sabato 16 dicembre 2017

Philip K. Dick sognatore d'armi e di conflitti


Paolo Virno parlando del futuro anteriore dice che “nella gran parte delle lingue europee c’è questo tempo verbale strano, per cui si tratta ciò che deve ancora avvenire come se fosse un passato (…) in base a questo sguardo postumo rispetto a ciò che deve ancora avvenire, puoi mettere in moto delle alternative.”1 Non credo si possa dare una (involontaria, in questo caso) definizione della fantascienza migliore di questa. Avrò potuto vivere o sopravvivere in un mondo totalmente soggiogato dalla scienza e dalla tecnica, o dai conflitti con armi sempre più distruttive, o in metropoli sempre più affollate, o…? E allora in base a queste domande coniugate a un futuro che si vuole ipoteticamente già passato si può “mobilitare dei possibili proprio perché quello che sembra un futuro lineare è sottoposto a giudizio e, semmai, mostra di essere meno allettante di quanto possa sembrare”. Ma questo è solo un aspetto della fantascienza, quello della facciata più nobile, che si presenta nella fantascienza cosiddetta più matura. Il corpo duro, vero e proprio fondamento del genere, è quello dei romanzi e racconti pulp, vicini a quella “cultura di massa che si abbevera di fumetti, giocattoli, armi e mostri del futuro”2 e qui quel ‘come sarà avvenuto quello che ancora deve avvenire’ sembra aver poca importanza. Ciò che conta sono le ansie, le aspirazioni come le paure e le meraviglie, in cui il secolo progressivo novecentesco sembra averci fatto irrimediabilmente precipitare. Una centrifuga di possibilità carpite da tutti i futuri possibili per renderci avvezzi a un rapido e onnipervasivo cambiamento del nostro stare nel mondo. Due modi della fantascienza che si susseguono ma anche coabitano loro malgrado. Philip K. Dick, scrittore prestato al genere (voleva fare, essere ben altro, uno scrittore serio, intellettuale apprezzato) prende entrambi i modi e li rende indistinguibili tra loro. Ma non ne fa una parodia; quel voler “far intendere ai suoi lettori che il romanzo di fantascienza deve accettare le sue umili origini e su di esse costruire un discorso ricco di implicazioni metanarrative e di suggerimenti etici”3 va preso molto più alla lettera di quanto suggerisce Carlo Pagetti. Non di un’umile origine che poi evolve in qualcosa di più maturo e rispettabile, quanto piuttosto del vero discorso costitutivo del genere; quello di uno strumento che nella sua apparenza grezza e infantile ci abitua (ci assoggetta?) a una forma di vita affatto inedita per la storia della nostra specie. Macchine a vapore, e poi  a combustibili fossili, il volo del più pesante dell’aria, il trasporto della nostra singola voce, la possibilità di cambiare la notte con il giorno, guerre con armi di distruzione di massa, lo spazio, l’enorme potenza dell’infinitamente piccolo, l’irrappresentabile olocausto, e altro ancora nell’arco di poco più di una manciata di decenni. Nella scala della storia evolutiva dell’uomo un’infinitesimale frazione di tempo. Da uscirne distrutti o, quantomeno, cognitivamente afasici! La fantascienza, nelle sue forme plurime (letteratura, cinema, fumetto, giochi e giocattoli, pubblicità,  camuffata da divulgazione scientifica, ecc.) ha avuto un ruolo essenziale nel passaggio al tempo del presente ininterrotto in cui stiamo vivendo oggi, e soprattutto ci ha reso più plastici al susseguirsi dei cambiamenti sempre più accelerati nella nostra vita quotidiana. Dick ha sognato tutto questo, in stato di trance come il protagonista di Mr. Lars, sognatore d’armi, ma al contrario di questi, al posto di entrare nella testa di un singolo sciroppato autore di fantascienza da quattro soldi è entrato nella testa di tutti gli scrittori, buoni o cattivi che siano, di fantascienza; ha rimescolato tutto quel che vi ha trovato  e potuto, e lo ha rivomitato freneticamente sull’immacolata carta bianca nella sua macchina da scrivere, anche lui, come Mr. Lars, con l’ausilio di qualche pillola (di troppo). Il suo desiderio di essere serio, di essere considerato tale (e amato in quanto tale) ha fatto il resto. Un flusso di storie di filosofia grossolana applicata a quell’enorme vortice di cambiamenti che stavano precipitando, tutti assieme, sulla testa di quel povero, ancora molto antiquato, homo sapiens, ne è stato il risultato. Mr. Lars, sognatore d’armi è forse uno dei romanzi che più di ogni altro si presta a questa funzione di tritatutto. Poco considerato dalla critica  giustamente Pagetti lo riscatta in pieno e ne fa un’apprezzabile lettura densa di spunti e con una doverosa (e troppo spesso assente in altri traduttori) disamina delle proprie scelte nel lavoro di traduzione. Quel che più mi interessa qui è però la considerazione finale di Pagetti sul gioco della Creatura del Labirinto (l’arma empatica che sconfiggerà gli alieni, e non solo loro) vista come una “straziante metafora della prigione dell’esistenza” quel “Labirinto da cui – come nella vita – non c’è uscita.”4 È un’interpretazione del dramma esistenziale dell’essere umano, che pur valida nella sua accezione più generale, rimane limitata nell’ottica propriamente dickiana. In Dick non c’è esistenzialismo che tenga. Non c’è rassegnazione. Il gioco della vita non è riconducibile a un labirinto se non per chi pensa che ci sia comunque una via d’uscita che porti da qualche altra parte che non sia la vita stessa. La partita, in realtà, si gioca tutta qui, bella o brutta, questa è l’unica partita che ci è consentita giocare. Tutto sommato non è poca cosa di fronte al nulla. Dick canta la vita, tutti i suoi personaggi, nonostante il peso del fallimento che li accompagna sempre, lottano e per ciò vivono, come parte del processo della vita. Sono dentro, sono parte di qualcosa che vale la pena di essere indagato, interrogato e quindi vissuto da pari a pari, da uomo a dio (che poi è la stessa cosa) nell’infinita povertà, altissima povertà di entrambi. Dick costantemente interroga il divino da lui stesso immaginato e ‘fecondato’. Mr. Lars interroga Orville, il derivato industriale di un suo progetto che doveva servire per costruire un’arma; un po’ come internet che doveva servire a scopi militari per divenire poi un enorme gioco collettivo. Lars/Dick chiede al buon vecchio Orville se faceva un errore a compiangere se stesso: “Chi sono io? (…) cosa sono diventato?” “Lei è un reietto. Un vagabondo. Un esule.” La lapidaria risposta. Ma ancora: “Lei è Waffenlos, disarmato… in senso figurato e in senso letterale. Lei non produce armi, come la sua ditta finge di fare ufficialmente. E lei è Waffenlos in un altro senso, più biologico. Lei è indifeso. Come il giovane Sigfrido, prima di uccidere il drago, beve il suo sangue e capisce la canzone dell’uccellino, o come Parsifal, prima di apprendere il suo nome dalle fanciulle dei fiori, lei è innocente. Forse in senso malvagio.”  Le osservazioni di Pagetti sul sottotesto erotico sono certo pertinenti e la soluzione di tradurre il sostantivo plowshare (vomere) coniugato da Dick in forma di verbo con ‘fecondare’ rende giustizia della prima traduzione di Galassia che sbrigava la questione con un fuorviante ‘fare a pezzi’ o ‘amputare’, come se si trattasse di un tradimento o svilimento del progetto originale dell’arma in una sorta di sottoprodotto commerciale. Ma in realtà non c’è nulla di erotico in sottotraccia, è già tutto in superficie, alla luce del sole. E il semi-finale del romanzo vede il buon vecchio Orville suggerire a Mr. Lars: “si porti questa ragazza in camera da letto e consumi un rapporto sessuale con lei” in una vera e propria anticipazione del finale di Eyes Wide Shut di Kubrick. Tutt’altro che un sottofondo, il sesso, i corpi che si desiderano, si confrontano e soprattutto confliggono sono al centro di questo vero e proprio dramma sotto mentite spoglie parodiche. Lilo Topchev non è una semplice amante, l’ennesimo oggetto del desiderio che sostituisce il precedente corpo usurato dall’abitudine; è la donna, la rivale che si dimostra capace di fecondare il corpo e lo spirito di Mr. Lars. È sì, per Dick, l’amore che insieme al potere “governano la storia dell’umanità”, ma è il conflitto, la capacità di confliggere che rende possibile quel “principio risanatore, banalmente definito ‘amore’”.

