Philip K.
Dick nella costruzione di questo ennesimo mondo da incubo, ce lo descrive
popolato da una umanità priva di fede per una qualunque divinità tranne per
quella estremamente terrena della sacralità della vita e dominata da una
tecnica estremamente sviluppata al servizio del prolungamento possibile della
vita e al soddisfacimento dei suoi bisogni e desideri necessari alla sua
riproduzione. All’interno di questo mondo siffatto due sono le forze che
sembrano contendersi il potere: l’associazione di Glen Runciter, che viene
definito “un poliziotto a guardia dell’intimità umana” e che lo stesso
avversario Hollis giudica come uno che sta “cercando di far girare le lancette
dell’orologio all’indietro”. La Runciter Associates è di fatto
un’agenzia prudenziale che contrasta un avversario che evidentemente prudente
non è. Un avversario il cui compito è quello di spiare, penetrare la mente e il
possibile futuro delle persone. Al di là degli intenti diversi che perseguono,
i due avversari sembrano per il resto molto simili. Hanno come prima
motivazione il profitto e diffidano di chi ha altre motivazioni nel perseguire
i propri obiettivi. La descrizione, psicologica di Runciter “ridacchiò,
ma il suo riso aveva una qualità astratta; sorrideva e rideva sempre, la sua voce
tuonava, ma dentro di sé non faceva caso a nessuno, non se ne interessava. Era
il suo corpo che sorrideva, annuiva e stringeva mani. Non toccava la sua mente,
che restava lontana” e fisica di Hollis un viso cupo e bluastro, con gli
occhi infossati, venne lentamente a galla sullo schermo, una misteriosa
apparizione fluttuante priva di collo e di corpo” 1 li
accomuna inoltre in una identica glaciale freddezza meccanica. E se
assegnassimo al ruolo di Hollis la funzione di un potere tendente al controllo
della vita nelle sue singole componenti umane (spiandone le menti e
pianificando coercitivamente il loro futuro), quella di Runciter si
qualificherebbe come il bisogno di governare questo processo, più che
combatterlo (Runciter stesso si avvale di telepati e precog per i suoi
bisogni). Un’azione di prudenza nei confronti di un processo che di fatto non
può essere fermato, così come non si possono far girare all’indietro le
lancette dell’orologio.
Ubik è un
romanzo scritto nel 1966 e ambientato nel 1992 come l’altro romanzo coevo “Ma
gli androidi sognano le pecore elettriche?” anch’esso ambientato nell’allora
relativamente lontano 1992. E’ uno dei romanzi di Dick su cui la critica si è
più dibattuta e più divisa. Unanime è stato comunque il considerarlo una delle
opere maggiori. Ma cosa cela dietro di se l’immagine di Ubik? Un problema
filosofico2, la quintessenza della merce, una sostanza divina, la
sostanza sfuggente della letteratura (nelle tre ipotesi formulate da Carlo
Pagetti)3, la metafisica ridotta a merce di massa4, il
principio primo, essenziale, sostanza del mondo che sconfigge l’entropia5,
e così via in una serie cospicua di interpretazioni tutte più che plausibili.
Tanto è vero che, come ricorda Carlo Pagetti, lo stesso Dick in una lettera
scrive che: “anche Ubik mi piace, in un certo senso, ma non lo capisco. Gli
intellettuali francesi e polacchi vogliono spiegarmelo, fanno e hanno fatto di
tutto per spiegarmelo, si sforzano di spiegarmelo, senza successo”6.
