domenica 24 febbraio 2019

La storia non si fa con i se



La storia non si fa con i se! Ma ne siamo proprio sicuri? Se le forze dell’Asse avessero vinto la II^ Guerra Mondiale… è un puro gioco di fantasia, nulla a che fare con la storia, con ciò che è realmente accaduto; è vero, ma non così semplice come sembrerebbe a prima vista. Quel “se” è eludibile solo e a patto che si costruisca prima di tutto l’impianto storico, l’accaduto, il certificato. Bisogna partire dal fatto che c’è stata una guerra e che è stata mondiale, che è iniziata in un determinato posto, che ha avuto degli antefatti, delle cause accertate, uno svolgimento nell’arco dello spazio e del tempo e una fine. Cosa si potrebbe obiettare a tutto ciò? Eppure tutto questo va costruito, puntellato fin nei minimi dettagli, in un lavoro che non può mai considerarsi del tutto esaurito. Senza questo, quell’incongruo “se” potrebbe rimanere in sospeso e aleggiare inquietante e spettrale sopra le nostre teste. In fondo chi ci dice che la storia si inerpichi lungo il percorso del tempo costruendo la propria continuità, la fedeltà al proprio divenire, inanellando cause ed effetti in un’eterna processione consequenziale? In campo letterario, un oggetto affatto particolare, il romanzo ucronico, quella strana invenzione che fantastica sulle possibilità del “se” storico, invece di congiurare anch’esso a favore di quell’aura di incertezza propria del carattere paradossale di quella particella grammaticale, certifica invece l’assoluta verità della storia nella sua essenza più profonda. Quasi una prova del nove, il far ripartire la storia da un punto qualsiasi lungo l’asse del tempo storico, modificandone uno degli elementi, crea un ricombinamento a catena che costruisce un nuovo itinerario.  La storia non accetta determinismi ma solo cause che ne determinano il corso. Il “se fosse possibile ripartire diversamente da un punto” certifica l’unidirezionalità del tempo storico. La freccia è rivolta in avanti e solo così può essere letta. Piuttosto che dire che la storia non si fa con i “se”, non sarebbe più corretto dire che la storia si fa scartando innumerevoli “se”, fino a che il “se” più favorevole alla nostra ricostruzione non ci appare come il più vero, l’unico possibile?
Il romanzo ucronico viene spesso circoscritto nell’ambito del genere fantascientifico, in realtà, come osserva Emiliano Marra nell’introduzione della sua documentatissima tesi “Storia e controstoria – Ucronie italiane: un panorama critico1 “gli studi che, per quanto diradati, si sono moltiplicati negli ultimi trent’anni, considerano l’ucronia come autonoma rispetto alla fantascienza e distinta soprattutto dalle allostorie più strettamente interne al genere, ovvero quelle basate sulla comunicazione fra i mondi possibili.” Va peraltro  detto che quello che viene considerato il più importante romanzo ucronico La svastica sul sole (o L’uomo dell’alto castello) di Philip K. Dick va ascritto proprio a questo genere popolare.2  Ma proprio questo capolavoro dickiano che Marra accosta a un’altra importante testo ucronico italiano Contro-passato prossimo di Guido Morselli, in realtà risulta piuttosto distante  “negli esiti degli ammiccamenti metafinzionali degli altri testi ucronici precedenti e, in parte successivi” in quanto questi “si limitano a giocare con le aspettative del lettore e la sua conoscenza del continuum degli eventi” e pertanto tendono in ultima analisi a “un intrattenimento innocuo”. Al contrario Dick (e Morselli, ma qui ci limiteremo al solo caso di Dick, rinviando alla tesi di Marra chi volesse entrare nel merito dell’approfondita comparazione tra i due) punta “invece all’opposto, mira alla scompaginazione del quadro, a far emergere la labilità del reale e la sua indeterminatezza che non consente di incasellare nemmeno i grandi eventi storici in una rete inquadrabile di rapporti causa-effetto diretti e quindi, in qualche maniera, prevedibili grazie a qualche filosofia