Nota 1: Tania Rispoli, Tra teoria politica e antropologia materialistica. Intervista a Paolo Virno (qui) 
Nota 2: Carlo Pagetti, Introduzione in Philip K. Dick, Mr. Lars sognatore d’armi,
Nota 3: Ibidem

Nota 4: Ivi p. 17

(La trama di Mr. Lars sognatore d'armi (qui al n. 19) 

sabato 13 maggio 2017

Razionalità


La razionalità come capacità umana di andare oltre la pura percezione e di prescindere dallo stato emozionale per distinguere tra il vero e il falso e di sottoporre a verifica il risultato raggiunto è il bersaglio principale di gran parte della fantascienza degli anni ’50 (sia letteraria che cinematografica) indicando nel massimo risultato che questa facoltà umana ha prodotto, la modernità tecnico scientifica, la più grande minaccia alla sopravvivenza dell’umanità stessa. La produzione dickiana di quegli anni, in gran parte racconti, gioca con questa paura; limitandoci a due esempi: nel racconto NON-O (1958) saranno le “masse emotive” formate dalla gente comune ad opporsi al mondo della super-logica (e delle super armi) dei mutanti, esseri “totalmente logici e privi di qualunque empatia”. Nel racconto del 1955 PSI al posto dell’emotività delle masse, la donna, essere emotivo per eccellenza “gli uomini costruiscono le macchine, organizzano la scienza, la città. Le donne hanno le loro pozioni e le loro misture”. Negli anni ’60 il termine razionalità e irrazionalità praticamente scompare, occorrerà arrivare alle opere più tarde per vedere riproporre in forma nuova entrambi i termini: in VALIS (1978) una presenza aliena (o forse divina) è causa di una esperienza limite per il protagonista Horselaver Fat, che così la descrive: “l’universo poteva essere irrazionale, ma qualcosa di razionale era penetrato dentro di esso, come un ladro di notte penetra in una casa addormentata.” Razionale e irrazionale non sono più due facili visioni da mettere in contrapposizione, il problema si complica, la razionalità stessa ha bisogno paradossalmente di una cosa irrazionale come la fede, come dimostra sempre un personaggio di Valis “Fra tutti noi, Kevin è quello che possiede meno irrazionalità, e, quel che più conta, più fede.” 

venerdì 5 maggio 2017

Tatuaggio


“Sull’avambraccio nudo e scuro spiccava un tatuaggio, CAVEAT EMPTOR” UBIK (1966). Direttamente inciso sul corpo di Patricia Conley, l’ultima neoassunta precog dell’Associazione Runciter, sta l’avvertenza di porre la dovuta cautela all’acquisto. Ma Joe Chip non ne conosce il significato e quindi non può mettere sull’avviso il suo datore di lavoro Glen Runciter. Quasi ad anticipare la moda dilagante dei nostri giorni, nei romanzi dickiani, i tatuaggi si affacciano più volte. “Quando vennero portati panini e caffè e la cameriera se ne fu andata, uno dei ragazzi si girò sulla sedia per guardarli in faccia. Ragle notò che i tatuaggi sulle guance riprendevano il disegno sui braccialetti. Osservò quelle linee intricate e infine riconobbe le figure. Erano state copiate dai vasi attici. Atena e la sua civetta. Kore che sorge dalla Terra.” TEMPO FUOR DI SESTO (1958). La mitologia greca, ma ancora risalendo più indietro nel tempo, la figura del labirinto: “Più avanti c’era una bottega di tatuaggi, moderna ed efficiente, con una parete interamente illuminata; all’interno il titolare usava l’ago elettrico senza esercitare attrito sulla pelle, ma semplicemente sfiorandola mentre disegnava una specie di labirinto. Perché no? Si disse Eric. Che cosa mi potrei fare incidere, quale motto o immagine che mi dia sollievo in questo momento insolitamente difficile? In questo momento in cui aspettiamo che arrivino i listariani a prendersi il pianeta? Impotenti e spaventati come siamo, diventiamo tutti dei vigliacchi.” (…) ILLUSIONE DI POTERE (1963). E ancora il tatuaggio “Persus 9” si ritrova in quel vero labirinto senza uscita che è LABIRINTO DI MORTE (1968). Tatuaggio come immagine per ottenere sollievo, come avvertimento, minaccia o marchio di sottomissione alla tirannia di una vita che si avverte essere senza senso e senza scopo?

giovedì 27 aprile 2017

Paura



Esistono diverse forme di paure: la paura che ti fa confrontare con la realtà costringendoti a prendere delle decisioni, che però non sempre possono essere facilmente trasmesse agli altri, come nel racconto del 1954 COLAZIONE AL CREPUSCOLO “Tim non riusciva a rispondere. Loro non avrebbero capito, perché non avrebbero voluto capire. Non avrebbero voluto sapere. Avevano solo desiderio di essere rassicurati. Lo leggeva nei loro occhi. Paura. Miserabile, patetica paura. Avevano la sensazione di qualcosa di orribile… e avevano paura. Scrutavano il suo viso in cerca di aiuto. In cerca di parole di conforto. Di parole che avrebbero scacciato la loro paura.” C’è la paura che annichilisce, impedendo l’azione, impedendo di vivere una vita degna di chiamarsi tale: “La paura può portare a commettere più errori dell’odio o dell’invidia. Se hai paura, non ti butterai mai completamente nelle braccia della vita. La paura ti spinge sempre a frenarti in qualcosa.” SCORRETE LACRIME, DISSE IL POLIZIOTTO (1970). E c’è una paura che fa correre all’indietro la lancetta del tempo, quasi a ripercorrere a ritroso la strada dell’evoluzione: “La paura lo privò della sensazione di essere umano, di essere un uomo. Non era una paura umana quella, era la paura di un piccolo animale. Lo rigettò indietro, trasportandolo in ere passate, Sradicò dal presente il suo io, il suo essere. Dio, pensò Joe, la paura che sto provando è una paura vecchia di milioni di anni.” GUARITORE GALATTICO (1967). E la paura dell’esistenza in sé, quella che ci portiamo dietro fin dalla nascita, inseparabile compagna della vita: “Quando considero il breve arco della mia vita, inghiottito nell’eternità che lo precede e lo segue, il minuscolo spazio che io occupo, o addirittura vedo, sprofondo nell’immensità senza fine di spazi che non conosco. E che non mi conoscono, provo paura.” (…) “Era paura come condizione esistenziale assoluta: la base stessa della sua vita. Era stato separato, strappato via da una qualche fusione che noi non potevamo immaginare… almeno in quel momento.” L’ANDROIDE ABRAMO LINCOLN (1962). E infine la paura delle creature inermi, che vorrebbero potersi esprimere, e patire, come gli umani, ma non possono: ROOG racconto del 1953 “Parla della paura; parla della lealtà; parla di un’oscura minaccia e di una brava creatura che non riesce a comunicare a coloro che ama la consapevolezza di quella minaccia.” (Philip. K. Dick). 

lunedì 24 aprile 2017

Esegesi 16 - Un primo bilancio



"L'opera è qualcosa di più dell'opera:
il soggetto che scrive fa a sua volta
parte dell'opera."
Michel Foucault

