sabato 29 novembre 2014

Medicina


E’ medico il protagonista di uno dei primi romanzi di Dick IL DOTTOR FUTURO (1959) e il mondo del futuro in cui si trova ad essere improvvisamente catapultato è un mondo in cui è la morte e non la vita ad essere privilegiata, e al medico si è sostituito l’eutanasista. Così come è medico Eric Sweetscent, protagonista di ILLUSIONE DI POTERE (1963) che cerca di curare le innumerevoli malattie del capo supremo delle forze terrestri, gravato da enormi problemi e responsabilità tra cui una guerra contro forze aliene. Ma sembra che il vero scopo di Eric, più che diagnosticare le varie malattie del capo, sia scoprire “che cosa lo tiene in vita. E’ questo il vero mistero. Il miracolo.” Un sapere medico inutile di fronte alla morte e alla malattia, capace più di servirsi di una scienza tecnologicamente avanzata in grado di innestare organi nuovi al posto di quelli vecchi e usurati, com’è d’uso nei personaggi ricchi e potenti sparsi qua e là nei vari romanzi dickiani ma tutto sommato ancora abbastanza primitiva nel suo tentare di allontanare il male “con i magici incantesimi della medicina” NOI MARZIANI (1962). Ma bisogna sapere che, come dice il narratore di VALIS (1978) Philip Dick “troppa medicina – mi dissi, ricordando Paracelso – è veleno.” E allora un uomo può guarire “fino a morire”.

venerdì 28 novembre 2014

Antonello Silverini: La città sostituita


Un giallo, anche se il colore di fondo della copertina è un marrone, una terra ocra; in evidenza una figura di profilo che richiama l’immagine dell’investigatore privato, l’occhio indiscreto di tanti romanzi hard boiled e non certo un protagonista della science-fiction e tanto meno del fantasy, a cui questo romanzo potrebbe, con una certa superficialità, essere accostato. La città sostituita è una città di cartone, in piena luce sulla prima di copertina, oscurata nella quarta. Il protagonista l’attraversa, correndo; la luce cade dall’alto e il cappello getta ombra sulla parte superiore del viso, quasi a farne una maschera, a oscurarne l’identità. Ma le ombre finiscono lì, non proseguono sulle case e non si allargano sul terreno. L’unica altra ombra è quella scura compatta che avvolge l’intera pagina retrostante. La città da ‘restituire’, nella bella definizione che le dà Carlo Pagetti nell’introduzione, non è poi diversa da quella fittizia, in piena luce. Quinte fasulle le une e le altre. Il tema è lui, il personaggio, enigma a se stesso, frustrato investigatore della propria identità, sempre più disperatamente consapevole “che il ‘reale’ da lui ricercato è fatto di illusioni, apparenze, scenari artificiali” e nient’altro. Inquietante copertina, nella sua apparente semplicità e azzeccatissima nella sua marcata estraneità all’immaginario iconografico del genere.

Venerdì 5 dicembre la copertina di "Menzogne S.P.A."

giovedì 27 novembre 2014

Antonello Silverini: Dottor futuro


Un’inquietante maschera a forma di uccello copre la parte superiore del dottore del futuro, o meglio, del dottore che si avventura nel futuro. E’ una maschera che richiama quelle antiche, medievali dei medici che si aggiravano nei territori infestati dalla peste. Al posto del cuoio il metallo e a proteggere gli occhi vetri oscurati simili agli occhialini dei saldatori. Un cilindro, una tuba rigida semi arrugginita in testa, un grigio soprabito e la tipica borsa da medico ai suoi piedi, lasciata un po’ discosta per terra. Con una grossa bussola in tasca egli è pronto per avventurarsi verso la nuova frontiera del futuro, un futuro che sa di passato, con gli indiani sotto forma di tanti duplicati di indianino di plastica. Un leggero grigiore plumbeo avvolge il paesaggio, piatto, senza prospettiva, senza futuro verrebbe da dire, e il medico, il cerusico o anche, se si vuole, lo stregone è pronto per affrontare la battaglia di sempre, la lotta contro la peste che dall’inizio dei tempi assilla l’essere umano, la morte. Questa immagine ieratica, composta, salda nella sua volontà di dare battaglia, che sembra indifferente alle innumerevoli sconfitte patite, reclama una particolare attenzione. Dietro la maschera grottesca si intravede un viso impiegatizio, dalle orecchie grandi simili a quelle di Franz Kafka, il Kafka del ministero degli infortuni. Le braccia piccole e le mani che quasi non fuoriescono dalle maniche. E quella grossa bussola che quasi non sta nella tasca. E’ qui che sta la chiave di volta di questa tetra, ma ‘felice’ copertina, in questa saturnale figura in posa, statica, immobile nonostante che pretenda di voler apparire come una figura in viaggio. In realtà figura dell’immobilità e dell’impossibilità di procedere verso un qualunque posto, men che meno nel futuro, quel tempo malato e forse ormai irrimediabilmente morto.

