Per la generazione del
lavoro precario (e quindi anche dall’esistenza precaria), che caratterizza il
mondo contemporaneo, il vissuto patologico che da ciò scaturisce è fonte di una
incessante sofferenza diffusa. Ma per Franco Berardi Bifo proprio “questa
sofferenza può diventare l’energia da cui ripartire; a cominciare da un’azione
che non è politica ma che è essenzialmente terapeutica.”1 Si
potrebbe proseguire con le parole di un personaggio di un racconto di Dick: “Se solo potessimo soffrire- pensò. –È
questo che ci manca: la vera conoscenza del dolore” e ancora: “La sensazione era dolore assoluto… era
questo che lo atterriva, che lo tratteneva. Era incredibile che la gente
potesse deliberatamente cercarlo, invece di evitarlo. Afferrare quelle maniglie
non era certamente l’atto di una persona che cerca di fuggire. Non era la fuga
da qualcosa, ma la ricerca di qualcosa. E non il dolore come tale; Crofts non
era così ingenuo da credere che i merceriani fossero banali masochisti. Era il
significato del dolore che li attirava. I seguaci di Mercer soffrivano per
qualcosa. A voce alta, disse: -Per loro la sofferenza è un mezzo per negare le
loro esistenze private, personali. È una comunione nella quale tutti soffrono e
sperimentano il martirio di Mercer, tutti insieme.- Come l’Ultima Cena, pensò.
Questa è la chiave: la comunione, la partecipazione che sta alla base di tutte
le religioni. O così dovrebbe essere. La religione lega i fedeli in un corpo
unico, lasciando fuori tutti gli altri.” I SEGUACI DI MERCER (1964)
Un essere che si vuole privo di sofferenza è per Dick un essere che si
vuole chiudere in sé stesso, che non vuole rinunciare a essere sempre identico
a sé stesso. Pervicacemente incatenato alla propria identità. “-Perché il bambino non parla? Spiegamelo.-
-Per sfuggire alla sua terribile visione, lui torna indietro, a giorni più
felici: i giorni passati nel grembo materno, dove non c’è nessun altro, nessun
cambiamento, non c’è il tempo e non c’è la sofferenza. La vita uterina. Si
dirige là, verso l’unica felicità che abbia mai conosciuto, Manfred si rifiuta
di lasciare quel luogo a lui caro.-“ NOI
MARZIANI (1962) Quel “luogo caro” di una corporeità sentita come fortezza
inespugnabile. Abusando ancora di Bifo possiamo concordare con lui che il “rivendicare
il corpo non vuol dire rivendicare l’identità del corpo “ quanto piuttosto
“rivendicarne proprio un divenire l’altro corpo attraverso l’erotismo,
attraverso l’arte, attraverso la terapia, attraverso l’educazione, attraverso
lo scambio culturale…”. La sofferenza è vitale perché fa parte della vita, ci
connette alla vita reale. “Dio mi è
testimone che non volevo soffrire per mano di Pris o di chiunque altro. Ma la
sofferenza era l’indicazione che la realtà restava a portata di mano.” L’ANDROIDE ABRAMO LINCOLN (1962) Ma la
sofferenza è ancora qualcosa che va oltre la realtà, che può riunirci a ciò che
non c’è più, che è andato perduto per sempre: “ma soffrire è morire ed essere vivi allo stesso tempo. L’esperienza
più assoluta, più totale che si possa provare. La forza. A volte giurerei che
non siamo stati creati per superare un ostacolo simile. È troppo. Il corpo
arriva quasi a distruggersi, con tutti quei sussulti, quelle contorsioni. Ma io
voglio provare dolore. Versare lacrime. –Perché? – Jason non riusciva a
capirlo; per lui era una cosa da evitare. Appena cominciava a provarla, se la
dava a gambe. Ruth disse: -La sofferenza ti unisce di nuovo a ciò che hai
perso. È una fusione.” SCORRETE
LACRIME, DISSE IL POLIZIOTTO (1970).
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