Ho provato, nelle quindici puntate precedenti, a sondare alcuni possibili percorsi da intraprendere per cominciare a orientarsi nell’intricata materia mentale dell’Esegesi dickiana. ‘Autolavaggio spirituale’, ‘montagna di spazzatura’, comunque la si voglia definire questo enorme lavorio intellettuale che Dick ha partorito nelle notti che dalla sua esperienza del 2.3.74 proseguiranno fino alla sua morte nel marzo del 1982, difficilmente possono essere liquidate come farneticazioni di una mente psicotica o in preda alle allucinazioni derivate da farmaci e droghe. Comparando questo enorme flusso di coscienza narrativa con le sue opere risulta impossibile non vederne i forti intrecci che li legano assieme. Quella narrativa che Antonio Caronia non ha esitato a definire, senza mezzi termini, filosofica è un dispositivo capace di interrogarci sull’oggi più di quanto facciano tanti discorsi più propriamente filosofici. Come ha scritto Michel Foucault: “L’uomo di lettere, colui che scrive, nella nostra società, è come il folle del re; perché, dopo tutto, che cos’è la letteratura? Un uomo di lettere, un romanziere, inventa una storia, non racconta la storia, non dice le cose, dice qualcosa che non esiste, parla nel vuoto. Tuttavia la parola letteraria è fatta per svelare qualcosa che la pesante gravità dei nostri discorsi filosofici non può dire, e questo qualcosa è una specie di verità al di sotto della verità. Sapete bene, dopo tutto, che il destino degli uomini è stato descritto meglio da un romanziere o da un uomo di teatro che non da filosofi e scienziati”. Una verità sotto la verità, quella che ci governa, che agisce nelle nostre vite, nei nostri corpi. Scrivere per la verità, come ha dichiarato di fare lo stesso Dick, comporta vivere una vita senza protezioni, utopiche o trascendentali che siano; significa oggi, in un mondo, un po’ troppo frettolosamente definito come disincantato, attrezzarsi per costruirci una sorta di ‘materialismo dalle spalle larghe’, un materialismo paradossalmente spirituale. E Dick è uno di quegli artigiani, che sembrano provenire dal futuro per rifornirci degli strumenti necessari a far si che al nostro presente non succeda di regredire nel passato come tragicamente succede nel mondo di Ubik. La funzione dell’autore, o meglio, la funzione-autore (è lo stesso Dick che dubita si possa parlare dell’esistenza dell’autore in quanto tale)  sembra essere proprio questa: rendere conto delle proprie esperienze, per Dick quella cosiddetta ‘mistica’ del 2.3.74, (ma per altri possono valere diverse esperienze limite o vissute come tali) sapendo che sarà un tentativo fallimentare ma che comunque deve essere fatto. Perché questo è l’unico modo per ottenere un mutamento spirituale per essere capaci di crescere cambiando. Che Philip K. Dick nell’ultima fase della sua vita si sia fatto prendere da manie religiose è un favola; il religioso, la fuga dalla realtà, la trascendenza consolatoria alligna in tanti contesti, anche in quelli reputati più laici, di quanto non sembri. Ma proprio in questa mole di interrogativi, di messa in discussione dei propri credi, delle proprie e altrui teorie, esaltazioni di risposte trovate e delusioni conseguenti, si tocca con mano la capacità e il coraggio di avere un rapporto con la realtà, nella coscienza che per quanto illusoria questa possa essere, i suoi effetti su di noi sono indiscutibilmente reali. Scetticismo e pragmatismo sono indubbiamente inscindibili in Dick. Non c’è nessun ‘pacco’ di  cose inutili in Dick; che ci piaccia o no continuiamo (pur se spesso a nostra insaputa) a interrogarci sul senso, sul significato e il destino della nostra vita. È un’interrogazione destinata al fallimento, ma senza questo fallimento continuo, la vita cessa di esistere.

Si interrompe qui questa prima parte di questo lavoro, si riprenderà a SETTEMBRE con un "Indice analitico ragionata dell’Esegesi". Un elenco di voci che cercheranno di mettere in evidenza alcuni tra i temi più importanti che attraversano l’Esegesi: amore, arborizzazione, campo, causalità, computer, conoscenza, Dio, entropia, esperienza, evento, evoluzione, fantascienza, figura/sfondo, film, filosofia, futuro, identità, informazione, labirinto, libertà, logos, marxismo, memoria, mimetismo, misteri, ologramma, paradosso, psicosi, realtà, sofferenza, sordo, tempo, verità e forse qualcun altro ancora.



giovedì 20 aprile 2017

Spaesamento



"-Qualcosa non va- affermò Ragle.
-Non dico in te, in me o in altre persone.
Dico in generale.- -Il tempo- citò Ragle
è fuor di sesto.-"
Tempo fuor di sesto (1958) 

“Eccolo. Impresso a caratteri neri sulla carta giallastra. Lo sfiorò con le dita, muovendo le labbra in silenzio. Avevano chiamato suo padre Donald anziché Joe. E l’indirizzo era sbagliato. Il 1386 di Fairmount Street invece del 1724 di Pine Street. Il nome di sua madre era indicato come Sarah Barton, mentre era Ruth. C’era tuttavia la cosa fondamentale. Theodore Barton, del peso di tre chili e mezzo, venuto alla luce al Country Hospital. Anche questo era sbagliato però. Era una notizia alterata, distorta. Ogni cosa era stata deformata.” LA CITTA’ SOSTITUITA (1953)
Piccole cose, dettagli, particolari che non quadrano. Sono questi i sintomi di una malattia che ha per oggetto il mondo in cui viviamo; che dovrebbe avere un aspetto che ci rassicura, ci conferma e che invece all’improvviso apre delle crepe, piccole fessure da cui sembrano trasparire scenari inconsueti o incoerenti. Lo sfondo in cui si colloca il nostro operare non sembra essere più lo stesso. Non più ovvio.
“Tutto sembrava sotto controllo. Sembrava… ma c’era qualcosa che non andava. Hamilton ne era convinto. Dentro di lui c’era la netta, sgradevole sensazione che qualcosa di importante fosse fuori posto.” L’OCCHIO NEL CIELO (1955)
“Avanzò lentamente ed entrò nell’ufficio interno. L’ufficio era stato cambiato. Ne ero certo. Alcune cose erano state alterate, mutate, riordinate in altro modo. Niente di ovvio, niente su cui potesse puntare il dito. Ma sentiva che era qualcosa di diverso.”  SQUADRA RIPARAZIONI racconto (1954).
“-Sono in un mondo sfasato- pensò. –Le cose stanno diventando strane.-“ DIVINA INVASIONE (1980)
Ma la cosa più inquietante in tutto questo è che i meccanismi di difesa, le strategie per riconquistare l’ovvio della vita, cioè l’abitudine delle cose consolidate, che sono così perché sono sempre state così, sembra essere in definitiva solo una strategia volta più a riconquistare l’illusione della realtà che la realtà vera e propria.
“Quello che mi spaventava a questo punto, pensò, è guardare fuori dalla finestra del mio appcon discreto e defilato e vedere l’uomo di Pechino che passeggia sul marciapiede, non da solo ma accompagnato da altri come lui.                                                                           Decise di non guardare, tanto per restare al sicuro. Di non affacciarsi per un po’. Invece si concentrò su quel che restava della sua colazione, per quanto insipida fosse diventata. Un compito da niente, ma familiare; lo aiutava a ripristinare la qualità simmetrica della realtà.” SVEGLIATEVI DORMIENTI (1963)
Il familiare non è la certezza del vero, è solo la consuetudine dell’abitudinario. Una diga, una barriera nei confronti di una realtà incerta, non scontata che incombe e può esondare.
“Sentiva in testa voci che cantavano sonore: una musica tremenda, come se la realtà che lo circondava fosse inacidita. Ora ogni cosa – le automobili veloci, i due uomini, la sua stessa auto con il cofano alzato, l’odore dello smog, la luce luminosa e calda del mezzogiorno – tutto era diventato rancido, come se il suo mondo si fosse tutto putrefatto. Non tanto divenuto all’improvviso, a causa di tutto ciò, pericoloso o spaventoso, ma piuttosto come se fosse nell’atto di marcire, sprofondare alla vista al suono all’odore. Sentiva voglia di vomitare, e chiuse gli occhi e rabbrividì.” SCRUTARE NEL BUIO (1973)
Il mondo non più appaesato non è un mondo falso, distorto, ma è al contrario il mondo che torna ad essere se stesso. L’umano che lo abita e lo rende abitabile deve sforzarsi e concentrarsi per farlo rimanere così come siamo abituati che sia.
“Avvertì il vuoto in modo ancora più acuto, perché attorno a lui ogni cosa era deteriorata.”
“Dove sono? Fuori dal mio mondo, dal mio spazio e dal mio tempo.”
“Questa condizione ipnagogica. La capacità di concentrazione diminuisce e prevale uno stato crepuscolare; il mondo visto semplicemente sotto i suoi aspetti simbolici, archetipici, del tutto confuso con il materiale inconscio. Tipico del sonnambulismo provocato dall’ipnosi. Devo smetterla con questo scivolare in mezzo alle ombre; rimettere a fuoco la concentrazione e quindi ristabilire il centro dell’ego.” LA SVASTICA SUL SOLE (1961)

