lunedì 27 febbraio 2017

ESEGESI 8 - Attraverso gli occhi dell'Altro



Sicuramente vale anche per Philip K. Dick, nella “sua incredibile (spesso ingenua) apertura all’altro”,1 quello che Michael Bachtin scrive a proposito dell’importanza del nostro rapporto con l’altro2 da noi: “Io prendo coscienza di me e divento me stesso, solo svelandomi per l’altro, attraverso l’altro e mediante l’altro.”3 Nel 1974 Dick, all’inizio della sua Esegesi, scrive: “Tutti gli incontri nel mondo fenomenologico (nel tempo e nello spazio) sono incontri interiori, con costrutti della nostra mente… qui e dovunque andiamo. Per sperimentare genuinamente, per incontrare davvero qualsiasi entità vivente in sé, bisognerebbe starci dentro, e averla in noi. (…) Si condividerebbe il suo mondo, ci si abiterebbe, si possederebbe la sua prospettiva; allo stesso tempo l’Altro possederebbe ciò che noi abbiamo come visione del mondo. (…) Non si vedrebbe l’Altro, si vedrebbe come l’Altro. Non possedendolo, ma possedendo il suo mondo. E questo non sarebbe tanto un ‘io sono nel tuo mondo e tu sei nel mio’, ma entrambi condividerebbero un mondo formato da entrambi i mondi precedentemente separati.”(91) Non possedendo l’altro ma possedendo il suo mondo e lui il nostro, e questo in che altro modo se non trovandoci reciprocamente in una zona di confine, liminare. Ci ricorda a proposito Bachtin: “tutto ciò che è interiore non è autosufficiente, è rivolto in fuori, è dialogizzato, ogni esperienza interiore viene a trovarsi sul confine, s’incontra con l’altra, e in questo incontro pieno di tensione sta tutta la sua sostanza.”  e ancora “l’uomo non ha un territorio interiore sovrano, ma è tutto e sempre al confine, e, guardando dentro di sé, egli guarda negli occhi l’altro e con gli occhi dell’altro.”4 Guardando ai romanzi di Dick e all’importanza che in essi rivestono due temi affini come l’empatia5 e la fusione6 si potrebbe essere portati a pensare che questo mondo condiviso, di confine, sia il mondo in cui tramite la capacità empatica l’incontro con l’Altro si realizzi attraverso una reciproca fusione. Ma in realtà sono proprio i personaggi più empatici, e che sono per questo quelli che provano più sofferenza nella tensione verso l’Altro, a rifiutare la fusione. E il Joe Fernwright di Guaritore galattico che rifugge dall’alettante simbiosi con il Glimmung e Il Rick Deckard che non si fonde nel mercerismo, così come il Barney Mayerson che rifiuta la fusione coatta col mondo totalizzante di Palmer Eldritch. Ci avverte a tale proposito ancora Bachtin: “di che cosa si arricchirà l’evento, se io mi fondo con un’altra persona e, invece di due se ne ha una?”7 Per Dick non di una fusione si tratta infine, ma di “una sovrapposizione più grande di quella che ciascuno dei due possedeva (…) Quest’improvvisa visione doppia, sovrapposta e simultanea verrebbe vissuta come se si guardasse una profondità addizionale: come se aggiungessero un’ulteriore dimensione spaziale. Come un abitante di uno spazio a due dimensioni all’interno di uno tridimensionale.”(91)

Nota 3: Michael Bachtin, L’autore e l’eroe, Einaudi, Torino, 1988
Nota 4: M. Batchin, L’autore e l’eroe, cit. p. 324

Nota 7: M. Bachtin, L’autore e l’eroe, cit. p. 79

Tra 7 giorni Esegesi 9 - Stasi

lunedì 20 febbraio 2017

ESEGESI 7 - Autore... chi?


