbe simulacra, perché è una specie di parola
latina – di chiunque. Lincoln, Stanton, Jefferon Davis, Robert E. Lee,
Longstreet, e circa tre milioni di modelli più semplici da usare come soldati,
che terremo sempre disponibili in magazzino. E avremo battaglie combattute sul
serio, con i partecipanti uccisi veramente, questi simulacri su ordinazione
fatti a pezzi, invece di una specie di film di serie B interpretato da
ragazzini del College che recitano Shakespeare. Capisci il mio punto? Ti rendi
conto delle possibilità che offre?” L’ANDROIDE
ABRAMO LINCOLN (1962).
- Fabrizio Denunzio, Pieghe del tempo. I film di guerra e di fantascienza da Philip K. Dick a Matrix. Editori Riuniti, Roma, 2002. pp. 46-47.
http://www.agenziax.it/wp-content/uploads/2013/03/philip-k-dick.pdf
martedì 6 settembre 2016
Empatia
Il romanzo dickiano dove il
concetto di empatia la fa da padrone è indubbiamente MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? (1966). Parlando
dell’empatia in Aby Warburg1 Georges Didi-Huberman2 la
definisce come quel processo “in cui le forme inorganiche sono incorporate a
forme organiche, in cui la ‘vita’ è proiettata sulla ‘cosa’.”
“L’incorporazione, agli occhi di Warburg, si presenta come una sorta di ‘fatto
psichico totale’ – un processo tanto potente da essere capace, per
‘appropriazione’ della cosa, di costruire l’identità, il ‘sentimento dell’io’,
ma anche di distruggerlo attraverso la ‘perdita del soggetto nell’oggetto’.
Qui, dunque, trovarsi non esclude che ci si smarrisca.” Ed è proprio in questo
trovarsi per smarrirsi che è imperniato l’intero romanzo. Rick Deckard, il
cacciatore d’androidi, è l’unico che alla fine ritroverà se stesso, dopo quella
lunga giornata in cui da cacciatore diverrà preda, preda soprattutto di se
stesso, della propria disumanità, del proprio io divenuto macchina, essenza
macchinica. E ritrovare se stesso significherà potersi smarrire in una nuova
esistenza in cui il possibile sostituisce il certo, l’inevitabile. “Non ci aveva mai pensato prima, non aveva
mai provato empatia personale nei confronti degli androidi che aveva ucciso.
Era sempre stato sicuro che la sua psiche avrebbe continuato a considerare gli
androidi come macchine molto evolute – al pari della sua coscienza. Eppure, al
contrario di Phil Resch, ora si era
manifestata una differenza. E istintivamente sentiva di aver ragione. Empatia
verso una struttura artificiale? Si chiese.”
1. per la biografia dello storico della cultura Aby Warburg qui
2. G. Didi-Huberman, L'immagine insepolta. Torino, Bollati Boringhieri, 2006 p. 360
1. per la biografia dello storico della cultura Aby Warburg qui
2. G. Didi-Huberman, L'immagine insepolta. Torino, Bollati Boringhieri, 2006 p. 360
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