"-C'è qualcosa che non va- disse Barton, scosso.
Cominciò a tremare. -C'è qualcosa di orribilmente sbagliato.-"
Tornando a casa  racconto (1959) 

lunedì 17 aprile 2017

ESEGESI 15 - La morte stessa morirà



“La morte stessa uccisa; la morte stessa morirà. Il miracolo promesso è alla fine giunto, nel tempo lineare.”(941) ‘Morte dov’è il tuo pungiglione? Tomba dov’è la tua vittoria?’ il leitmotiv paolino della ‘Lettera ai Corinzi’ che riverbera in numerosi romanzi dickiani cerca costantemente la sua risoluzione nelle infinite pagine dell’Esegesi: “Siamo addormentati, ma stiamo per svegliarci. ‘Non dormiremo tutti, ma saremo cambiati in un momento, in un batter d’occhio… e poi giungeremo a superare le parole che sono scritte: ‘Morte dov’è il tuo (…)’”(941) La promessa della morte, della stessa morte che cerca il suo avveramento: essere incinta di nuova vita, “la vecchiaia è gravida, la morte è incinta, tutto ciò che è limitato e caratteristico, fisso e pronto, precipita nel ‘basso’ corporeo per essere ripreso e rinascere.”1  Il ‘basso’ dickiano è il kipple, la spazzatura, l’immondizia, dove spesso Dick afferma vi trovi rifugio, alberghi il sacro. Non c’è risposta fuori dal verminaio della vita, dove morte e nuova vita si rincorrono in un ciclo ininterrotto. Il sacro non può prescindere dal terreno sporco e contaminato dell’umano. “Nel momento stesso in cui cedo alla tentazione di rispondere alla domanda: tu come te lo immagini l’al di là?, lo immagino sotto la suggestione che fa parte della cultura di un mondo di viventi. E non esco da questa prigione. Da questa prigione non è dato uscire se non contro la nostra volontà, con la morte.”2 E Dick è un o di quelli che non cede a questa tentazione. Non c’è né nei suoi romanzi né nei suoi scritti più privati, come l’Esegesi appunto, alcuna visione oltremondana. La morte non è una porta verso l’al di là, è sempre un morire interno alla vita. L’unico possibile superamento dell’eterno rincorrersi della vita con la morte è nella promessa offerta dal tempo lineare (il tempo dell’Occidente) di una fine dei tempi da realizzarsi con la resurrezione cristiana, piuttosto che con la realizzazione dell’utopia marxiana (la fine della storia ecc.). Ma, appunto, sono promesse e per di più consumate, ormai usurate tanto quanto l’idea di un tempo lineare, progressivo, il cui vero rischio è inevitabilmente quello della morte della morte e conseguentemente della stessa vita. Insomma, la morte pare non essere qualcosa di poi così imperituro; va protetta e vanno difesi i suoi prodotti: i morti. Di questi morti noi siamo i custodi e di questi morti noi siamo fatti. “Noi consistiamo di milioni di strati di accrescimento formati (aggiunti) nel corso di migliaia di anni: siamo come cirripedi. Viaggiamo lungo quest’asse spaziale di strati di depositi uno sopra l’altro e non facciamo che crescere e crescere (‘l’uomo contiene – non il bambino – ma l’uomo antecedente’ afferma Joe Chip3 e a ragione!)375

Nota 1: Michael Bachtin, L’opera di Rabelais, Einaudi, 19   p. 61
Nota 2: dall’intervista di Fausta Leoni a Ernesto De Martino in Religioni Oggi 1968

Nota 3: protagonista del romanzo Ubik (1966).

Tra 7 giorni: L'Esegesi 16 - Un primo bilancio

giovedì 13 aprile 2017

Manualità



Avere una buona manualità, un sapere incorporato che si esprime al massimo grado nell’uso esperto delle proprie mani nel costruire un manufatto, o nel ripararlo, in un mondo sempre più tecnologizzato, non è più un requisito indispensabile per poter salire la scala sociale. “I lavori manuali non godono di grande considerazione. Perché non ti dedichi a qualcosa di intellettuale? Non sarebbe meglio se tornassi a scuola e ti prendessi una laurea?” CRONACHE DEL DOPOBOMBA (1963). Il sapere manuale può addirittura essere visto come un pericolo, un’abnormità: “Quest’uomo è diverso. Sa aggiustare tutto, fare tutto. Non si serve della conoscenza, della scienza, cioè di una serie di nozioni ordinatamente classificate. Non sa nulla. Nella sua testa non esiste alcuna traccia di cultura, di preparazione. Lavora per intuizione… il suo potere è nelle sue mani, non nella sua testa. È una specie di jolly, un factotum. Le sue mani! Come un pittore, un artista. Tutto nelle sue mani…” L’UOMO VARIABILE racconto del 1953. Può addirittura fomentare rivolte, come in  VULCANO 3 (1959-60):  “-Porrà termine alla setta della tecnocrazia?- domandò Fields. –Il mondo non deve essere più forgiato a misura di soli esperti, gestito da e per coloro che vedono nella conoscenza verbale l’unica religione. Sono più che stufo di quella roba mentale; mi dà la nausea… Come se abilità manuali quali tirare su un muro non possono costituire un degno argomento di conversazione. Come se tutta la gente che lavora con le mani…- Si interruppe. –Sono stanco di vedere sminuito questo genere di persone.-“ Oppure può essere un buon motivo per andarsene, evadere in un altro mondo, un’utopia che potrebbe però rivelarsi, alla fine, un incubo: “Vuoi cominciare una nuova vita, per servirti della tua mente e delle tue mani, dei doni che Dio ti ha dato? Pensaci, amico, pensaci bene. Che cosa te ne fai di quelle mani, di quelle capacità, in questo momento? Eh? Che cosa te ne fai?- Cosa se ne stava facendo lui? Premeva bottoni con le mani, bottoni, uno dopo l’altro, quando si accendeva una luce verde sul cruscotto. Lavoro di verifica e manutenzione, in una linea automatica pubblica. Bottoni, luci verdi, bottoni. Un lavoro che qualsiasi macchina avrebbe fatto meglio di lui. E, in effetti, c’era una macchina che accendeva luci verdi, e un’altra macchina che controllava se il suo lavoro veniva svolto nella maniera migliore, e un’altra macchina…” UTOPIA, ANDATA E RITORNO (1963). La manualità ha un gran peso nell’opera di Dick; come scrive Antonio Caronia: “La sua narrativa abbonda (…) di artigiani: gente che lavora la materia (dal legno, ai metalli, all’argilla), riparatori, intagliatori, bricoleurs, vasai. (…) Insomma, non ‘belle arti’ ma ‘arti applicate’ (come si sarebbe detto ancora cinquant’anni fa). È un campo di attività in cui confluiscono abilità tecniche, e anche artistiche ma, Dick ne è convinto, non capacità scientifiche.” 1 Ma questo non deve farci cadere nell’equivoco di un Dick arcaico, che vuole tornare ai vecchi consolidati valori del passato. Un Dick recalcitrante a voler entrare nella modernità; anche l’esaltazione della manualità può aver fini ben poco nobili: “Un giorno venne il dottor Todt e ispezionò quello che aveva fatto il nostro gruppo. E mi disse: -Hai delle buone mani-. È un grande momento, Juliana. La dignità del lavoro; le loro non sono semplici parole al vento. Prima di loro, prima dei nazisti, tutti guardavano dall’alto in basso il lavoro manuale; anch’io. Aristocratici. Il Fronte del Lavoro ha posto fine a tutto questo. Per la prima volta ho visto le mie mani.” LA SVASTICA SUL SOLE (1961). Ma forse in Dick più che un ipotetico rifiuto della scienza o del mentale c’è il rifiuto di considerare questi come incorporei, immateriali, pure astrazioni. Il sapere, che ci piaccia o no, è sempre qualcosa che si fa corpo. In alternativa c’è solo la malattia, come nel pianista Kongrossian I SIMULACRI (1963) che con la forza del pensiero sostituisce le mani per suonare, ma che inevitabilmente sprofonda nell’invisibilità.


