martedì 30 settembre 2014

Il cinema di Philip K. Dick


Una  vignetta apparsa sul “New Yorker” negli anni ’20 mostra un ragazzino in compagnia della madre, che sull’atrio di un “palazzo del cinema” chiede: “Mammina. Dio vive qui dentro?”1  Mezzo secolo dopo un romanzo di Philip K. Dick sembra rispondergli: - Si! Dio abita proprio qui. Lo puoi vedere in un film, si chiama “Valis, come Vast Active Living Intelligence System, e trasmette informazioni agli uomini.”2
Il cinema e i romanzi di fantascienza di Philip K. Dick, uno dei rapporti  meno studiati da quella nutrita serie di critici (interni al mondo fantascientifico o provenienti dal mondo accademico) che si sono occupati dell’opera dickiana con un crescendo esponenziale a partire dalla sua scomparsa.
Nella postfazione di Luigi Bruti Liberati a “L’uomo dell’alto castello” si trova una delle poche timide ipotesi di una relazione con il cinema da parte di Dick. Parlando della serie di film di propaganda bellica di Frank Capra “Why we fight” , 1942 (Perché combattiamo) in cui una vittoria possibile delle forze dell’Asse viene drammatizzata spettacolarmente ricorrendo a delle scene animate che fanno vedere l’esercito giapponese sfilare vittorioso per le strade di Washington, Bruti Liberati osserva che: “non è certo se Dick avesse in mente il film di Capra quando concepì l’idea de L’uomo dell’alto castello, ma la sua esperienza degli anni di guerra senza dubbio gli tornò utile. E ipotizzare una sconfitta degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale gli apparve perversamente suggestivo.”3 Difficile pensare altrimenti se si considera che la serie di Capra ebbe un enorme diffusione nel paese (non rimase relegata alla visione delle truppe, come dall’originaria intenzione). Ma Dick non è eventualmente debitore di Capra solo in questo. L’equivoco di una visione critica che relega il cinema di Capra a un’ideologia consolatoria hanno evidentemente contribuito a tener nascosto il debito che romanzi come “Tempo fuori di sesto” e “Scorrete lacrime, disse il poliziotto”, hanno verso il capolavoro di Capra “La vita è meravigliosa” (Wonderful Life , 1946).  Tutta la prima parte della storia di Ragle Gumm nel primo di questi romanzi,  ricalca il tentativo, continuamente frustrato, di George Bailey di riuscire a uscire, a fuggire dalla propria piccola città. Ogni volta che sembra farcela, qualcosa di imprevisto accade ad impedirglielo.
Una situazione paradossale che fa capolino in molti romanzi come ad esempio in “Mr. Lars, sognatore d’armi” in cui il protagonista rimugina proprio questo tipo di ansia: “Siamo ancora nel mondo meraviglioso dove tutti collaborano con tutti, pensò, a meno che non ti capiti di essere l’unico individuo che ha smesso di cooperare e che vorrebbe uscire di scena. Perché non c’è più un’uscita di scena tutte le strade conducono qui.”4 Ma è in “Scorrete lacrime, disse il poliziotto” che l’incubo del protagonista ricalca la celebre scena di George Bailey – James Stewart, quella scena in cui si “prova l’esperienza di non essere mai nato. Lì irrompe improvvisamente il dramma, verrebbe da dire l’horror, la fantascienza, e dalle pieghe della commedia classica hollywoodiana si sprigiona una insopportabile angoscia.”5 La perdita della propria identità, l’incubo dickiano per eccellenza. E così di seguito l’idea del suicidio, l’assillante desiderio, così frequente nei personaggi di Capra e di Dick. E la figura dell’angelo, deve aver talmente colpito Dick che in un’idea per una serie televisiva, poi non realizzata, propone la storia di una piccola ditta di angeli custodi in un grigio e nebbioso paesaggio del paradiso. L’ambientazione “quella di un negozietto vecchio stile, in cui gli impiegati intrattengono rapporti profondamente empatici e formano una piccola amabile e scombinata famiglia”6 così tipica delle opere di Dick, è la più perfetta trasposizione letteraria delle scombinate ditte familiari ad alta empatia che nei film di Capra raggiunge il vertice con “L’eterna illusione” (You can’t take it with you) del 1938. Frank Capra, il piccolo dago italiano che odiava “essere povero, essere un contadino e vivere alla giornata facendo lo strillone” e che cercava a tutti i costi un’occasione che gli permettesse di andarsene da quello “sporco ghetto siciliano di Los Angeles” per essere catapultato “dall’altra parte, dallo squallido anonimato all’agiato mondo di quelli che contano”7 è l’alter ego a cui Philip K. Dick sembra aderire in un modo tanto sconcertante quanto perfettamente coerente. Se l’influenza del cinema su Dick non si ferma al solo Capra, certo è che il peso preponderante spetta proprio a lui. Philip K. Dick nasce nel 1928 alla vigilia del crollo di Wall Street e della Grande Depressione. Gli anni ’30 che lo accompagnarono fino all’adolescenza videro Hollywood prendere “il posto centrale sulla scena culturale e nella coscienza degli Stati Uniti, producendo film di una tale portata e di uno slancio mai visti né in passato né in futuro. Il cinema non servì soltanto a divertire e a intrattenere la nazione durante il più tremendo periodo di disordine economico e sociale che mai avesse attraversato, mantenendola unita, grazie alla sua capacità di creare miti e sogni unificanti, bensì, la cultura