positiva o progresso scientifico-tecnologico che dir si voglia.” Scompaginare l’idea che noi abbiamo della storia, ribadire la non linearità degli eventi e soprattutto il loro carattere meramente probabilistico”, e per far ciò si può, e forse anche si deve, piegare gli aspetti storici, per altro accuratissimi e preparati con estremo zelo documentario, per le finalità che l’autore stesso si era proposto. “Si pensi alla rappresentazione idealizzata dell’imperialismo giapponese (…) spesso criticata come poco verosimile, eppure perfettamente funzionale allo sviluppo della storia, altrimenti la psicologia ambivalente di Tagomi e dei suoi conflitti interiori non rivestirebbe un ruolo altrettanto pregnante.” Osservazione molto importante per capire l’eccezionalità di questo romanzo nell’universo letterario ucronico, ma che necessità di una precisazione: l’inverosimiglianza di quell’immagine così idealizzata dell’imperialismo giapponese ha un substrato di realtà, anche se solo psicologico, e riguarda il senso di colpa degli americani per come hanno trattato “i circa 90.000 californiani di origine giapponese, deportati in massa in campi di concentramento” durante il “clima d’isteria collettiva che si diffuse nello Stato dopo Pearl Harbour (con) lo spettro di un’imminente invasione giapponese.”3 Come anche testimonia il film Un giorno maledetto del 1955 con un Spencer Tracy che assurge a simbolo di una democrazia che per quanto possa essere menomata (come il protagonista con un arto mancante) è ancora in grado di vendicare i torti subiti dai più deboli, in questo caso un vecchio giapponese padre di un eroe morto al fronte. Ma l’ucronia dickiana va forse più in là di una semplice “sensazione che il grado di realtà fra le varie opzioni del grande ventaglio delle possibilità  (sia) del tutto paritario”. I vari livelli di realtà del romanzo, il testo zero (il presunto nostro), quello primario (in cui si svolge la storia) e quello secondario (del romanzo nel romanzo) come scrive Carlo Pagetti nella prima introduzione del 1977 (giustamente apprezzata da Marra) “alla fine del romanzo di fronte alla pagina che diviene bianca, i tre testi coincidono: è Juliana che è cambiata, e con lei la realtà”. E cioè, almeno come la leggo io, nella famosa boutade dello stesso Dick “la realtà è quella cosa che, anche se si smette di credervi, non scompare” non si può far rientrare la certezza dell’esistenza di una realtà che non sia altro che quella pura e semplice constatazione fenomenica. La realtà c’è ma è imperscrutabile, è inconoscibile nella sua verità ultima. Cioè non c’è nell’opera di Dick nessun tentativo, neanche in abbozzo di costruire “una teoria critica della realtà”, nessuna “ipotesi di fantascienza realista.” 4  È piuttosto la possibilità di intervenire sui soggetti umani, di vedere le loro trasformazioni e con queste il trasformarsi di una realtà più che “complessa”, fluida, magmatica, in continuo divenire e pertanto, di conseguenza, sarà solo nella realtà dell’illusione che ci sarà dato, appunto, di intervenire. In tutto questo l’ucronia di La svastica sul sole va forse letta più come un’antiucronia, in quanto considera la storia  come un incubo da cui occorre svegliarsi.
2.       Anche se va precisato che “con ‘La svastica sul sole’ Dick cerca di smarcarsi definitivamente dal genere che gli era servito come trampolino per affermarsi come autore indipendente dai generi della narrativa di massa” , tentativo che si infrange “definitivamente nel 1963 , dopo il Premio Hugo e un successo di ‘La svastica sul sole’ confinato solamente all’interno della nicchia del genere.” (Marra)
3.        Postfazione di Luigi Bruti Liberati, La svastica sul sole, Fanucci, Roma
4.        Domenico Gallo, Il sogno di Galileo e l’incubo di Philip K. Dick, in G. Viviani e C. Pagetti (a cura di) Il sogno dei simulacri: una completa rassegna di contributi critici sull’opera letteraria dello scrittore americano, Milano, Nord, 1989.