mercoledì 26 novembre 2014

Antonio Caronia: Feticcio e mondo artificiale in Philip K. Dick - II^ Parte


_ (Intervento dal pubblico): nella distinzione tra l’androide e l’uomo la manualità che contraddistingue il secondo è quella componente che in definitiva salva l’umano?
Salva si e no, io sono molto convinto di questa cosa, tanto e vero che sto preparando un libro su Philip K. Dick con un mio collega che uscirà il prossimo anno1, abbiamo fatto un piccolo dizionario dickiano, in cui compaiono una ventina di termini chiave, uno di questi è artigiano. Un romanzo molto significativo da questo punto di vista è Guaritore galattico, c’è un personaggio che fa i vasi…, ora forse la cosa più importante è il ruolo degli oggetti come ad esempio in L’uomo dell’alto castello. Ma perché sono importanti per lui? Perché indicano una sorta, una specie di indicatore di utilità sociale. Questi personaggi, che poi sono gli unici che si salvano… Concordo con Giuliano2 che Isidore fa parte si e no di questa categoria, Ma gli androidi sognano le pecore elettriche? è un romanzo complesso, che confesso io avevo capito poco tanti anni fa e soltanto Blade Runner e il tradimento che ne ha fatto (si chiama Sebastian nel film il personaggio di Isidore) per quanto gli sceneggiatori  abbiano tradito il romanzo, gli hanno amputato la parte più interessante, che è quella di Mercer, quella che faceva capire tutto il resto e quindi hanno dovuto ricorrere ad altre cose, però pur in questo tradimento hanno mostrato un’ambiguità tra l’uomo e l’androide che nel romanzo c’è meno ma che in altri suoi romanzi, se uno li mette insieme fanno venir fuori la figura dell’androide senza quell’insopportabile, per me, coté decadentista di Riddley Scott, la colombina che sale al cielo ce la poteva risparmiare, ma chiudiamo la parentesi. Allora Isidore un po’ meno ma in tutti questi altri personaggi c’è, quello che Dick ci vuole dire, perlomeno quello che anche lui poi intendeva, che la manualità è un indice di rapporti sociali basati, per dirla in termini marxiani, più sul valore d’uso che sul valore di scambio. Usciamo fuori dalla socialità imposta… io capisco il fascino che Dick esercita su molti psichiatri come per altro Ballard, quest’anno abbiamo fatto parecchi convegni in giro su Ballard, c’era sempre uno psichiatra che stava studiando Ballard e diceva delle cose interessanti poi però tra Freud e Jung e noi ci stanno Deleuze e Guattari, ‘L’anti-edipo’ e ci sta tutta la critica a questo concetto di mancanza sul quale secondo me la psicologia a volte casca, perché credo che in gran parte il mondo di Dick sia difficilmente interpretabile facendo leva sul concetto di mancanza, il mondo di Dick è un mondo troppo pieno non è che ci manca qualcosa, ci sono troppe cose semai, non è che ce ne mancano, ma è un discorso che ci porterebbe lontano. Dick aveva una visione molto pratica delle cose… in genere chi è che si salva nei suoi romanzi? In L’uomo dell’alto castello si salva Juliana che è quella che fa i gioielli, perché fa delle cose che poi alla gente servono in qualche modo. In questo romanzo c’è tutta una critica da un punto di vista del feticismo, stando più aderenti alla matrice marxiana, che non alla visione freudiana. Tutta la storia delle armi antiche è una critica… nel romanzo molti degli americani sopravvivono trafficando delle cose per cui i giapponesi stravedono e sono oggetti, manufatti della cultura americana di un tempo che non c’è più, statunitense non americana nativa, e allora ci sono questi che fabbricano gli oggetti falsi e li vendono per veri. Questa è una straordinaria critica del sistema delle merci, in un qualche modo anche se Dick non era affatto marxista, non lo era mai stato però aveva assorbito tutta quell’aura della controcultura americana che anch’essa era stata ben poco influenzata dal marxismo ma più da altri filoni di critica anticapitalistica non marxisti. La critica al sistema delle merci comunque c’è e io credo che la figura dell’artigiano vada connessa con questo genere di cose, cioè con una critica implicita di Dick, molto forte, almeno in un certo periodo della sua vita, poi perse un po’ di interesse, nella filosofia di Valis non c’è più, si parla d’altro. Lui cerca in questi romanzi veramente di risolvere il problema ontologico, di dire cos’è la realtà, almeno in questa fase che io credo poi la più felice narrativamente, la trilogia di Valis è molto bella però per altri motivi, da un certo punto di vista il suo periodo migliore rimane quello dal ’63 al ’69, dal L’uomo dell’alto castello fino a Ubik più altre cose molto importanti dopo. Artigianato, feticismo, manualità questi sono temi in cui in qualche modo mostra, se mostra, qualche possibile via di fuga.