“Diciamo che io sono ispirato a scrivere quello che scrivo da un’entità creativa al di fuori della mia personalità cosciente. (…) Non c’è dubbio che in tutta franchezza io non scrivo i miei romanzi nel vero senso della parola: essi provengono da qualche parte di me che non sono io.”(48-9) Questa distanza dell’autore dalla propria opera, al di là dell’abusata posa comune a tanti artisti, in Dick si colora di un’indicazione su una presunta provenienza in ‘qualche parte di me che non sono io’. In un altro momento riflettendo ancora sul rapporto con la propria opera sente “di essere stato molte persone differenti. Molte persone sono state sedute davanti a questa macchina da scrivere, usando le mie dita. Scrivendo i miei libri.” E estremizzando, prosegue dicendo che: “I miei libri sono falsificazioni. Nessuno li ha scritti. È stata la dannata macchina da scrivere, è una macchina da scrivere magica. O come John Denver trova le sue canzoni: li prendo dall’aria. Come le sue canzoni, i miei libri sono già lì. Qualsiasi cosa voglia dire.”(62) Non  è questo solo un problema di “dissolvenza dell’autore, disseminazione dell’opera, emergenza della collettività all’interno di una operatività artistica diffusa”1 non si tratta qui del confronto tra l’individuo e la collettività dal punto di vista del campo del fare artistico (se mai all’interno del passaggio dalla modernità alla postmodernità); qui entra in ballo il discorso sull’io, e su quell’io gonfiato da quella pretesa del dire autentico, originale. Non solo quel prendere da un humus creativo diffuso, (cosa del resto riconosciuta normale, per chi è onesto, nel fare artistico), qui si parla di ‘falsificazioni’, di macchine da scrivere che magicamente producono dal nulla. Michel Foucault incidendo in profondità il bisturi nella presunta materialità dell’autore ci dice che: “L’autore – o ciò che ho provato a descrivere come la funzione-autore – è probabilmente soltanto una delle specificazioni possibili della funzione-soggetto. Specificazione possibile o necessaria? Guardando le modificazioni storiche che si sono succedute, non sembra indispensabile, assolutamente, che la funzione-autore rimanga costante nella sua forma, nella sua complessità e finanche nella sua esistenza. Si può immaginare una cultura dove i discorsi circolerebbero e sarebbero ricevuti senza che la funzione-autore apparisse mai. Tutti i discorsi, qualunque sia il loro statuto, la loro forma, il loro valore e qualunque sia il trattamento che si fa loro subire, si svolgerebbero nell’anonimato del mormorio.”  Potremmo immaginarci a questo punto gli ottomila fogli dell’Esegesi non più salvati dalla solerzia dell’amico Paul Williams ma lasciati all’incuria, e sparpagliati, circolare per varie mani non innocenti, saccheggiati e manipolati fino a diventare una seria disputa tra appassionati e critici sulle presunte autenticità. “E dietro a tutte queste domande non si capterebbe altro che il rumore di un’indifferenza: ‘Cosa importa chi parla?’”2 Dick, questo ‘Hemingway della sub-cultura’3  potrebbe dire che chi parla è Valis e forse Foucault l’avrebbe trovata una risposta persuasiva.

Nota 1: Antonio Caronia, Reti e comunità. Oltre l’autore  
Nota 2: Michel Foucault, Che cos’è un autore?, in Scritti letterari, Feltrinelli, Saggi UE 2010, p. 21

