“Diciamo
che io sono ispirato a scrivere quello che scrivo da un’entità creativa al di
fuori della mia personalità cosciente. (…) Non c’è dubbio che in tutta
franchezza io non scrivo i miei romanzi nel vero senso della parola: essi
provengono da qualche parte di me che non sono io.”(48-9)
Questa distanza dell’autore dalla propria opera, al di là dell’abusata posa
comune a tanti artisti, in Dick si colora di un’indicazione su una presunta
provenienza in ‘qualche parte di me che non sono io’. In un altro momento
riflettendo ancora sul rapporto con la propria opera sente “di essere stato molte persone differenti. Molte persone sono state
sedute davanti a questa macchina da scrivere, usando le mie dita. Scrivendo i
miei libri.” E estremizzando, prosegue dicendo che: “I miei libri sono falsificazioni. Nessuno li ha scritti. È stata la
dannata macchina da scrivere, è una macchina da scrivere magica. O come John
Denver trova le sue canzoni: li prendo dall’aria. Come le sue canzoni, i miei libri
sono già lì. Qualsiasi cosa voglia dire.”(62) Non è questo solo un problema di “dissolvenza dell’autore, disseminazione
dell’opera, emergenza della collettività all’interno di una operatività
artistica diffusa”1 non si tratta qui del confronto tra l’individuo
e la collettività dal punto di vista del campo del fare artistico (se mai
all’interno del passaggio dalla modernità alla postmodernità); qui entra in
ballo il discorso sull’io, e su quell’io gonfiato da quella pretesa del dire
autentico, originale. Non solo quel prendere da un humus creativo diffuso, (cosa
del resto riconosciuta normale, per chi è onesto, nel fare artistico), qui si
parla di ‘falsificazioni’, di macchine da scrivere che magicamente producono
dal nulla. Michel Foucault incidendo in profondità il bisturi nella presunta
materialità dell’autore ci dice che: “L’autore
– o ciò che ho provato a descrivere come la funzione-autore – è probabilmente
soltanto una delle specificazioni possibili della funzione-soggetto.
Specificazione possibile o necessaria? Guardando le modificazioni storiche che
si sono succedute, non sembra indispensabile, assolutamente, che la
funzione-autore rimanga costante nella sua forma, nella sua complessità e
finanche nella sua esistenza. Si può immaginare una cultura dove i discorsi
circolerebbero e sarebbero ricevuti senza che la funzione-autore apparisse mai.
Tutti i discorsi, qualunque sia il loro statuto, la loro forma, il loro valore
e qualunque sia il trattamento che si fa loro subire, si svolgerebbero
nell’anonimato del mormorio.” Potremmo
immaginarci a questo punto gli
ottomila fogli dell’Esegesi non più salvati dalla solerzia dell’amico Paul
Williams ma lasciati all’incuria, e sparpagliati, circolare per varie mani non
innocenti, saccheggiati e manipolati fino a diventare una seria disputa tra
appassionati e critici sulle presunte autenticità. “E dietro a tutte queste domande non si capterebbe altro che il rumore
di un’indifferenza: ‘Cosa importa chi parla?’”2 Dick, questo
‘Hemingway della sub-cultura’3 potrebbe dire che chi parla è Valis e forse
Foucault l’avrebbe trovata una risposta persuasiva.
Nota 1: Antonio Caronia, Reti e comunità. Oltre
l’autore
Nota 2: Michel Foucault, Che cos’è un autore?, in Scritti
letterari, Feltrinelli, Saggi UE 2010, p. 21
Nota 3: Lawrence Sutin, Divine invasioni, Fanucci, Roma 2001, p.256
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febbraio: Esegesi 8 – Attraverso gli occhi dell’altro
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