sabato 23 febbraio 2019

Blade Runner 2049



Se ci fosse bisogno di una prova per dire che la fantascienza è finita, ha esaurito la sua funzione, quella che per tutto il Novecento ci ha accompagnato nell’abituarci, nel rendere la nostra mente capace di sopportare i vorticosi cambiamenti che le conquiste tecnologiche e scientifiche stavano operando nel nostro quotidiano (nella nostra capacità di vivere uno spazio e un tempo, le relazioni sociali, il rapporto col nostro corpo in continua, e sempre più veloce, modificazione), il film Blade Runner 2049, sequel del film cult di oltre trent’anni precedente, ne costituisce, per così dire, la prova provata. Se soprattutto si assiste alla sua visione in una sala di una grande metropoli, all’uscita non si avverte alcuna soluzione di continuità. Non ci sembra proprio di essere stati immersi in un’altra dimensione, in un diverso mondo futuro. Gli abbigliamenti, i rumori, le pubblicità invadenti, gli schermi e le telecamere pervasivi e gli esseri umani con dispositivi permanentemente connessi sono lì ad attenderci nel mondo reale come in quello finto. E poi il senso di precarietà e quel sapore aspro di inquietudine per qualcosa di non precisato ma comunque sempre incombente, sottilmente minaccioso (il terrorista, il folle, il criminale, il drogato, ma anche il semplice mendicante). Tutta la vita ormai sembra un Photoshop, un fake, un effetto speciale, un rumore che assorda e ci altera il battito cardiaco senza nessuno motivo apparente. Non c’è più bisogno di grandi frasi (per quanto puerili) come le navi da combattimento al largo dei bastioni di Orione. La fantascienza di oggi è il nuovo realismo, tutt’al più serve a confermare, a farci dire: sì, è così. Non siamo più sicuri dei nostri ricordi, soprattutto della loro autenticità; non siamo più certi se siamo nati o siamo stati creati, con buona pace del buon vecchio Darwin. Certo, il film è un enorme sciocchezzaio, però andrebbe analizzato, insieme a quegli altri polpettoni come Dunkirk e compagnia bella che l’industria cineteleradiosmartcompweb… (quell’ibrido onnipervasivo che ha divorato i singoli media di un tempo) non cessa di vomitarci addosso. Un lavoro tutt’altro che facile poiché oggi ci mancano quegli attrezzi che una volta ci erano forniti (nel bene e nel male) dalle ideologie; oggi ci sentiamo persi e spaesati, in attesa di una nuova utopia che ci accolga nel suo grembo, parliamo a vanvera di capolavoro e genialità. Avremmo bisogno di nuovi strumenti e in ogni caso di non ridurre tutto a un ‘mi piace’, ‘non mi piace’(una cosa brutta può benissimo piacere e viceversa, per il semplice fatto che il gusto, le emozioni, sono solleticate da tante cose e da momenti diversi). Forse servirebbe reimparare a ragionare ristudiando quei vecchi testi, oggi in disuso, come quelli di Morin o di Bazin, per fare solo due esempi. E soprattutto riprendere a rivedere i vecchi grandi film, la tanto derisa, dagli stolti, Corazzata Potemkin, oppure anche semplicemente ascoltando i commenti ai film di un Veri Razzini (con la sua grande collana di DVD che, ahimè, sembra aver chiuso). Ma si sa, il rumore che ci assorda, i citazionismi farlocchi da altri film più o meno grandi, un vecchio e imbarazzato Harrison Ford e un incolore Ryan Gosling… occorre molta pazienza per non imprecare. E Philip K. Dick? Certo non è stato tradito, come non lo è mai stato in nessun film tratto da una sua opera. Magari un bel tradimento, qualcosa che ci sorprenda, che sappia osare un approccio particolare, irriverente e demitizzante. Tutto il cinema dickiano non fa altro che rifare l’operazione inversa che Dick ha fatto con la fantascienza. Se Dick ha usato nel modo più parassitario e aggressivo la fantascienza, smontandola, parodiandola, facendola a pezzi sempre più minuti e irriconoscibili per poi rimontarla in un’opera affatto nuova, in una sorta di romanzo filosofico per le generazioni del nuovo millennio, il cinema non sembra fare altro che riassorbirlo e, depotenziato, riadattarlo a una nuova fantascienza buona per tutti i facili palati. Blade Runner 2049 ne è uno degli esempi più riusciti.