Nota 3: Lawrence Sutin, Divine invasioni, Fanucci, Roma 2001, p.256


27 febbraio: Esegesi 8 – Attraverso gli occhi dell’altro 

lunedì 13 febbraio 2017

ESEGESI 6 - Nell'emporio di Archer


“La bottega sembrava zeppa di ogni specie di oggetti strani… ma il più strano di tutto era che, ogni qual volta Alice guardava attentamente uno scaffale, per veder bene quello che conteneva, quello appariva d’un tratto ai suoi occhi completamente vuoto, mentre gli altri tutt’intorno erano pieni zeppi. –Ma qui gli oggetti sembra che volino via,- disse ella alfine con voce lamentosa, dopo aver passato un minuto o due a inseguir vanamente una grossa cosa scintillante, che ora sembrava una bambola, ora una scatola di lavoro e si trovava sempre nello scaffale sopra quello in cui guardava. –E questo è il più irritante di tutti… ma vi dirò…- aggiunse, colpita da un’idea improvvisa, -che voglio seguirlo fino al ripiano lassù in cima. Non immaginerà di potersela svignare attraverso il soffitto, spero.- Ma anche questo piano fallì; l’oggetto passò tranquillamente attraverso il soffitto, come se per lui fosse una cosa consueta.”1 Nella bottega della pecora le certezze svaniscono, nel mondo di Alice come nel mondo di Ubik. Il non-senso che ne scaturisce ancor più che servire come contrappeso al senso, si insinua, come sostiene Deleuze, alla radice di ogni senso, corrodendolo e logorandolo dall’interno. Il senso si ammala ma al contempo ci costringe a focalizzare su di esso la nostra attenzione, a non darlo per ovvio; il senso si fa materia di lavoro costante. “Per fare un esempio, quando ho visto la Roma del 70 d.C. circa mi trovavo in un momento incredibilmente basso di vitalità (calore perdita morte). Ma come in Ubik (vale a dire nell’emporio di Archer) sia i periodi temporali che gli oggetti all’interno di essi esistevano simultaneamente. In effetti di nessuno dei due si potrebbe dire che è più reale dell’altro… una sorta di oscillazione (eppure in Ubik nessuno dei due era reale: entrambi erano illusori). Questo equivale a dire che si possono sbucciare a ritroso (da una parte) gli strati del 1974 e trovare il 70 d.C., e quindi la realtà con cui si ha a che fare non è una realtà (ma un’illusione)? Uno scherzo, un allestimento scenico? (…) Intuizione: come in Ubik noi (dobbiamo) mantenere il presente con una focalizzazione congiunta di sforzo e attenzione, costringendolo a essere stabile (e a non regredire).”(323) Ubik, quell’’emporio di Archer’2 dove le cose non rimangono mai le stesse; il mondo dickiano apparecchia una propria ‘bottega della pecora’ dove lo straniamento, lo spaesamento, non assolvono a una pura funzione destabilizzante capace di evocare l’insolito, l’inquietante, il non conosciuto: evocazione di un mondo presunto dall’’altra parte’3. Il qui e l’ora sono messi radicalmente in discussione evidenziandone la loro arbitraria legittimazione. Una messa in discussione che ha però in sé la volontà e la possibilità di  costruire una nuova capacità del vedere indispensabile al processo di trasformazione continua a cui la vita è legata per poter essere tale e continuare. “Quella narrazione gnostica su Cristo4 visto simultaneamente come bambino, uomo, vecchio, piccolo e calvo, basso e molto alto… mi ricorda gli avvistamenti, e i contatti ufologici con i fuochi fatui. E Zebra5 ha un po’ di quella qualità giocosa e allegra… proprio così. ‘Guarda sono qui… no, lì. Guarda, sono questo… no, quello.’ (Per esempio dal passato, dal futuro, da un altro pianeta, da un universo alternativo eccetera.) Indovinelli e burle… ci affascinano, ci allettano e ci incantano; e attraverso questo processo la nostra paura dello sconosciuto, del fremd (estraneo) viene meno. E diventiamo anche bambini ammaliati… assolutamente affascinati da questo schema emergente di quello che vediamo. Ci viene offerta in continuazione l’opzione di allontanare quello che ci viene mostrato dal maestro/burlone.”(434)