Vorrei qui stare anch’io al gioco e ipotizzare una mia via interpretativa, se
non migliore, spero non peggiore delle altre. La chiave che intendo utilizzare mi
è offerta da uno studioso dickiano, Fabrizio Chiappetti, il quale scrive a
proposito di Ubik che “Dick ribadisce che la verità è oggetto di fede, non di
dimostrazione”7. Non interessa qui entrare nel merito di una
discussione di tipo religioso, sulla religiosità di Dick; intendo cogliere
invece questa felice intuizione di un possibile collegamento della questione
della verità (così frequente nell’opera dickiana) con la tematica di Ubik. “E’
un gioco pericoloso, dove si rischia la vita” aggiunge ancora Chiappetti. E
allora proviamo a giocarlo. Tralasciamo per il momento la storia e rivolgiamoci
a quelle “epigrafi ironicamente inappropriate ad ogni capitolo”8 e
proviamo a considerarle qualcosa di più che semplici parodie, proviamo a
considerarle piuttosto come dei potenziali racconti a loro volta, degli incipit
capaci di sviluppare altre storie a se stanti. Sono storie, certo, che
disegnano un paesaggio minimalista, dove si svolgono piccole narrazioni. “La
fragranza del caffè appena tostato” prelude a un rapporto migliore tra Sally e
suo marito, da un “così così” a un “wow!”, o il “sapore completamente nuovo “di
un nuovo condimento che , accidenti, “sta svegliando il mondo”, forse in un
rinnovato rapporto col mondo materiale a discapito della presunta inarrestabile
avanzata del mondo immateriale, o ancora la cura di se stessi, l’amore per il
proprio corpo a partire da una presa di coscienza maggiore di quel vero e
proprio rito per l’uomo, che è la rasatura mattutina della propria barba. E
così via, senza escludere “le preoccupazioni economiche” che “vi hanno ridotto
sul lastrico”; questa specie di esagrammi in testa a ogni singolo capitolo
dipanano una sorta di racconto delle piccole pratiche di vita, dei piccoli
esempi di vita quotidiana a cui per essere esaustivi mancherebbe solo di
aggiungere una più o meno pertinente illustrazione tratta da quel minuzioso
affresco del costume di vita consumista nordamericano così efficacemente
descritto da Norman Rockwell. Ed infine ecco l’esergo 17, del breve capitolo
conclusivo. Di tutt’altro tenore, enigmatico, lapidario (io sono, ma nessuno mi
conosce, mi chiamo, ma non è il mio nome) nella sua ambiguità estrema. Certo
che è un gioco pericoloso.
Appaesandoci
in uno scenario di vita spicciola e quotidiana in cui abbiamo a nostra
disposizione, per forza di cose, un terreno in comune nel quale possiamo
interagire siamo di fronte alla solita penultima verità, quindi a una verità
non vera ma efficace, inevitabilmente falsa e quindi inautentica ma
terribilmente reale. La verità ultima, quella autentica in cui si presenta
l’Ubik nel suo svelamento ci viene mostrata invece sì come vera, ma come del
tutto estranea alle nostre particolari forme di vita. E’ una verità che
esiste ma che non ci riguarda, si
rifiuta di rappresentarsi come quella realtà soggiacente capace di dare senso e significato al nostro
esistere. Come la salvezza di Kafka che esiste ma non per noi. Proviamo ora a
riprendere le fila della storia, Lawrence Sutin scrive che “la trama esibita
nei capitoli iniziali è una grandiosa falsa pista”9, forse è vero ma
occorre intendersi su quello che la falsa pista vuole depistare, cosa intenda
occultare. Quello che balza più in evidenza è l’invenzione del Moratorium e
cioè della semi-vita. Tutto il romanzo sembra ruotare intorno a questa idea del
possibile prolungamento della vita oltre la morte. Un di più di vita, una
sconfitta parziale della morte e un ulteriore confinamento più in là di una
possibile rinascita, una reincarnazione in un nuovo utero. Ma quest’ultima è solo metafisica a cui nessuno è obbligato a
dar retta. Quel che rimane non evidenziato, sotto traccia in questi capitoli
iniziali è il fatto scatenante, l’innesco dell’intera vicenda: la scomparsa di
S. Dole Melipone, il maggior telepate (occorre un’intera squadra di
antitelepati per riuscire a neutralizzarlo) dell’organizzazione di Hollis, le
cui tracce svaniscono nei pressi di un Motel che si chiama ‘Legami dell’Esperienza Erotica Polimorfa’. “Nessuno conosce il suo aspetto; sembra che cambi profilo fisionomico
ogni mese” ed è quindi un individuo capace “di assumere un numero
infinito di forme e alternative” e pertanto “di scomparire anonimamente in uno
sfondo di affini.”10 Abbiamo quindi un essere con un super
potere ma che scompare nell’anonimato.
Un potere che si occulta.
Contemporaneamente
alla sua scomparsa il romanzo introduce l’apparizione del ‘vampiro’ Jory nel
Moratorium. Questa entità nuova che si scopre infine essere l’agente della
forza entropica, viene descritta da Joe Chip come: “un agente polimorfico e perverso
che ama guardare. Un’entità infantile e ritardata” e ancora
all’osservazione di Runciter sul sadismo
di tale entità Joe risponde: a me sembra piuttosto l’opera di un
bambino.” Il trabocchetto della semi-vita serve allora a darci
un’immagine del mondo di Ubik, dove tutto è controllato e irreggimentato fino
alla vita post-mortem (almeno fin dove i progressi della scienza arrivano a
consentircelo), mostrandocelo come una distopia mentre in effetti è l’esatta
riproduzione del mondo in cui stiamo vivendo oggi. Valido già nel 1966, oggi
completamento realizzato. Un mondo basato sul sospetto e sulla diffidenza che
si alimentano grazie all’ausilio di un progresso tecnico scientifico il cui
enorme potere enfatizza l’infantile dell’uomo, il perverso polimorfo. Contro
questo tipo di potere Dio serve a poco, “Dall’esterno non possono arrivare altro che
parole” che certo aiutano, danno coraggio, ma possono aiutare
eventualmente solo il singolo e non più l’intera umanità. Runciter, facente
funzioni di Dio, aiuta Joe a lottare; avviene perfino un miracolo. Runciter
appare a Joe e gli consegna l’Ubik di persona. Ma questo miracolo aiuta Joe per
poco. Lo strumento per combattere Jory dovrà essere fabbricato dall’interno
della ‘semi-vita’, da Ella e dagli altri ‘semi-vivi’. Ubik può essere
fabbricato, costruito solo collettivamente e invocato, richiesto per posta o
telefonicamente. Ubik deve essere un prodotto interamente umano per poter
funzionare, altrimenti Jory avrà la possibilità di regredirlo e renderlo inefficace.