Philip K. Dick al Leoncavallo

_ (dal pubblico): Dick scrive male e i suoi libri scritti agli inizi della sua vita sono brutti, poco interessanti. Ha sofferto nel non essere un vero scrittore.
Dick voleva fare lo scrittore e non lo scrittore di fantascienza. Lui è partito con l’intenzione di voler scrivere narrativa realistica, voleva raccontare, descrivere la provincia americana; aveva dello scrittore, del vero scrittore, narratore, alcune caratteristiche fondamentali, tra cui l’acutezza di osservazione e la paranoia osservativa. In qualche modo poi aveva altre doti che altri scrittori non hanno, era molto chiacchierone, per l’umorismo non si sa, perché bisogna essere amici suoi a volte per ridere alle cose sue, però era brillantissimo in conversazione e alle volte un po’ buffonesco, almeno da certe testimonianze che rimangono dei suoi amici. Però nonostante questo l’atteggiamento di fondo dello scrittore ce l’aveva. Fa alcuni tentativi e vede che nessuno gli pubblica nulla e poi per caso gli pubblicano dei racconti di fantascienza. Dick per molti anni ha avuto questo come cruccio, poi quando ha sposato Anne Williams Rubinstein che era una poetessa, anche se pare mediocre, comunque era una che scriveva, faceva parte del mondo intellettuale californiano per cui lui in tutti quegli anni ha cercato di farsi accreditare come scrittore vero. Però da un certo momento in poi, il fatto che avesse comunque un relativo successo nella fantascienza, L’uomo dell’alto castello ebbe un premio Hugo, premio che gli appassionati danno agli scrittori, non è certo il premio Nebula, molto più prestigioso perché se lo danno fra di loro gli scrittori, il premio Hugo lo danno gli appassionati e quindi a volte vengono premiate delle ciofeche che non si può neanche dire, però a chi piace la fantascienza… però per chi conferma un minimo di distanza critica… però in quel caso il premio fu giusto. Quando cominciarono a invitarlo nelle convention  di fantascienza, un po’ questo trip di inferiorità gli è passato, qualche soddisfazione ce l’aveva e poi quando i professori universitari canadesi di Science-Fiction Studies cominciarono a pubblicare saggi su di lui, Ursula K. Le Guin figlia di un grande antropologo e scrittrice affermata lo stima e scrive cose su di lui, come Stanislav Lem che dice che Dick è un grande ecc. Insomma…



