Nei «Simulacri» Philip Dick immagina un regime totalitario
nel quale il presidente non è umano ma un androide. Tutto il potere ai media...
ma è solo fantascienza di Antonio Caronia
Finito di scrivere nell'agosto del 1963 e pubblicato l'anno
seguente, The Simulacra fa dunque parte di quella intensa e fortunata stagione
(la prima metà degli anni Sessanta del XX secolo) in cui Dick scrisse alcune
fra le sue opere migliori, da L'uomo nell'alto castello a Noi marziani, da Le
tre stimmate di Palmer Eldritch a In senso inverso (Counter-Clock World).
Curiosamente, è anche uno fra i romanzi di Dick che ha avuto più traduzioni in
Italia, e più prefazioni: due di Carlo Pagetti (una nell'edizione Nord del
1980, l'altra in questa nuova edizione Fanucci nella collana «Opere di PKD«),
una di Sergio Cofferati, e, ultima in tanto Olimpo, addirittura una del
sottoscritto (edizione Nord del 1994). Aggiungiamo che uno dei due capitoli che
lo psicologo Giorgio Concato dedica a Dick nel suo libro L'angelo e la
marionetta (Moretti&Vitali 1996) riguarda proprio questo romanzo. E tanto
basti per la bibliografia. I simulacri è un romanzo insieme tipico e atipico
per Dick: presenta infatti una concentrazione quasi abnorme di temi, situazioni
e figurazioni caratteristiche del nostro autore. Lawrence Sutin scrive che «fra
tutte le trame di Phil, questa è forse la più complessa. Purtroppo I simulacri
è un'opera affascinante che spreca troppe delle sue migliori idee». Non mi
sento di sottoscrivere quest'ultima affermazione. Certo, il piccolo miracolo di
incastro e di calibratura delle varie storie in L'uomo nell'alto castello (un
libro paragonabile, quanto a complessità di sottotrame) qui non si ripete. Ma
lo stesso Sutin è costretto a riconoscere che certe scene «si situano fra le
migliori delle opere di Phil degli anni Sessanta». E il romanzo, aggiungo io,
contiene almeno due tra i personaggi più memorabili dell'intera opera di Dick
(Nicole e Kongrosian). Che cosa racconta I simulacri? Racconta di un mondo
ancora una volta (come in L'uomo nell'alto castello) dominato dai nazisti,
stavolta però in associazione con i nordamericani: lo stato egemone nel mondo
sono infatti gli USEA (Stati Uniti d'Europa e d'America), il cui presidente
(der alte, il vecchio, detto in tedesco) si elegge come al solito ogni quattro
anni. Ma non è lui a rappresentare la continuità del potere, bensì la first
lady Nicole, che sposa i presidenti uno dopo l'altro, appare in televisione,
ispira le mode culturali e sociali, assurgendo a principio unificatore della
nazione non solo sul piano politico, ma anche esistenziale e ontologico. Sono
diversi, infatti, i personaggi del libro convinti di esistere solo perché
Nicole li guarda, o ha sentito parlare di loro. Nicole (che lo stesso Dick
dichiarò di aver immaginato ispirandosi a Jacqueline Kennedy) ci introduce
quindi a uno dei temi centrali del libro, quello dei media come garanti e
costruttori della realtà. L'altro tema centrale, anch'esso tipicamente
dickiano, è quello del segreto. La popolazione degli USEA risulta infatti rigidamente
stratificata, divisa tra i Ge (la minoranza dominante) e i Be (la maggioranza
dominata). I Ge sono i Geheimnisträger, i detentori del segreto, i Be i
Befehlträger, gli esecutori degli ordini. Il segreto che fonda lo stato è
quello della vera natura dei presidenti, che non sono esseri umani, ma appunto
sim, simulacri (androidi insomma) costruiti dal monopolio tedesco Karp und
Sohnen Werke. E poi (segreto nel segreto, che verrà svelato nelle ultime pagine
del libro) neanche Nicole è colei che appare: è solo un'attrice stipendiata,
che nella resa dei conti finale tra potere politico ed economico viene
brutalmente estromessa. Buona parte del libro riguarda infatti le lotte interne
all'élite dominante, tra burocrazia statale e monopoli economici, con l'intervento
della società segreta «I figli di Giobbe» guidata da Bertold Goltz: anche
quest'ultimo, alla fine, risulterà diverso da quello che sembrava. Fuori dalle
stanze del potere, la piccola umanità che Dick satireggia o con cui
solidarizza, ma che per il nostro rappresenta sempre una dimensione di
«sostenibilità» della vita, una riserva potenziale, a volte anche minima, di
speranza. Perché qui l'umanità (come in tanti altri romanzi scritti da Dick in
questo periodo) è costretta dalla durezza delle condizioni economiche e sociali
a emigrare su Marte, dove sarà assistita dai sim. Come in L'uomo nell'alto
castello, anche qui una possibilità di riscatto dalle miserie della vita e
dalla manipolazione del potere Dick pare intravederla nell'arte: ma non nella
«grande» arte del musicista psicocinetico e paranoide Kongrosian, che in un
memorabile duello finale con il capo della polizia segreta Pembroke rovescerà
se stesso nell'universo e assorbirà l'universo entro se stesso. Piuttosto nel
piccolo e modesto artigianato dei due suonatori Miller e Duncan, o nella musica
quasi etnica e marginalizzata dei chupper, esseri deformi che vivono nelle
paludi e proiettano su tutto il libro un'immagine misteriosa e ambivalente. La
speranza è a volte poco più che una fioca candela, nelle narrazioni di Dick: ma
egli non ce la fa mai mancare.
I simulacri di Philip K. Dick a cura di C. Pagetti, trad. di
M. Nati, postfazione di Jean Baudrillard Fanucci.
L’Unità 29 dicembre 2002 (nell’edizione Nazionale nella
sezione Cultura p. 26)