Nota 1: Antonio Caronia e Domenico Gallo, Philip K. Dick. La macchina della paranoia, Agenzia X, Milano, 2006, p.101.

lunedì 10 aprile 2017

ESEGESI 14 - Tracce di memoria dal futuro


“Ci stiamo facendo il culo al servizio di qualche struttura  assoluta, scopo, meta o bisogno; forse quello che ho visto è una creazione continua e noi siamo operai involontari collocati qua e là, come un milione di api attorno alla struttura, che martelliamo e seghiamo mettendocela tutta, e il progetto non ci è visibile (lo è solo all’architetto). Le nostre istruzioni sono in un qualche modo dentro le nostre teste… ho la netta intuizione, probabilmente giusta, che la nostra serie originale di engrammi, i molti programmi messi in cantiere e poi inibiti alla nascita, vengano continuamente aggiornati  e raffinati durante il sonno; mentre ognuno di noi dorme viene istruito attraverso lo stato del sogno: nel complesso le persone sembrano non soffermarsi mai sul fatto che molto spesso sembra che i sogni abbiano a che fare con il futuro. La ragione è ovvia: è nel futuro che i compiti di cui ci informano i sogni avranno luogo.”(128) Gli engrammi sono tracce di memoria, “modificazioni che avvengono nel cervello, sia fugaci sia durature, che risultano dalla codificazione neuronale di un vissuto”.  Praticamente si possono definire come contrassegni di un determinato evento e contribuirebbero “a rappresentare quel che noi soggettivamente viviamo come ricordo di qualcosa”.1 Ovviamente coabitano dentro il nostro cervello milioni di questi engrammi e il problema, che la scienza non ha ancora risolto, è di come alcuni di essi possano passare da uno stato di inattività latente a uno stato di attività che ci fa ricordare un dato evento. Questa attività cerebrale che per la scienza collega il passato con il presente per Dick collegherebbe il futuro con il presente. Queste istruzioni vengono reiterate nei sogni allo scopo di ripetere l’addestramento originale, quello che ci porterà a reagire in un dato modo quando un segnale apposito nell’ambiente ce lo segnalerà. Se per un errore si dovesse mancare un segnale spunterebbe  “fuori un intero universo alternativo”.(129)  Quindi l’engramma sarebbe un programma che dal futuro verrebbe a implementarsi nel passato di una persona per poter farla reagire in un dato modo in un determinato tempo. Un percorso prestabilito tracciato dai segnali necessari. La cosa importante però è che sono segnali disinibitori, cioè non innescano riflessi condizionati ma servono a portare alla memoria un addestramento (programma) originario, quel che si deve fare in quell’occasione. Tutto sommato un sistema alquanto macchinoso “un modo tutt’altro che economico e ordinato per Dio di gestire le cose.” In definitiva una programmazione troppo incline alla possibilità di un errore (di una libera scelta dell’individuo?).


Nota 1: Nicolas Pethes, Jens Ruchatz, Dizionario della memoria e del ricordo, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 164.

Tra 7 giorni: ESEGESI 15 - La morte stessa morirà

giovedì 6 aprile 2017

Telepatia


La telepatia è un tema  in Dick che ha una grossa affinità con quello della paranoia: “-Noi schizofrenici abbiamo questo problema, captiamo l’ostilità inconscia degli altri.- -Capisco. Il fattore telepatico. Con Clay andò sempre più peggiorando finché…- Lo guardò. –L’esito paranoide.- -È la cosa peggiore della nostra condizione, questa coscienza del sadismo e dell’aggressività sepolti e rimossi negli altri intorno a noi, perfino negli estranei. Come vorrei che non l’avessimo, lo percepiamo perfino nei ristoranti…-“ NOI MARZIANI (1962). Il telepate è effettivamente un mestiere molto difficile, in cui la capacità acquisita tramite l’addestramento e il duro lavoro risultano importanti forse ancor più delle potenzialità innate: “Un telepate doveva imparare ad avere la pelle robusta. In pratica, doveva imparare a sintonizzarsi sui pensieri consci, positivi, di un individuo, tralasciando la mistura assortita dei suoi processi mentali inconsci. Sbirciando in quella regione, si poteva trovare praticamente di tutto… e quasi in chiunque. Ogni dattilografo che transitava per il suo ufficio aveva pensieri fuggevoli di distruggere il proprio superiore per prendere il suo posto… e alcuni miravano anche più in alto; strutture mentali ricche di fantastiche illusioni personali esistevano anche negli uomini e nelle donne più miti…” NOSTRI AMICI DI FROLIX 8 (1968-9). E forse in realtà la telepatia è qualcosa che tutti possono imparare: “Secondo la teoria di convergenza di Balkani, esisteva una scorciatoia che consentiva un contatto tra le particelle di materia a prescindere dalla distanza che le separava. Era attraverso questo punto di convergenza che le vibrazioni dell’aura si trasformavano in telepatia a largo raggio. Quindi, sempre secondo questa teoria, Balkani era riuscito ad addestrare un discreto numero di persone – tra cui Percy X – rendendole capaci di penetrare la mente anche a distanze considerevoli. Di fatto, però, la teoria implicava che chiunque, nelle condizioni adeguate, avrebbe potuto stabilire un contatto telepatico. In fin dei conti tutti hanno una relazione con il punto di convergenza.” LA CONQUISTA DI GANIMEDE (1964). Oppure si può acquisire per caso: “Con un sospiro, il signor Lee disse: -La scatola empatica l’ha trasformata per un momento in un telepate involontario. È stato un colpo per lei.- Gli batté sulla spalla. –La telepatia e l’empatia sono due versioni della stessa cosa.” I SEGUACI DI MERCER racconto del 1964. Ma per i telepati di mestiere non è solo un lavoro duro e faticoso, è anche un mondo, una forma di vita da cui è impossibile separarsi (e nel caso lo fosse sarebbe estremamente doloroso): “Dai suoi occhi trapelava una sofferenza interiore. –Ormai è finita, è come diventare improvvisamente ciechi. Dopo l’intervento ho urlato e pianto per un sacco di tempo. Non riuscivo ad abituarmi e sono crollata.-“ LOTTERIA DELLO SPAZIO (1953-4). In ogni caso la telepatia vista da quelli che ne sono privi, risulta essere un potere malvagio e opprimente: “-Tutti odiano i Tel- disse Sally. –È un potere cattivo, sporco. Scrutare nella mente degli altri è come guardarli quando fanno il bagno o si vestono o mangiano. Non è naturale.- Curt sorrise. –Sono diversi dai Precog? Non puoi definire naturali nemmeno i nostri poteri.- -La precognizione ha a che fare con eventi, non con persone- disse Sally. –Sapere cosa sta per succedere non è peggio del sapere quello che è già successo.-“ nel racconto IL MONDO DEI MUTANTI (1954). E ancora: “-Sto captando molte stranezze nella sua mente- -Esca dalla mia mente- ribatté brusco Jason, con un senso di repulsione. Non gli erano mai piaciuti i telepati impiccioni, spinti solo dalla curiosità, e quel tipo non faceva eccezione.” SCORRETE LACRIME, DISSE IL POLIZIOTTO (1970). Ovviamente c’è anche chi si serve dei telepati, come, ad esempio, la polizia: “Un poliziotto stava estraendo una barretta telepatica, un sensore che avrebbe captato e registrato i suoi pensieri per dar modo alla polizia di controllarli.” GUARITORE GALATTICO (1967). Se ne servono perfino quelli che combattono i mutanti: “…i castrati telepatici tollerati perché erano utili nella difesa contro altri mutanti.” LE ILLUSIONI DEGLI ALTRI racconto del 1957. Ma per chiunque, anche per chi non ha nulla da nascondere, l’idea di poter essere violati nel luogo ritenuto più sacro e intimo, la nostra mente, risulta intollerabile: “-Le abbiamo inserito nella testa un trasmettitore telepatico che ci tiene costantemente informati.- Un trasmettitore telepatico, fatto con un plasma vivo che era stato trovato sulla Luna. Rabbrividì di disgusto. Quella cosa viveva dentro di lui, dentro al suo cervello, si nutriva, ascoltava, si nutriva…” nel racconto del 1966 MEMORIA TOTALE. E allora ecco che, anche sapendo di fare una cosa illegale, la voglia di opporsi, di resistere si fa avanti, costi quel che costi: “SALVE! QUESTO SCHERMO ANTISONDA LE VIENE INVIATO COI COMPLIMENTI DEL FABBRICANTE E NELLA SINCERA SPERANZA CHE POSSA ESSERE DI QUALCHE VALORE PER LEI. GRAZIE. Nient’altro. Nessuna ulteriore informazione. Aveva riflettuto a lungo. Doveva metterlo? Non aveva mai fatto niente. Non aveva fatto nulla da nascondere, nessuna slealtà all’Unione. Però l’idea lo affascinava. Col cappuccio, la sua mente sarebbe stata soltanto sua. Nessuno avrebbe potuto scrutarla. La sua mente sarebbe di nuovo appartenuta a lui, privata, segreta. Avrebbe potuto pensare come preferiva: una successione sterminata di pensieri a uso e consumo suo, e di nessun altro.” IL FABBRICANTE DI CAPPUCCI racconto del 1955. 