_ Domanda su cos’era Science Fiction Studies
Alcuni studiosi marxisti, marxisti da cattedra si potrebbe dire, parafrasando i marxisti da cattedra dell’Ottocento, di impostazione marxista che vivevano prevalentemente in Canada, tra cui uno che viene invece dal centro Europa, uno che ora vive in Italia e si chiama Darko Suvin, un Croato, uomo di vasta cultura ecc., diedero vita a una rivista chiamata appunto Science-Fiction Studies, però Science-Fiction è scritto col trattino in mezzo, perché loro erano appunto universitari e dovevano distinguersi dal povero Cristo che leggeva Scince Fiction senza trattino, quindi Science trattino Fiction Studies , così sono fatti gli universitari, senza offesa naturalmente, almeno molti di loro insomma. Però erano testi, a volte un po’ noiosetti, c’era un abuso ad esempio di critica strutturalista, faccio mea culpa perché pure io ho scritto un saggio3 su Dick facendo uso del quadrato aristotelico, sono peccati di gioventù, anche se giovane non ero più. Allora pur con tutti questi limiti gli autori privilegiati da questo gruppo furono Ursula K. Le Guin e Philip K. Dick. Dal punto di vista dello stile sono d’accordo con lei ma questo ci serve per capire che ci sono tanti tipi diversi di scrittori e di scrittura, allora scrive male in che senso? E’ uno che scrive rapido, non a cottimo ma di gran getto. Scrive in modo diverso da come scrive male Stephen King, dirò una cosa impopolare, anche Stephen King scrive male, ma per una ragione opposta a quella di Dick, perché Stephen King è pretenzioso, cioè pretende di usare uno stile da grande letteratura e non ne ha i mezzi e quindi casca spesso, fa delle cose mediocri che a me danno più fastidio… se voi prendete ‘L’ombra dello scorpione’, la versione in cui quando  è diventato famoso ha finalmente ripristinato le parti che un provvidenziale editor gli aveva tagliato nei primi tempi e da 350 pagine lo riporta a 600 pagine, è una cosa irritante. Dick è tutt’altro, Dick a volte è un po’ sciatto. Se prendete un altro scrittore importante delle ultime leve, uno scrittore cyberpunk, William Gibson, siamo agli antipodi. Gibson ha uno stile molto estetizzante, una cura della parola centellinata. E’ difficilissimo tradurre Gibson, infatti abbiamo più volte lamentato come sia stato sconciato ‘Neuromante’ in italiano, dato da tradurre a due onesti artigiani, uno dei quali non c’è neanche più, non è per infierire quindi, ma persone che non erano in grado di tradurre uno così. Tradurre Dick è relativamente più semplice, non ha tutte queste ricercatezze linguistiche, ma la scrittura di Dick… Dick aveva un modo magico e terribilmente convincente di tradurre sulla pagina e anche rapidamente, schizzando con poche… cioè se lo traslate nella pittura, un po’ come Leonardo, scusate, ma insomma uno che non finisce le cose alle volte, le lascia abbozzate, ma c’è un fuoco interno, lui è talmente convinto e ha talmente ben organizzati i temi e le robe narrative nella sua testa che anche con quel modo di scrittura le cose traspaiono e voi e noi e tutti quelli che lo leggiamo siamo affascinati, non riusciamo a staccare gli occhi dalla pagina, non riusciamo a mettere via il libro. Io ci ho messo anni ad accorgermi che Dick aveva questo problema, perché i primi libri di Dick che ho letto credevo che fossero delle grandi cose anche dal punto di vista dello stile, mi aveva fregato. Poi uno legge e rilegge, ormai sono quasi trent’anni che non faccio altro, tra le tante altre cose. Ci sono rimasto male pure io all’inizio, poi ho riflettuto e mi sono detto: bene c’è una scrittura alla Proust e una alla Balzac. Dick sta tra i due, anche Balzac ha alle volte delle cose tirate via, anche Dickens, non c’è niente di strano, niente di male. Siccome noi tutti veniamo dopo Mallarmé, dopo Rilke, non è che tutti devono scrivere come loro, sono modelli e stili che vanno bene però ce ne sono anche altri, c’è Joyce, che io amo tantissimo, col suo sperimentalismo verbale ecc. e ci sono altri modelli di scrittura, Dick è uno di questi e ci insegna a essere modesti… è uno stile anche quello, diverso da altri, con opzioni diverse.



_ domanda sulle traduzioni cinematografiche
Su Blade Runner vi ho già detto, cioè Blade Runner è un tradimento fondamentale un film poco dickiano da un certo punto di vista perché sottolinea cose che in Dick non ci sono e preoccupazioni che Dick non ha. Io continuo a sostenere che il film più onestamente dickiano, e non sputatemi addosso, sia Total Recall, perché Total Recall ha dentro la squadra che fece la sceneggiatura un grande personaggio, si chiama Dan O’Bannon che è all’origine di un grande film, Heavy Metal, grande film, se non siete d’accordo con me (parola non udibile), insomma un vero dickiano. Totale Recall sotto, ma neanche sotto, Dick faceva avventura, tutta questa roba di Marte è atmosfera veramente dickiana. Poi ci sono un sacco di cose che nel raccontino non ci sono, perché il racconto We can remember it for you wholesale è di 15 pagine per cui è ovvio che per fare un film di un’ora e mezza… è come adesso Minority Report, ci sono delle cose che nel racconto non c’erano. Ma tutte le cose che hanno aggiunto gli sceneggiatori in Total Recall sono cose plausibilmente dickiane, fanno parte del suo universo. Gli altri mi sembrano tutti un po’… Streamers è un filmetto, il regista non è un gran ché, è mediocre lui. Confessions d’un Barjo  non l’ho visto. Minority Report, trovo che Spielberg ha fatto il suo lavoro e quindi ha ovviamente fallito. Del resto Spielberg ha fatto due grandi film all’inizio, poi dopo Duel e dopo Lo squalo… Cosa ha fatto Spielberg? Non ha utilizzato due delle cose principali che ci sono in quel racconto, cioè il discorso politico contro la società orwelliana e il discorso filosofico sulla possibilità. Minority Report vuol dire rapporto di minoranza, c’è un rapporto di minoranza, la realtà non ha un futuro unico, c’è Borges con ‘Il giardino dei sentieri che si biforcano’  in cui il mondo è una pluralità di possibili. Tutta questa cosa nel film non c’è più, come c’era nel racconto. Non c’è una vera visione differente da parte della terza precog femminile, c’è dietro una roba che lei non poteva sapere, la scena che appare nella realtà, nel film e nella visione della precog, cioè Tom Cruise che sembrerebbe ammazzare l’altro è uguale e identica, non c’è la terza versione. C’è tutto questo pasticcetto, lasciatemelo dire, della storia delle onde, per cui essendosi perso quella cosa lì ne deve costruire un’altra. Fatemi dire però che sono quasi più belli i film su Dick che non sono tratti da Dick. Non Peter Weir con The Truman Show ma eXistenZ di Cronenberg, tutto Cronenberg. Cronenberg è uno che fa film su Dick anche quando non lo dice. In eXistenZ invece voi sapete, lo dice, perché ci sono delle citazioni esplicite per i lettori di Dick. Quando i due scappano e vanno in un motel e mangiano delle pizze, mentre le mangiano la macchina da presa fa uno zoom, inspiegabile dal punto di vista narrativo, sul sacchettino che conteneva le pizze e che sta su un mobile, la macchina zumma e sul sacchettino c’è scritto Perky Pat. I giorni di Perky Pat è il racconto che verrà poi ampliato in Le tre stimmate di Palmer Eldritch. Il suo cinema è disseminato di cose così, sembra proprio che dica guardate le ho prese da Dick. E tutto il film ha esattamente l’andamento di Ubik e di Le tre stimmate di Palmer Eldritch, tu passi da un mondo all’altro e non sai più quale è e queste sono cose tipicamente dickiane. Cronenberg è un grande autore di cinema in modo diverso dalla nostra concezione europeo di film d’autore, fa cinema anche popolare, e lui è ballardiano come è dickiano come è burroughsiano.
_ dal pubblico si cita il film Brazil
Si certo anche Brazil di Tery Gilliam, e vi dirò che secondo me Minority Report deve molto dal punto di vista visivo a Brazil, perché ha preso le stesse idee, facendole poi in maniera diversa, ma di una tecnologia molto sottile sul piano dell’informazione ma molto spessa, densa sul piano fisico. E’ vero che i CD-Rom sono tutti trasparenti ma avete visto quanto sono spessi, sono spesse le pareti del circuito in cui cade la palla, quella pallina è una bellissima invenzione in Minority Report. Tutto questo secondo me deriva da una intuizione bellissima di Terry Gilliam fatta a suo tempo. Brazil è il primo film in cui c’era questa idea che la tecnologia del futuro non fosse così immateriale, che potesse quasi anzi essere più materiale…
(fine della registrazione)
1 Antonio Caronia e Domenico Gallo, Philip K. Dick la macchina della paranoia, Milano, Agenzia X 2006.
2 Domanda precedente (non udibile nella registrazione)

3 A. Caronia, Inchiostro acquoso e storie confuse. Corpo e media in Dick, in Philip K. Dick. Il sogno dei simulacri, a cura di Gianfranco Viviani e Carlo Pagetti. Milano, Editrice Nord, 1989. (qui)

lunedì 24 novembre 2014

Antonio Caronia: feticcio e mondo artificiale in Philip K. Dick - I^ Parte


Quello che segue è il testo di una conferenza di Antonio Caronia su Philip K. Dick tenutasi alla libreria Utopia di Milano il 26 ottobre 2002. Non esiste uno scritto alla base della conferenza ma solo un registrato audio che non ha potuto essere rivisto dal suo autore scomparso nel gennaio dell’anno scorso. Si è preferito mantenere il più possibile l’andamento del parlato, con le tipiche digressioni di Antonio Caronia, sacrificando piuttosto alcune parti difficilmente trascrivibili se non a costo di una pesante riscrittura. Nonostante il suo andamento rapsodico, fortemente digressivo o forse proprio grazie a ciò, questo documento ci mostra una modalità di ragionamento, un moto del processo del pensiero che proprio perché preso nel suo farsi può essere utile tanto quanto un lavoro più organico e ragionato, costruito a tavolino. Sperando di fare cosa gradita a chi l’ha conosciuto e a chi lo ha solo letto, pubblichiamo questa prima parte della conferenza a cui seguirà la seconda, relativa alla successiva discussione col pubblico.                                                                                                          Sull’opera di Dick di Antonio Caronia si possono vedere oltre alla fondamentale Enciclopedia dickiana  pubblicata nel 2006 insieme a Domenico Gallo, le schede a ‘La svastica sul sole’ e ‘I simulacri’ nei “Labirinti della fantascienza” (Feltrinelli 1979, Mimesis 2012); Gli universi di Philip K. Dick (Alter settembre 1982), Philip K. Dick: Realtà e verità (Pulp n.24, marzo-aprile 2000), Philip K. Dick: Deus absconditus (Il Manifesto-Alias 16 febbraio 2002), tutti e tre rieditati in A.Caronia, ‘Universi quasi paralleli’, Roma,  CUT-UP Edizioni 2009; Inchiostro acquoso e storie confuse. Corpo e media in P. K. Dick (qui) ; Philip K. Dick un filosofo in veste di romanziere, Il Manifesto 1.3.2012. (qui)  