Nota 1: Lewis Carroll, Attraverso lo specchio, Einaudi Gli Struzzi, 1980 p. 173
Nota 2: Siamo nel 1976, cinque anni prima della stesura dell’ultimo romanzo di Dick La trasmigrazione di Timothy Archer, cosa realmente intenda Dick per ‘emporio di Archer’ rimane misterioso.
Nota 3: Alfred Kubin, L’altra parte, Adelphi, Milano 1965
Nota 4: Parte II^ nota 35: “Probabilmente Dick si riferisce all’Apocrifo di Giovanni, un testo gnostico sethiano in cui un Cristo dall’aspetto mutato dopo l’ascensione appare all’apostolo Giovanni. Gesù gioca un tiro simile negli Atti di Pietro, nel Vangelo armeno dell’Infanzia e in altri testi.”
Nota 5: Zebra, l’animale che si mimetizza nella savana, è un altro nome di Valis.

Lunedì 20 febbraio: Esegesi  7 – Autore… chi?

lunedì 6 febbraio 2017

ESEGESI 5 - Potrebbe non finire con me


Carlo Formenti tra gli studiosi italiani di Dick è quello che più di tutti ha insistito sulla religiosità dickiana, una religiosità “non meno visionaria di quella di Teilhard de Chardin, anche se il Dick ‘teologo’ non gode del credito accordato al filosofo gesuita: forse perché la sua concezione religiosa è decisamente più eretica (in quanto dichiaratamente gnostica, laddove Teilhard de Chardin resta un pensatore cristiano, per quanto atipico)”.1 Per avvalorare la sua tesi Formenti parla di una vera e propria folgorazione nell’incontro di Dick con la mitologia gnostica, e di una conseguente nuova luce sulle sue opere che avrebbero assunto “il significato di una sorte di rivelazione a posteriori.”2 Da qui sarebbero seguiti i romanzi di Valis e la “monumentale esegesi”, un opus che nel suo complesso costituirebbe un “discorso teologico complesso e coerente che, pur restando confinato nei limiti d’una bizzarra ‘religione personale’, intuisce e descrive le suggestioni escatologiche che emanano dalle reti di comunicazione vent’anni prima della nascita di Internet.”3 Il difetto di questa interpretazione teologica sta nell’accostare una visione, per quanto in odore di eresia, come quella di Teilhard de Chardin che poggia su una solida base di fede con una come quella di Dick che ha un retroterra affatto laico, come si evince chiaramente dalla sua descrizione della sua personale esperienza ‘mistica’: “sostanzialmente questa è un’esperienza religiosa, ma è anche di più perché non ci troviamo più in un mondo religioso; io sono una persona secolare e devo comprendere le mie esperienze in questo contesto. Altrimenti, anche se le comprendo, non posso comunicarle.”(99) Dick è persona che vive e sente il proprio essere secolare come il personaggio di Ma gli androidi sognano le pecore elettriche?, Rick Deckard che non può invocare dio per essere salvato dalla ‘tomba del mondo’ come invece può fare il cervello di gallina Isidore. Come Deckard, Dick dovrà portarsi sulle spalle il fardello della propria esistenza umana senza il riparo di fede alcuna e pertanto non potrà più trovare consolazione dalla disperazione. Ma dovrà, potrà tracciare un nuovo cammino per l’umanità: “Dove questo porterà alla fine non so dirlo, ma fino a ora in tutti questi anni nessuno è giunto a trovare risposta alle domande che ho sollevato. Questo è inquietante. Ma… potrebbe essere l’inizio di una nuova era del pensiero umano, di una nuova esplorazione. Io potrei essere l’avvio di qualcosa di promettente: un primo esploratore incompleto. Potrebbe non finire con me.”(972)

Nota 1: Carlo Formenti, Incantati dalla rete, Raffaello Cortina editore, Milano 2000, p. 80
Nota 2: ibidem

Nota 3: ivi p. 81

Lunedì 13 febbraio: ESEGESI  6 - Nell'emporio di Archer