lunedì 3 aprile 2017

ESEGESI 13 - Oh Ho, Oh On


“Ci chiama alla ribellione
per la libertà,
il piccolo vaso d’argilla
che ha forgiato l’universo.”(859)

“Adoreremo il potere per sé, confondendo il potente con il sacro? Tutto quello che è colossale è un inganno. Nella spazzatura rifiutata scintilla la piccola, assennata, limpida voce. Possiamo ignorarla e adorare il potere. Ma l’ironia è che l’adorazione del potere ci deruba del nostro stesso potere: è tutto debitamente preteso da YHWH.1 Adorare il potere esterno significa perderlo da sé, la disparità diviene assoluta. Ho On aveva ragione: il vaso più umile è quello davvero più sacro.”(467) Il piccolo vaso d’argilla, oggetto umile e sacro, che si trova disseminato in numerosi romanzi di Dick2 evolve nella stesura dell’Esegesi da simbolo di una riconciliazione possibile tra ciò che è stato creato e colui che l’ha creato (ricordiamoci come “nella Cabalà, si parla di Shviràth hskrlin, di quei vasi rotti nel momento della creazione”)3 in una figura, all’opposto, di ‘ribellione per la libertà’. Il vasaio non ripara più, l’artigiano evolve nell’artista creatore e l’artista in colui che pensa e agisce la propria ribellione. Ovviamente questo è solo un’azzardata ipotesi interpretativa che vale quanto un’altra, o forse meno; rimane comunque che Oh On o Oh Ho è “il nome di una vaso d’argilla fatto da Dick per un amico” e che “in una precedente visione ipnagogica, Dick sentì il vaso, che si identificò come ‘Oh Ho’, che gli parlava in un tono arrogante e irritato di argomenti spirituali. In seguito Dick teorizzò che il nome ‘Oh Ho’ poteva riferirsi alla frase greca Oh On, che significa ‘Colui che è’. La frase ‘ho on’ appare in Esodo, 3:14, quando Dio si identifica come ‘io sono chi sono’ (nel greco della versione dei Settanta: egò eimi ho on).” (1278 glossario) Avere a che fare direttamente con ‘colui che è’ tramite un artefatto è già un atto di un rapporto diverso col trascendente, un atto materiale che comporta un fare e un disfare. “Sostituite ogni ‘è’ con ‘fa’ e l’ontologia svanisce.”(664) Forse non c’è atto di ribellione più grande!

Nota 1: “YHWH nella Bibbia ebraica il vero nome di Dio” dal Glossario p. 1293

Nota 3: Elie Wiesel, Credere non credere, La Giuntina, Firenze, 1986

Fra 7 giorni Esegesi 14 - Engrammi, tracce di memoria dal futuro

giovedì 30 marzo 2017

Moda


“Nella società del biopotere” ci ricorda Antonio Caronia in un suo seminario su Michel Foucault: “lo Stato ha un tale potere, una tale possibilità di  intervento sui processi vitali, sui processi della vita che non si interessa più di rendere così banalmente uniforme la società”, come accadeva nella società disciplinare, “la gente può vestire come vuole, può avere anche le preferenze sessuali che vuole,  (…) perché tanto è andato più a fondo il potere, controlla un livello che prima non controllava. (…) È l’intera vita degli esseri umani come specie che diventa oggetto di una pratica di amministrazione. Si possono finalmente amministrare i geni della vita.”1 Il mondo che Dick descrive nelle sue opere è un mondo di transizione, di passaggio tra questi due diversi tipi di potere, ed è per questo che anche le più colorate descrizioni dei costumi sessuali, della moda, dei consumi ecc. non sono mai fini a se stessi, ma significano. Stanno lì a raccontare come un determinato periodo storico caratterizza le proprie forme, le proprie modalità di appartenenza a una specifica vita comunitaria.                                                                                                                   Quella che segue è una selezione di esempi riguardanti i modi del vestire: frammenti di un caleidoscopio che caratterizza l’apparente libertà di una società altamente omologata nelle sue effettive pratiche di vita.
“Così questo è il tipo su cui tutti vanno scrivendo, disse Erickson tra sé. Sembrerebbe migliore di noi altri e indossa un completo in pelle di grillotalpa marziano.” SVEGLIATEVI DORMIENTI (1963)
“La cameriera indossava le lunghe calze di fibra e la sexmicetta, che erano i due indumenti femminili maggiormente di moda in quel periodo. La sexmicetta era una tunica corta che lasciava un seno, quello destro, scoperto, e il capezzolo era elegantemente infilato in un raffinato ornamento svizzero, composto di numerosissime parti miniaturizzate; l’ornamento, che aveva la forma di una grande gomma di matita d’oro, con il suo perfetto foro centrale, suonava della musica semiclassica e brillava di una serie di luci dai diversi colori, brillanti e attraenti, che gettavano una trama luminosa sul pavimento, davanti alla cameriera, illuminandole la strada, in modo da permetterle di passare tra le affollatissime tavole del ristorante.” UTOPIA, ANDATA E RITORNO (1963)
“La sbirciò di nascosto e la trovò attraente. I suoi corti capelli color bronzo creavano un gradevole contrasto con la pelle grigio chiara. Inoltre, la ragazza aveva una delle vite più sottili che Joe avesse mai visto, che, come tutto il resto del corpo, risaltava generosamente nella camicetta e nei pantaloni di schiuma-spray permoform.” GUARITORE GALATTICO (1967)
“La porta della stanza si spalancò di colpo. –Che volo!- esclamò ansante Rachel Rosen, facendo il suo ingresso avvolta in un lungo soprabito a squame di pesce sotto cui s’intravedeva una parure identica di calzoncini e reggiseno.” MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? (1966)
E gli svariati esempi in UBIK (1966):
“Lei ricorda questo annuncio, signor Runciter? Mostra un marito tornato a casa dal lavoro; indossa ancora la sua fascia da vita color giallo elettrico, il gonnellino a petalo, calze al ginocchio e un berretto a visiera militare.”
“Una ragazza ossuta con gli occhiali e i capelli lisci giallo-limone, vestita con un paio di bermude e una mantiglia di merletto nero, con l’aggiunta di un cappello da cow-boy.”
“Una donna più anziana, dalla pelle scura e piuttosto bella, con un paio di occhi scaltri e leggermente stravolti, che indossava un sari di seta, un obi di nylon e dei calzini troppo corti.”
“Un ragazzino adolescente dai capelli lanosi perennemente avvolto da una cinica nube di orgoglio; questo abbigliato con una camicia a fiori giganteschi e con calzoni da sci in spandex.”
“signora trentenne e mascolina dalla pelle color sabbia che sfoggiava calzoni in finta vigogna e una camicetta sulla quale era stampato un ritratto sbiadito di Lord Bertrand Russell.”
“Accanto alla finestra, infilato nei soliti eleganti pantaloni in scorza di betulla, la cintura in corda di canapa, una maglietta trasparente e un alto cappello da ferroviere in testa”
“Un uomo calvo, munito di una barbetta caprina, indicò se stesso. Portava un antiquato paio di calzoni di lamé dorato stretti ai fianchi, eppure riusciva ad apparire elegante: forse il merito ricadeva anche sui bottoni della sua camicia verdealga, grossi come uova. Trasudava a ogni modo una grande dignità, una nobiltà superiore alla media. Joe ne fu impressionato.”
“un individuo magro con la faccia seria che sedeva eretto sulla sua sedia, le mani sulle ginocchia. Indossava un costume tirolese in poliestere, copricalzoni di cuoio stile cow-boy decorati con finte stelle d’argento e teneva i lunghi capelli avvolti in una reticella. Ai piedi un paio di sandali.”
“Un giovanotto dal naso sottile, abbigliato con una maxigonna e dalla testa davvero piccola, non più grande di un melone”
“un tizio flaccido di mezz’età con i piedi enormi, i capelli impomatati e la pelle fangosa, senza contare un pomo d’Adamo particolarmente sporgente, che per l’occasione sfoggiava un abito da lavoro color culo di babbuino.”
“Panciuto, tozzo e con le gambe grosse, Stanton Mick avanzò verso di loro. Indossava calzoni da donna a mezza gamba color fucsia, pantofole in pelo di yak rosa, una camicia senza maniche in pelle di serpente e un nastro nei capelli tinti di bianco che arrivavano fino alla cintola.”
“Una persona simile a un coleottero, abbigliata con tipici indumenti del Vecchio Continente: una toga di tweed, pantofole, una sciarpa scarlatta e un berrettino rosso con elica stile anni Cinquanta.”
“Indossava calzoni alla zuava di feltro verde, calze grigie da golf, un giubbotto senza collo in pelle di tasso e un paio di scarpe senza lacci in finto cuoio”


lunedì 27 marzo 2017

ESEGESI 12 - Nel cuore della notte


Angel Archer è il primo personaggio che assurge al ruolo di protagonista nell’ultimo dei romanzi di Dick, l’opera ‘testamento’ La trasmigrazione di Timothy Archer. Angel, per Gabriele Frasca, è la “coscienza infelice” che non solo saprà divincolarsi dalla “struttura delirante” creata dall’ossessiva ricerca della “verità vera” da parte dell’ultimo Dick, ma che saprà anche offrire “al proprio autore, attraverso un esplicito flusso di pensieri, l’occasione, prima che la morte lo metta a tacere per sempre (…), di una straordinaria consapevole confessione.”1 Quello che in sostanza Frasca ci dice della confessione di Dick tramite Angel è che tutta questa ossessiva ricerca del vero altro non è che un “pacco” (a packaged fraud)2 e che questa “fame” di assoluto è ciò che rende la vita non vissuta e quindi inutile. L’ultimo romanzo, come lascito dickiano, si presenta perciò nella forma di monito a non seguire le sue orme; un romanzo dipinto “col pennello del Flaubert più acido, quello di Bouvard et Pécuchet per intenderci” che raccontando dei rotoli del Mar Morto e “della misteriosa setta dei zadochiti, finisce col diventare l’ennesima ‘idea prevalente’ che consegna, col dovuto anticipo, gli ‘stupidi’ alla morte.”3 Quel che sembra possa desumersi da questa articolata e stimolante critica di Frasca è che l’ultimo Dick, quello di Valis (ma anche di conseguenza tutta quella vena di ricerca sulla ‘verità’ che attraversa l’intera sua opera) altro non è che la dimostrazione dello spreco di un’esistenza vissuta nella ricerca del motivo del nostro esistere e patire. Un fallimento che si salva in extremis con questo testamento confessione che consente di ribaltare la sentenza su tutto questo lavorio intellettuale rivedendolo come una sorta di antidoto (Ubik), capace di smontare il grande sciocchezzaio delle futili parole e permettendo così di “avere il coraggio di assumere ciò che va assunto, e poi, con altrettanto coraggio, in un’epoca in cui la massiccia dose di informazioni ci arreda costantemente la vita coartandoci al passato ‘narcisistico’, (…) espellere tutto il resto.”4 Ma ora che abbiamo a disposizione l’Esegesi, anche se solo in forma parziale, possiamo renderci conto che la febbricitante ricerca dickiana non termina col testamento di Archer; il sciocchezzaio dei Bouvard et Pécuchet continua, come continua la vita e, forse, quest’ultima continua proprio perché caparbiamente non si vuole accettare di “espellere tutto il resto”. In altri termini: se fosse possibile espellere dalla vita ciò che non serve cosa rimarrebbe?                                                              
“Nel cuore della notte ho avuto un’intuizione straordinaria.”(1240)

Nota 1: Gabriele Frasca, Come rimanere rimasti, in Trasmigrazioni. I mondi di Philip K. Dick, a cura di V. M. De Angelis e U. Rossi, Le Monnier, Firenze 2006 p. 251 (lo stesso testo ampliato in: G. Frasca, L’oscuro scrutare, Meltemi, Roma 2007)
Nota 2: ivi, p. 249
Nota 3: ivi, p.251
Nota 4: ivi, p. 258

Tra sette giorni: Esegesi 13 - Oh Ho, Oh On

giovedì 23 marzo 2017

Verità


“Papageno: -Figlia mia, cosa dovremmo dire ora?-
Pamina: -La verità. Questo diremo.-“
MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? (1966)

“Tu conoscerai la verità, pensò Adams, e grazie ad essa sarai libero.” LA PENULTIMA VERITA’ (1964) 1 Ma forse nella traduzione italiana si sarebbe potuto anche scrivere: “…grazie ad essa non potrai essere assoggettato, reso schiavo.” Essere libero, nel mondo dickiano, è un’affermazione un po’ troppo forte. La verità è qualcosa in sé  pericolosa, che potrebbe portare a effetti molto simili a quelli di una crisi psicotica: “-Hai avuto un episodio psicotico, stanotte?- -Neanche lontanamente. Ho avuto un momento di verità assoluta.” I GIOCATORI DI TITANO (1963). Ma se è chiaro, almeno per chi frequenta spesso la narrativa dickiana, che la verità assoluta (la realtà ultima che sta dietro tutte le cose) non è accessibile se non, appunto, come allucinazione psicotica o visione mistica, la verità, quella più prosaica, quella sulla condizione umana, non è detto che sia meno pericolosa: “La verità! Che cosa voleva dire? Come per un bambino che si arrampicasse sulle ginocchia di un Babbo natale in un grande magazzino, sapere la verità sarebbe stato come piombare a terra stecchiti. Era questo che volevo?” L’ANDROIDE ABRAMO LINCOLN (1962); “Pensavo che un dottore, come un avvocato o un prete, potesse superare lo shock di vedere la vita così com’è: pensavo che la verità fosse il suo pane quotidiano.” ILLUSIONE DI POTERE (1963); e ancora: “-È strano- disse Juliana. –Non avrei mai pensato che la verità la facesse arrabbiare.- La verità, si disse. Terribile come la morte. Ma più difficile da trovare.” LA SVASTICA SUL SOLE (1961). E anche quando si prova a prendere delle contromisure, a governare le pretese della verità, il risultato non può che essere sconcertante: “-Jones può benissimo dissentire. Può credere a quello che vuole; può credere che la terra è piatta, che Dio è una cipolla, che i bambini nascono nelle buste di plastica. Può avere l’opinione che preferisce; ma quando comincia a spacciarla per Verità Assoluta….- -lo sbattete in prigione- disse Nina rigida. –No- la corresse Cussick. –Tendiamo la mano, diciamo semplicemente: dimostra o stai zitto. Conforta i fatti quello che vai dicendo. Se vuoi dire che gli ebrei sono la radice di tutti i mali – devi provarlo. Lo puoi dire, se riesci a dimostrarlo. Altrimenti, fila ai lavori forzati.-“ E JONES CREO’ IL MONDO (1954). La verità è in effetti una materia difficile da trattare e alle volte è meglio preferirle delle rassicuranti menzogne: “-Ma certo,- Jason provò un moto di simpatia. La verità. Aveva spesso riflettuto, è sopravalutata come virtù. Nella maggioranza dei casi, una bugia comprensiva ottiene risultati migliori ed è più misericordiosa.” SCORRETE LACRIME, DISSE IL POLIZIOTTO (1970). Ma Dick è sempre pronto a ripensarci e in uno dei suoi ultimi romanzi  DIVINA INVASIONE (1980) ribalta nuovamente la questione: “-La grigia verità è meglio del sogno- disse lui. –E anche questa è verità. La verità ultima, definitiva, è che la verità è meglio anche della più pietosa delle menzogne. Non mi fido di questo mondo perché è troppo dolce.”