"Una stanza per Philip K. Dick" allestimento alla Libreria Utopia di Marisa Bello e Giuliano Spagnul

Philip K. Dick è uno scrittore complesso, complicato. Tutti gli scrittori sono complessi e complicati, certo, ma Dick è particolarmente complesso, particolarmente complicato perché da un certo punto di vista in lui possiamo facilmente trovare temi e atteggiamenti tipici della modernità classica. Intendo come modernità classica anche le sue ultime propaggini, cioè oltre a quelle dell’immaginario inaugurato dalle riflessioni di Baudelaire nella metà dell’Ottocento e poi ripresa e commentata da Benjamin negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, quelle caratterizzate da quei temi e argomenti di quella che si usa chiamare, con un termine molto brutto, lo userò forse qualche volta senza nessun impegno, postmodernità o postmoderno o, si potrebbe dire, quella forma della modernità che si è inaugurata in qualche momento (che non sappiamo bene quale sia) intorno alla seconda metà del secolo XX° in cui tutta una serie di problemi tipici della fase della modernità classica slittano, cambiano significato, vengono poste domande differenti ecc. Allora da un certo punto di vista si potrebbe dire che Dick è decisamente un autore post-moderno per una cosa, per la sua grande attenzione al tema dell’ontologia e al ruolo che lui dà alla possibilità all’interno dell’ontologia. Questo vale soprattutto per la letteratura. Tutti sapete che i grandi romanzi, non solo dell’Ottocento ma anche del Novecento, cioè quelli della tradizione modernista, diciamo Proust, Joyce, Kafka…  ma già nell’area tedesca forse la cosa non è così  semplice, cioè Musil e Kafka forse hanno anche qualche altro… ma insomma soprattutto Joyce e Proust, che sono due tra i “campioni” del romanzo modernista cioè della crisi ecc., ecco la loro narrativa è prevalentemente epistemologica, cioè decostruisce in parte il mondo e l’immagine del mondo che ci siamo fatti ponendo però degli interrogativi radicali sul mondo. La Dublino dell’Ulisse di Joyce è uno sfondo, è qualcosa su cui Leopold Bloom, Dedalus, gli altri personaggi in qualche maniera s’interrogano, che in qualche maniera percorrono. Lo scenario viene dato, quello che è importante e interessante, quello che interessa a Joyce è il modo in cui i suoi protagonisti, i suoi personaggi vedono questa città, che poi ovviamente si dilata a simbolo del mondo ecc. Ma in qualche maniera tutta la narrativa, diciamo classica della modernità è una narrativa dominata dall’epistemologia, cioè si chiede, quella narrativa, che cosa e come il soggetto, un soggetto particolarmente messo in crisi da una serie di processi, può conoscere il mondo. Nella narrativa di genere un tipico esempio di questo procedimento è il giallo, il giallo è una narrativa tipicamente epistemologica, cioè un enigma, l’enigma che si pone il giallo è chi ha compiuto questo delitto e se mai il perché. Sono tutte vere le interpretazioni che si danno sullo sfondo sociale del giallo, ma ripeto tutte queste cose rimangono sullo sfondo. L’interrogativo fondamentale del romanzo poliziesco e poi anche del noir, anche se questo poi introduce anche degli altri elementi, ma il giallo classico, quello di impronta… Poe, Conan Doyle ecc. è un tipo di narrativa che ha il problema del soggetto al centro. Che cosa fa il soggetto, come può padroneggiare la realtà. Bisogna dire che la fantascienza fin dall’inizio ha un atteggiamento abbastanza differente, cioè anche nella fantascienza più ingenua, banale dei primi anni del secolo XX°, fa sempre capolino un problema ontologico, un interrogativo anche implicito, subdolo sulla consistenza del mondo. Perché la fantascienza è nata proprio apposta non per parlare del nostro mondo ma per confrontare mondi diversi, il nostro pianeta con altri pianeti, il nostro tempo con altri tempi, il nostro spazio con altri spazi e quindi da questo lavoro, sia pure molto rozzo, in molti casi molto ingenuo di confronto esce fuori una narrativa che ha una preoccupazione di tipo prevalentemente ontologico, come ce l’ha una narrativa soprattutto americana, quei filoni di narrativa americana degli anni ’50, ’60 noti come letteratura postmoderna e che culminano in questi anni e che partono da John Barth, William Gaddis e che oggi vede tra i nomi più importanti Thomas Pincio e Don De Lillo, narratori ontologici. In loro c’è una domanda continua sulla consistenza della realtà, sullo sfaldarsi della realtà e non solo del soggetto dentro la realtà. Dick nella fantascienza è stato uno di quelli che più hanno spinto, hanno portato avanti questo interrogativo di tipo ontologico. Varie volte nei suoi scritti ha dato una chiave di lettura della sua produzione letteraria, lui ha detto molto spesso: io mi sono posto nella mia opera due domande fondamentali, che cosa è l’uomo, che cosa è la realtà. Che cosa distingue l’uomo da ciò che potrebbe sembrare uomo ma non lo è e che cosa distingue la realtà autentica da quella che potrebbe sembrare inautentica, al di sotto delle apparenze del ‘velo di maja’, per usare un termine della filosofia indiana molto cara a Dick, anche se la sua conoscenza non era poi così approfondita, era un gran lettore, però macinava spesso roba di seconda mano, non era uno che andava a leggersi i testi, parla molto di Parmenide ma non era uno che aveva studiato né i frammenti di Parmenide né i passi di Aristotele che riporta. 



D’altra parte non è che si possa pretendere questo, non lo dico per criticare Dick, ma per mettere nella giusta consistenza un’affermazione che potremmo essere  tentati di fare leggendo le sue cose, un Dick filosofo. Dick non era un filosofo nel senso classico, era principalmente un narratore, e per nostra fortuna, e tutte queste idee lui le andava arraffando qua e là nell’universo mediatico e nelle enciclopedie, di cui era grandissimo divoratore. Molti dei volumi dell’Enciclopedia Britannica che lui possedeva erano consunti e logorati dall’uso. L’Enciclopedia Britannica ha dei gran begli articoli, anche l’edizione degli anni ’60 che lui aveva, a me è capitato per una serie di circostanze fortunate di possederne una copia che non so se sia esattamente l’edizione sua, forse la sua era precedente, la mia è del ’62, e a volte mi sono effettivamente divertito ad andare a vedere alcuni articoli sulla filosofia indiana trovandovi  molte cose che Dick ha usato. E allora torniamo al punto, Dick si poneva questo problema… certamente c’è anche in Dick un interrogativo epistemico, cioè chi è l’uomo davvero, però è sempre fortemente collegato con un interrogativo ontologico, sulla natura e sulla consistenza della realtà. Allora da questo punto di vista si potrebbe, si sarebbe tentati di dire e collocare Dick sul versante del postmodernità, anche se di questo termine si è abusato, comunque della ipermodernità, modernità tarda, di questa modernità malata che è quella dei nostri anni. Se vogliamo usare un termine che proviene dall’analisi economica, dall’analisi sociale, diciamo Dick è stato uno che ha annusato molto bene ai suoi tempi quello che oggi noi chiamiamo universo postfordista, che ovviamente ai tempi suoi non era ancora ampiamente dispiegato ma che negli Stati Uniti degli anni ’70 già era abbastanza visibile o perlomeno visibile a chi avesse uno sguardo così presbite, lungo come aveva appunto Dick. Però da un certo altro punto di vista possiamo dire che Dick era un postmoderno, uno che ci dice guarda che il mondo non è unico, ci sono vari mondi, si può passare da un universo parallelo all’altro, da un mondo possibile all’altro, che è quello che succede in gran parte dei suoi romanzi, cominciando da alcuni  romanzi degli anni ’50 in cui lui aveva posto questo problema come in Tempo fuori luogo, o come La città sostituita  per finire invece negli anni’60 in cui il tema scoppia, da L’uomo dell’alto castello a Le tre stimmate di Palmer Eldritch a Ubik in cui questo slittamento da un mondo all’altro in cui i protagonisti sperimentano vari mondi senza mai essere in grado di dire quale è il mondo, diciamo reale, e questo tipo di cosa appare obbiettivamente come un tratto, come una visione del mondo tipicamente postmoderna. (…) Nei suoi romanzi Dick appositamente ci lascia senza strumenti, non ci da mai alcun indizio. C’è una situazione di indicibilità analoga a molti (lo dico in termini molto superficiali) dei problemi affrontati dai logici matematici nel corso degli anni ’20 e ’30 e la loro scoperta che esistevano alcuni problemi formalmente indicibili. Come tutti sapete, Kurt Godel su questa questione delle proposizioni formalmente indicibili  ha scritto un saggio1 nel ’31 o ‘32  che ha cambiato tutto il modo di vedere i fondamenti della matematica prima di allora. Dick non ha letto Godel, però da un certo punto di vista noi ci troviamo di fronte a un vacillare del concetto stesso di realtà, della stabilità del reale. Però da un certo punto in poi della sua vita, Dick ha cominciato a pensare di aver trovato una risposta. Ci sono state le famose esperienze mistiche (del febbraio marzo del ’74) in cui lui venne visitato da questa misteriosa entità aliena e lui rifletté per un sacco di tempo su questa cosa e scrisse quella monumentale opera inedita, che sono le ottomila pagine della esegesi; nella quale a un certo punto si convince di aver strappato in qualche maniera il ‘velo di maja’ e di aver scoperto che noi viviamo in una sorta di continuo presente. In pratica viviamo tutti ancora nel 70 dopo Cristo e che tutta la storia del mondo da quella data agli anni 1970 in cui lui scriveva queste cose è un’orrenda finzione, è una maschera ecc. Tutti gli ultimi anni della vita di Dick sono caratterizzati da questa cosa. Io sono contrario a chiamarla svolta mistica perché io cito sempre a questo proposito una bellissima pagina dell’esegesi, che Sutin cita distesamente, e a ragione, nella sua biografia di Dick dal titolo Divine invasioni2, in cui Dick discute con Dio (scritta nelle ultime settimane prima della sua morte). E c’è un bellissimo duello con Dio, un duello dialettico (che ricorda molto i filosofi medioevali) nella quale Dick dubita e dice: non so se tu ci sei davvero. Non so se tu sei davvero la causa delle cose che mi sono successe, io dubito. E Dio dice: fai bene, dubita, prova, dai una certa spiegazione, vedrai che a un certo punto troverai un assurdo, troverai una catena infinita, troverai un regresso all’infinito. Cioè una delle figure cattive del ragionamento tipiche della logica aristotelica e poi della logica scolastica. E Dick fa questa cosa e dice allora infinito; come lui trova quel regresso all’infinito Dio gli dice: ecco l’infinito, io sono l’infinito, vai avanti fai un’altra ipotesi e lui fa questa ipotesi. E in questo c’è questa cosa in cui si vede che Dick non ha mai abbandonato una fiducia nella ragione, pur con tutti i suoi fallimenti. Pur con tutti i limiti che lui stesso riconosce. Ci sono delle cose che non si possono fare. Non ci possiamo cavare dalla palude come il barone di Munchausen tirandoci per il codino. Abbiamo bisogno di un fondamento che vada da qualche altra parte. E questa cosa è obbiettivamente moderna, non ha nulla del gioco, a volte un po’ cinico, anche se molto interessante, con il quale i narratori postmoderni giocano con l’idea di realtà. Se avessi avuto più tempo vi avrei parlato anche di un analoga ambiguità che ha Dick nei confronti della figura dell’androide. La figura dell’androide è una delle figure centrali dei suoi romanzi, è uno dei costituenti di questo mondo artificiale; anche lì noi leggiamo tante cose da cui appare che Dick considera e anche narrativamente utilizza la figura dell’androide come polo negativo nei confronti dell’uomo, come ciò che di inautentico c’è nell’uomo, come ciò che di meccanico… nel 