Come tutte le vecchie religioni. Ubik è la soluzione umana a un problema umano.
Il problema di un potere enorme in un essere umano antiquato.11
Per dirla in
un modo un po’ diverso con Antonio Caronia: “se l’attrito fra cervello
paleolitico e società neolitica era inquietante ma ancora tollerabile, l’abisso
fra lo stesso cervello e la società matura onnipervasiva (il capitalismo
cognitivo) è potenzialmente distruttivo”.12 Ma ancora, se abbiamo
voluto prendere in considerazione che l’idea del depistaggio, il mondo dei vivi
contrapposto al mondo dei morti (semi-vivi), che poi si rivela alla fine essere
un unico mondo (il nostro), forse un altro sospetto potrebbe insinuarsi nella
nostra mente: se anche Ubik fosse un depistaggio, un nascondere ciò che è
realmente importante? In tutto questo concentrarsi su Ubik ci si dimentica, ci
si accosta con troppa leggerezza al protagonista principale, Joe Chip, sfigato
personaggio seriale dickiano. Ed eccoci al grande tema da cui avevamo preso le
mosse, il tema della verità. Di quale verità ci può mai parlare Ubik, forse che
la soluzione dei nostri problemi può venire solo da noi stessi? Certo, è una
verità di saggezza, ma chi la detiene questa saggezza, da dove arriva? Potrebbe
venire solo dallo stesso Philip K. Dick, da colui che ha scritto questo romanzo
e ci dispensa le sue pillole di saggezza. Tanto valeva allora scrivere un
bell’articolo. No, non è un semplice romanzo a tesi, c’è una trama con dei
personaggi che creano una storia che rivendica una propria autonomia,
riluttante ad essere interpretata in modo univoco ma disponibile ad essere
commentata, chiosata all’infinito. E allora continuando ad elaborare il mio
commento vorrei insinuare che la verità in questo romanzo è il protagonista
stesso, è Joe Chip. Lui è il vero nemico, lo scandalo di questa società
totalmente normata, asfittica e putrescente che ci sta trasformando in
semi-morti tutti. Joe Chip è l’essere che con la sua vita resiste, in quanto fa
eccezione, fa differenza e perciò fa scandalo. Joe è sporco, non ha il senso
del valore del denaro, lo sperpera, lo spreca; non ha un rapporto corretto con
le macchine, le insulta, le vuole smontare, imbrogliare; non è entusiasta del
prolungamento artificiale e artificioso della vita; vuole collaborare con gli
altri, ci tiene agli altri.