Nota 1: La precedente traduzione dell’Editrice Nord di Mauro Cesari (per gentile concessione della casa editrice La Tribuna, Piacenza) ha questa diversa versione: “Conoscerai la verità, pensò Adams, e la verità ti renderà schiavo.”  Maurizio Nati ripristina la traduzione corretta di “Yes hall know the truth, Adams thought, and  by this thou shalt enslave.” 

lunedì 20 marzo 2017

ESEGESI 11 - Sul bordo

disegno di Marisa Bello

“Sì, sono sul bordo della realtà;
livello dopo livello, ognuno più
ontologicamente reale del precedente,
e poi… il nulla. Il vuoto.
Solo un debole vento che smuove la realtà,
che la strattona.
E magari un luccichio di colore,
per un attimo.(866)

“Nelle storie di Dick, fra tutta l’angoscia per gli universi che si disintegrano e la realtà instabile, c’è sempre la sensazione di una realtà ultima nascosta sotto la contraffazione.”(130 nota)  Gabriel Mckee, l’autore di questa nota porta come esempio della fede in un assoluto da parte di Dick le figure di Ubik, di Colui che Cammina sulla Terra1 e di Wibur Mercer2. “Contrariamente alle apparenze qualcosa è davvero reale” e questo collocherebbe, in definitiva, Dick “nella tradizione dei mistici apofatici3 come Meister Eckart o l’anonimo autore di La nube della non conoscenza4.” Ora, se non c’è dubbio che Dick parli spesso di una realtà altra, che sta dietro, nascosta, è altrettanto vero che questa realtà ultima viene sottoposta dallo stesso Dick a un tale spingi e tira che alla fine il tirare, al contrario della realtà che viene tirata, risulta essere l’unica vera realtà. “Heidegger dice: ‘perché c’è qualcosa invece del nulla?’ Al che chiedo: ‘perché Heidegger pensa che ci sia qualcosa invece di nulla?’ Il tirare è reale e il campo della realtà che viene tirato non lo è. Così che ciò che è genuinamente reale viene indicato dal suo effetto sul ‘campo della realtà’ (che non è reale), ma che cos’è che tira io non ne ho idea.”(890) Allora su quale bordo di realtà si situa Dick e che tipo di fessura è quella che si è prodotta dall’esperienza del 2.3.74? Una fessura da cui guardare la realtà, quella vera, ultima come suggerisce Mckee, o quella che affaccia al baratro della follia di una realtà non più condivisa,  o ancora qualcosa di altro? Qualcosa d’altro che sia più simile allo sguardo del genealogista foucaultiano che a quello del mistico; uno sguardo che si apra alla consapevolezza che “il mondo  non è una rappresentazione che consenta di mascherare una realtà più vera e nascosta dietro le quinte. Il mondo è così come esso appare.”5 Dick confessa che ha “dovuto sviluppare un amore per il disordine e la confusione, vedendo la realtà come un grande enigma da fronteggiare gioiosamente, non con la paura ma con infaticabile fascinazione. Quello che serviva di più era la messa a prova della realtà, e la disponibilità ad affrontare l’esperienza che si autonega: ovvero le autentiche contraddizioni, con qualcosa che è allo stesso tempo vero e non vero.”(738) Cioè qualcosa che si può indagare ma che non può avere nessuna pretesa di autenticità, men che meno rimandabile a una qualsivoglia autenticità dietro le quinte. La realtà del chiosco di bibite in ‘Tempo fuori di sesto’ si dissolve lasciando al suo posto un foglietto con su scritto chiosco di bibite, non aprendo un varco verso una qualche alterità. Banalmente rimane un nome, una nominazione. Un’illusione non nasconde altro che se stessa, ma il rapporto di questa con noi stessi è tutt’altro che illusorio: “tutto quello che bisogna fare è credere totalmente che lo schema ‘X’ esiste e se ‘X’ è potenzialmente reale passerà per autentico. Questo richiede una relazione spingi-tira fra la persona e la realtà. Non può, diciamo far nascere una fenice azzurra ex nihilo; la persona deve entrare in un progressivo, intricato dialogo con la realtà in cui c’è risposta fra entrambe le parti. (questo presume capacità di sentire, volontà e intenzionalità nella realtà). È richiesta  la messa alla prova della realtà, non la sua assenza. Sta soppesando le sue parti flessibili più morbide, dove cederà, quanto e in qual modo.”(739-740) Possiamo anche considerarla illusione ma è un’illusione i cui effetti non possono essere che reali.

Nota 1: Labirinto di morte (1968)
Nota 2: Ma gli androidi sognano le pecore elettriche? (1966)
Nota 3: pervenire alla conoscenza di Dio tramite  negazioni: Dio non è…   http://www.treccani.it/enciclopedia/apofatico/ 
Nota 4: The Cloude of Unknowyng) è una guida spirituale pratica scritta nel XIV secolo da un anonimo inglese. Il testo è scaricabile qui: http://gianluca05.altervista.org/alterpages/files/nubenonconoscenza.pdf 

Nota 5: H. L. Dreyfus – P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, La casa Husher, Firenze, 2010, p.166

Tra 7 giorni: Esegesi 12 - Nel cuore della notte

giovedì 16 marzo 2017

Paranoia


“Ben presto sono cominciate a succedere  
cose impossibili; mi sono ritrovato in quel
tipo di universo metastatizzante di
plastilina in cui scrivo…”              
(Esegesi)1                                                                 

“-Paranoia- mormorò il dottor Sign. –La sensazione di essere guardati.-“ IN SENSO INVERSO (1965).

Se scrivere può aiutare a mettere nero su bianco le proprie paranoie, strutturandole in una materia narrativa che aiuta a distanziarsene, nel caso di Dick potrebbe sembrare al contrario che questa stessa narrazione, divenendo autonoma, si sia impossessata del proprio creatore:  “Una psicosi paranoica. Immaginare di essere il centro di un enorme sforzo collettivo di milioni di uomini e donne, che richiede miliardi di dollari e un lavoro infinito… Un universo che orbita intorno a me. Ogni molecola si muove pensando a me. Un’irradiazione di importanza che arriva… fino alle stelle. Ragle Gum. Oggetto dell’intero processo cosmico, dal principio fino all’entropia finale. Tutta la materia e lo spirito, fatti per ruotare intorno a me.” TEMPO FUORI DI SESTO (1958). In realtà Dick si compiace di far coesistere la propria immaginazione fertile di idee sempre nuove con le proprie (e altrui) ossessioni, ma sa padroneggiare entrambe non perdendo mai la coerenza interna del racconto, anche del più assurdo, e, al contempo, riuscendo a vivisezionare l’esperienza paranoide: “È la mia casa. Nessuno mi ci metterà mai fuori. Quali che siano le ragioni per per cui vorrebbero o vogliono farlo. Supponendo che ci siano dei ‘loro’ che mi stanno osservando. Paranoia. O piuttosto l’’esso’ spersonalizzato, e non ‘loro’. Qualsiasi cosa sia ciò che stanno osservando, non è umano. Non secondo il mio metro, almeno. Non ciò che io riconoscerei come umano.” SCRUTARE NEL BUIO (1973). Una sensazione, nell’essere osservati, guardati, che si può trovare fin dalle prime opere di Dick: “-C’è qualcuno, qui, che conosce ogni cosa. Il perché e il percome. Qualcosa che mi sfugge. Qualcosa di ominoso e alieno. E voi ve ne state seduti a trastullarvi.-“ LA CITTA’ SOSTITUITA (1953). E ancora, sempre nella prima produzione dickiana, nel racconto NON-O del 1958: “-Hanno sempre classificato la paranoia come malattia mentale. Ma non lo è! Non c’è una mancanza di contatto con la realtà. Al contrario, il paranoide ha un rapporto diretto con la realtà. È un empirista perfetto. Non contaminato da inibizioni etiche e morali-culturali. Il paranoide vede le cose  come realmente sono. In effetti, è l’unico individuo sano di mente.” E a proposito del racconto COLONIA del 1953 lo stesso Dick  in una nota pubblicata in occasione della ristampa del racconto, in un’antologia del 1976, scrive: “L’apoteosi della paranoia non è quando tutti sono contro di te, ma quando tutto è contro te. Non ‘il mio capo sta complottando ai miei danni’ ma ‘il telefono del mio capo sta complottando ai miei danni.’ A volte, gli oggetti sembrano possedere una volontà loro anche per una mente normale; non fanno quello che dovrebbero fare, ci si mettono fra i piedi, dimostrando una resistenza innaturale ai cambiamenti. In questa storia ho cercato di immaginare una situazione capace di spiegare in maniera razionale il bieco complotto degli oggetti contro gli esseri umani, senza allusioni a malattie mentali degli esseri umani.”


Nota 1: Philip K. Dick, Esegesi, Fanucci, Roma, 2015, p.686