La razionalità come capacità
umana di andare oltre la pura percezione e di prescindere dallo stato
emozionale per distinguere tra il vero e il falso e di sottoporre a verifica il
risultato raggiunto è il bersaglio principale di gran parte della fantascienza
degli anni ’50 (sia letteraria che cinematografica) indicando nel massimo
risultato che questa facoltà umana ha prodotto, la modernità tecnico
scientifica, la più grande minaccia alla sopravvivenza dell’umanità stessa. La
produzione dickiana di quegli anni, in gran parte racconti, gioca con questa
paura; limitandoci a due esempi: nel racconto NON-O (1958) saranno le “masse
emotive” formate dalla gente comune ad opporsi al mondo della super-logica
(e delle super armi) dei mutanti, esseri “totalmente
logici e privi di qualunque empatia”. Nel racconto del 1955 PSI al posto dell’emotività delle masse,
la donna, essere emotivo per eccellenza “gli
uomini costruiscono le macchine, organizzano la scienza, la città. Le donne
hanno le loro pozioni e le loro misture”. Negli anni ’60 il termine
razionalità e irrazionalità praticamente scompare, occorrerà arrivare alle
opere più tarde per vedere riproporre in forma nuova entrambi i termini: in VALIS (1978) una presenza aliena (o
forse divina) è causa di una esperienza limite per il protagonista Horselaver
Fat, che così la descrive: “l’universo
poteva essere irrazionale, ma qualcosa di razionale era penetrato dentro di
esso, come un ladro di notte penetra in una casa addormentata.” Razionale e
irrazionale non sono più due facili visioni da mettere in contrapposizione, il
problema si complica, la razionalità stessa ha bisogno paradossalmente di una
cosa irrazionale come la fede, come dimostra sempre un personaggio di Valis “Fra tutti noi, Kevin è quello che possiede
meno irrazionalità, e, quel che più conta, più fede.”
sabato 13 maggio 2017
venerdì 5 maggio 2017
Tatuaggio
“Sull’avambraccio
nudo e scuro spiccava un tatuaggio, CAVEAT EMPTOR” UBIK (1966). Direttamente
inciso sul corpo di Patricia Conley, l’ultima neoassunta precog
dell’Associazione Runciter, sta l’avvertenza di porre la dovuta cautela
all’acquisto. Ma Joe Chip non ne conosce il significato e quindi non può
mettere sull’avviso il suo datore di lavoro Glen Runciter. Quasi ad anticipare
la moda dilagante dei nostri giorni, nei romanzi dickiani, i tatuaggi si
affacciano più volte. “Quando vennero
portati panini e caffè e la cameriera se ne fu andata, uno dei ragazzi si girò
sulla sedia per guardarli in faccia. Ragle notò che i tatuaggi sulle guance
riprendevano il disegno sui braccialetti. Osservò quelle linee intricate e
infine riconobbe le figure. Erano state copiate dai vasi attici. Atena e la sua
civetta. Kore che sorge dalla Terra.”
TEMPO FUOR DI SESTO (1958). La
mitologia greca, ma ancora risalendo più indietro nel tempo, la figura del
labirinto: “Più avanti c’era una bottega
di tatuaggi, moderna ed efficiente, con una parete interamente illuminata;
all’interno il titolare usava l’ago elettrico senza esercitare attrito sulla
pelle, ma semplicemente sfiorandola mentre disegnava una specie di labirinto.
Perché no? Si disse Eric. Che cosa mi potrei fare incidere, quale motto o
immagine che mi dia sollievo in questo momento insolitamente difficile? In
questo momento in cui aspettiamo che arrivino i listariani a prendersi il
pianeta? Impotenti e spaventati come siamo, diventiamo tutti dei vigliacchi.” (…)
ILLUSIONE DI POTERE (1963). E ancora
il tatuaggio “Persus 9” si ritrova in quel vero labirinto senza uscita che è LABIRINTO DI MORTE (1968). Tatuaggio
come immagine per ottenere sollievo, come avvertimento, minaccia o marchio di
sottomissione alla tirannia di una vita che si avverte essere senza senso e
senza scopo?
Iscriviti a:
Post (Atom)