cinematografica per molti americani divenne, negli anni ’30,  la cultura dominante, fornitrice di nuovi valori e ideali sociali nuovi, che sostituivano le vecchie tradizioni ormai distrutte. “8 E’ questo il substrato culturale in cui crebbe Dick e che vide tra i suoi maggiori artefici proprio quel regista che unico tra i tanti riuscì a imporre il proprio nome sopra il titolo: Frank Capra. Il suo momento di massimo splendore fu proprio nel 1946, con “La vita è meravigliosa”, anno in cui anche l’industria cinematografica americana raggiunse il proprio culmine con il massimo storico delle presenze di spettatori. Poi il declino, non solo di Frank Capra, ma anche del cinema con la caccia alle streghe e l’avvento della televisione (bersaglio di uno dei primi romanzi di Dick, “Redenzione immorale”).9
E’ il cinema a causare i primi sconvolgimenti all’immaginario in formazione del giovane Dick.  Come racconta Andrea Cortellessa in una recensione all’antologia “I giorni di Perky Pat e altre storie”: “Mentre scriveva il racconto su Perky Pat, a Dick apparve un volto in cielo – Al posto degli occhi aveva delle vuote fessure , era metallico e crudele e, cosa peggiore di tutte, era Dio -. Non erano le anfetamine (quanto meno, da sole non bastavano). C’era un trauma infantile: di ritorno dal cinema, a vedere “Niente di Nuovo sul fronte occidentale”10 , il piccolo Philip era già scosso. Ma suo padre gli si volle mostrare con la maschera antigas riportata dalla Grande Guerra: - il suo volto spariva. Non era più mio padre. Non era più un essere umano. –“11  Ma Dick parla nella stessa antologia anche del terrore suscitato dalla maschera guerriera dell’ “Alexander Nevski” di Eisenstein (1938). E ancora, Sutin nella biografia dickiana “Divine invasioni”12  ricorda  che un altro tipo di turbamento “sconvolse il giovane Phil quando vide per la prima volta “Gli angeli dell’inferno” (1930) con una Jean Harlow in una scena in negligée.
L’intera opera dickiana trasuda cinema, i formicai umani in “La penultima verità” si chiamano Tom Mix, Judy Garland; in “Le tre stimmate di Palmer Eldritch” ci troviamo alla periferia di Marylin Monroe. In “Follia per sette clan” la coppia di protagonisti si spara addosso sdraiata nel fango13 come Gregory Peck e Jennifer Jones in “Duello al sole” e nello stesso romanzo si citano i film: The cat and the canary  del ’39 con Bop Hope, Kind hearts and Corononets del ’49 (Sangue blu) e Arsenico e vecchi merletti di frank Capra. La satira canticchiata dall’ebreo-americano Fink  in “L’uomo dell’alto castello” che prende in giro Herr Kreisleiter, fa eco al lubitschiano colonnello concentrone di “Vogliamo Vivere” (1942). E di seguito fino a citazioni di film più recenti come “L’uomo del banco dei pegni” (1965) in “Guaritore galattico”, “Il braccio violento della legge” (1971), “Easy rider” (1969), “Il pianeta delle scimmie” (1968), in “Oscuro scrutare” o “Patton” (1970 ) in “Valis”.
Il cinema è qualcosa di vivo, che palpita nel cuore di Dick al di là del puro citazionismo. E' un'appropriazione creativa, originale. Wash-35 in “Illusione di potere” nella sua “complessa e laboriosa costruzione, fin nei minimi particolari, di un universo specifico e circoscritto, quello dell’infanzia vissuta da Virgil Ackerman”14  reinventa la Xanadu di “Quarto potere” (1941) di Orson Welles, quell’enorme residenza che raccoglie tutto quello che viene dal passato, compreso lo slittino da neve dell’infanzia di Kane, che racchiude il mistero dell’ultima parola pronunciata in punto di morte, “rosebud”. Vale per Xanadu la stessa analisi che Fredric Jameson ha fatto per Wash-35, “la resurrezione dell’universo dell’infanzia, non è il vero oggetto del desiderio. Quel che Dick desidera è piuttosto l’oggetto perduto in quanto tale, o in altri termini la nostalgia del presente, qualcosa che si può raggiungere solo a patto che il presente venga trasformato in un passato lontano da una prospettiva futura.”15
La vacuità del presente nella sua sempre più incerta distinzione tra verità e falsità, tema centrale tanto in Welles quanto in Dick. Il labirinto di specchi di Welles confluisce nel labirinto di morte di Dick.
E ancora la morte circonda il bambino di “Germania anno zero” (1947) di Rossellini. Edmund, che si suicida tra le rovine degli edifici della Berlino distrutta, rivive nel bambino autistico Manfred in “Noi marziani” che disegna le rovine degli edifici che devono ancora essere costruiti dalla nuova speculazione edilizia su Marte.
E infine è poi così singolare che per definire la nostra condizione umana, Dick voglia dare la parola proprio al più sconcertante personaggio privo di parola della storia del cinema, Harpo Marx?: “La nostra condizione – la condizione umana – in ultima analisi, non è orribile o insensata, bensì ridicola. Come altro la si potrebbe definire? I più saggi sono i clown, come Harpo Marx, che non parlava. Se potessi esprimere un desiderio mi piacerebbe che Dio ascoltasse quello che Harpo non diceva, e che capisse perché Harpo non parlava. Infatti, Harpo sapeva parlare. Solo che non voleva. Forse non c’era niente da dire: tutto era già stato detto. O forse, se avesse parlato, avrebbe rivelato una verità troppo sconvolgente, qualcosa di cui era meglio che rimanesse all’oscuro.”16

1 Robert Sklar, Cinemamerica, Milano, Feltrinelli 1992 pag. 108
2 P. K. Dick, Valis, trad. di Vittorio Curtoni, Milano, Mondadori, 2000, pag. 181
3 Luigi Bruti Liberati postfazione a “L’uomo dell’alto castello”, Roma, Fanucci
4 P. K. Dick, Mr. Lars sognatore d’armi, Roma, trad. di Carlo Pagetti, Roma, Fanucci
5 Vito Zagarrio, Frank Capra, Il castoro cinema n. 112, 1995 pag. 26
6Lawrence Sutin,  Mutazioni, Milano, Feltrinelli1997, pag. 189
7 Frank Capra, Il nome sopra il titolo, Roma, Lucarini 1989   pag. 3
8 Robert Sklar, op. cit. pag. 187
9 “Fra il 1950 e il 1951 i dirigenti delle Major guardarono fuori dalle loro aristocratiche finestre, contarono il numero di antenne in rapida crescita – file e file di croci televisive -, sussultarono, e decisero che non c’era più spazio per il cinema. Imballarono i loro negativi, fecero stimare le loro proprietà immobili e liquidarono i contratti con le star. Hollywood abdicava davanti alla scatola idiota. “ Frank Capra, op. cit. pag. 528
10 “All’ovest niente di nuovo” di Milestone, 1930
11 Andrea Cortellessa, Non uscite fuori dai miei incubi, Alias, suppl. a Il Manifesto 22.3.2003
12 Lawrence Sutin, Divine invasioni, Roma Fanucci 2001,  pag. 47
13  “Forse un giorno quando sarà tutto passato potrò guardarmi indietro e vedere cosa avrei dovuto fare per evitare tutto questo, io e Mary acquattati nel fango che ci spariamo a vicenda.” P. K. Dick, Follia per sette clan, trad. di Paola Prezzavento, Roma, Fanucci
14 Fredric Jameson, Storia e salvezza in Philip K. Dick, in Trasmigrazioni, i mondi di Philip K. Dick, a cura di V. M. De Angelis e U. Rossi, Le Monnier, Firenze 2006, pag. 23
15 ibidem, pag. 31

16 Lawrence Sutin, Mutazioni, op. cit. pag.120

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