Lo scandalo
di questa vita altra può, mettendolo in discussione, inceppare il meccanismo
ben oliato del potere. Joe Chip è solo un granello di sabbia, ma se prendesse coscienza
e se facesse prendere coscienza anche agli altri che non solo una vita diversa
è possibile, ma è anche indispensabile per combattere l’entropia , allora il
potere sarebbe costretto a mettere in campo tutte le forze per riuscire a
sconfiggerlo. Ma anche se riuscisse a farlo altri Joe potrebbero continuare a
resistere, perché un nuovo processo contrario, a favore della vita, sarebbe
stato comunque messo in moto. Indubbiamente è, e sarà, una lotta impari. Chi
detiene il potere di intervenire sul tempo, per abolire il futuro ad esempio,
intervenendo sul passato, sulla nostra memoria, sulle nostre esperienze, come
sa fare Pat Conley, ha dalla sua un’enorme forza distruttiva, e tanto difficile
da controllare a sua volta, come la sconcertante fine della stessa Pat ha
dimostrato. Ma il finale di Ubik ci mostra in modo geniale, mi si lasci passare
una parola così abusata oggi, ma troppo calzante in questo caso, che alle volte
anche i piccoli vincono e Joe Chip ha vinto. E ha vinto perché aveva dalla sua
la verità, la verità di una vita vissuta e mostrata, che resiste e che cerca,
cerca un altro modo di vivere possibile. Alla fine, quasi come un Diogene della
modernità, Joe Chip parakharaxon to
nomisma (cambia la valuta)13 e come ci insegna Michel Foucault
nel suo ultimo seminario alterare la moneta vuol dire “a partire da una moneta
che porta una certa effigie, cancellare questa effigie e sostituirla con
un’altra più rappresentativa, che permetterà a questo conio di circolare con il
suo vero valore. Che la moneta non ci inganni sul suo vero valore; che le venga
restituito il suo giusto valore imprimendole un’altra effigie, migliore e più
adeguata”14, precisando poi che “nomisma
è sì la moneta, ma è anche nomos,
cioè la legge, il costume. Il principio di falsificare il nomisma è anche quello di rompere con la consuetudine, di
cambiarla, di infrangere le regole, le abitudini, le convenzioni e le leggi.”15
E se qualcuno volesse poi proprio
insistere sul nichilismo di Ubik, concediamoglielo pure ribadendo però quanto a
proposito del nichilismo lo stesso Foucault annotava: “La domanda del
nichilismo non è: se Dio non esiste, allora tutto è permesso. La sua formula è
piuttosto, se devo confrontarmi al ‘nulla è vero’, come devo vivere?”16
1 Una descrizione molto simile a quella del mago di Oz, libro molto amato da
Dick, “in mezzo stava un’immensa testa,
senza un tronco che la sostenesse, né braccia o gambe all’estremità.” Frank
Baum, Il mago di Oz, Milano Rizzoli 2001, pag. 145
2 “Ubik, una sostanza che è ubiqua ma
consustanziale a tutte le altre sostanze, o meglio è, in senso aristotelico, la
‘sostanza prima’, la ‘sostanza in senso forte’ a cui tutte le categorie si
riferiscono; nel contempo Ubik nasconde dietro di sé la macchina della realtà
che differisce, platonicamente, in nome e oggetto, in forma e sostanza;
un’insanabile contraddizione filosofica…” (Claudio Asciuti , Ubik, in Antonio
Caronia e Domenico Gallo, Philip K. Dick la macchina della paranoia, Milano,
Agenzia X, 2006, pag. 300.)
3 Carlo Pagetti Introduzione, Ubik, Roma, Fanucci 2003
4 “Soggetti innaturali, preoccupazioni
ontologiche, decadimenti entropici, mondi virtuali mercificati e senza uscita
ricorrono in Ubik, dove anche la metafisica è merce di massa, e Dio si fa la
pubblicità.” . (Salvatore Proietti, Vuoti di potere e resistenza umana: Dick,
Ubik e l’epica americana, in
Trasmigrazioni, i mondi di Philip K. Dick, a cura di V. M. De Angelis e
U. Rossi, Le Monnier, Firenze 2006, pag. 212)
5 Linda De Feo, Philip K. Dick dal
corpo al cosmo, Napoli, Edizioni Cronopio, 2001, pag. 99.
6 Carlo Pagetti, Introduzione, Ubik,
Roma, Fanucci 2003
7 Fabrizio Chiappetti, Visioni del futuro il
caso Philip K. Dick, Sant’Arcangelo di Romagna , Fara editore, 2000, pag. 92.
8 Peter Fitting, Ubik: la
destrutturazione della SF borghese. http://www.intercom.publinet.it/Dick6.htm
9 Lawrence Sutin, Divine invasioni,
Roma, Fanucci 2001, pag. 178.
10 Davide Sparti, L’identità incompiuta,
Bologna, Il Mulino, 2010, pag.29.
11 Tema centrale dell’opera del
filosofo Gunther Anders.
12 Antonio Caronia recensione al libro
di Lothar Baier, Non c’è tempo, sull’Unità del 10 giugno 2004 https://www.academia.edu/305223/Cogli_lattimo_se_ci_riesci_
13 Diogene il cinico riceve dall’oracolo
di Delfi il precetto di alterare il valore della sua moneta
14 Michel Foucault, Il coraggio della
verità, Il governo di sé e degli altri II, Corso al Collège de France (1984),
Milano, Feltrinelli 2011, pag. 220
15 M. Foucault, ibidem pag. 233
16 M. Foucault, ibidem pag. 186
Le citazioni del romanzo sono tratte dall'edizione Fanucci tradotta da Gianni Montanari. L'ultima edizione Fanucci è stata tradotta da Paola Prezzavento.
da leggere anche:
Come la catena di librerie!
RispondiEliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiElimina