venerdì 20 febbraio 2015

Karel Thole: Cronache del dopobomba


Su uno scenario apocalittico di edifici distrutti si staglia la figura di un uomo in abito grigio che inforca una specie di bicicletta composta da vari pezzi riciclati. La figura è composta, dignitosa, stridono in lui unicamente quelle scarpe bianche poco in tono con l’abito signorile, così come stride dell’improbabile velocifero la ruota anteriore a forma di rullo, anch’essa rigorosamente bianca. Bianche sono anche le nuvole nel cielo azzurro e bianco infine il colletto della camicia da cui spunta la testa glabra dell’austero superstite di quel mondo del dopobomba di cui il romanzo di Dick vuole narrare le cronache. Insomma siamo già alla ricostruzione e alla dignità di una nuova impresa dell’umano reagire alle disavventure della vita, anche se queste disavventure coinvolgono l’umanità intera e hanno la cifra di un disastro di proporzioni bibliche. Di fatto sembra la speranza a prevalere, anche se…, anche se il diabolico Thole semina qui e là piccoli indizi che provano a inquinare questo quadretto di speranzosa umana ripresa. Non tanto le ovvie rovine, che da quelle necessariamente si deve ripartire, quanto quel colore violaceo delle montagne in lontananza oltre il ponte, oltre il Golden Gate, anch’esso distrutto, anch’esso violaceo; di quel colore alieno, da camera oscura che vieta l’ingresso del sole. E quella ruota, quel piccolo rullo posto d’innanzi piuttosto che dietro, atto più che a rallentare a intralciare, ad alludere a un’idea più distruttiva che costruttiva. Ma alla fine ancor di più quei piccoli tocchi di bianco, innaturali, spettrali e fuori posto quanto quella faccia impassibile, imperturbabile e imperturbata dal disastro che pur circondandolo sembra non riguardarlo.

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