“…soffrire
è morire ed essere vivi allo stesso tempo. L’esperienza più assoluta, più
totale che si possa provare. La forza. A volte giurerei che non siamo stati
creati per superare un ostacolo simile. È troppo. Il corpo arriva quasi a
distruggersi, con tutti quei sussulti, quelle contorsioni. Ma io voglio provare
dolore. Versare lacrime.”
Scorrete mie lacrime, dalla vostra fonte sgorgate!
Per sempre esiliato, lasciatemi gemere;
dove il nero uccello della notte
la triste infamia di lei canta,
lì lasciatemi vivere sconsolato.
“Scorrete,
mie lacrime – pensò. – Il primo brano di musica astratta mai scritto. John
Dowland nel suo secondo libro di composizioni per liuto, nel 1600. Lo ascolterò
sul mio nuovo impianto quadrifonico, appena sarò a casa. Così potrà ricordarmi
Alys e tutti gli altri. E ci saranno una sinfonia e un fuoco e tutto sarà
calore.” SCORRETE
LACRIME, DISSE IL POLIZIOTTO (1970). Sentirsi morire ed essere vivi, e forse sentirsi vivi proprio
nel sentirsi morire. Le lacrime dickiane, che compariranno ancora come lacrime
di androidi (MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE
PECORE ELETTRICHE? 1966, VALIS
1978) sono il prodotto del lungo percorso della specie umana che dal lamento di
un’angoscia preistorica passando per l’angoscia esistenzialistica borghese
moderna arrivano alla melanconica nostalgia di una umanità diventata incapace
di reinventarsi, ancora una volta, una rassicurante identità ancorata a una natura
squisitamente umana.