suo libro Concato3 ha giustamente fatto un ponte tra alcune intuizioni, alcune figure di Rilke e anche di Baudelaire, di Benjamin, su questa figura della marionetta, dell’angelo, e queste cose in parte tornano in Dick, però se voi pensate a come la sceneggiatura di Blade Runner ha cambiato le cose, ha alterato il modo in cui sono dipinti gli androidi nel romanzo, dal simbolo del male ne ha fatto invece una sorta di eroi romantici o decadenti, con una grande coscienza della limitatezza della vita, ecc. ebbene tutto questo non è senza fondamento in Dick, ci sono molti passaggi in altre opere in cui a un certo punto si interroga sulla progressiva diminuzione dello scarto tra l’animato e l’inanimato. E’ uscito sette, otto anni fa un libro di Kevin Kelly, redattore capo della famosa rivista Wired, che si intitola Out of control4 e la cui tesi centrale è che c’è sempre meno differenza tra quello che lui chiama l’inanimato e il prodotto, cioè i due mondi del biologico e dell’artificiale si avvicinano perché l’artificiale da un lato si biologizza sempre più, cioè assume e simula modi, processi e caratteristiche del mondo della natura, della biologia e da un lato il biologico si artificializza  sempre di più, cioè, per semplificare, non c’è più il grano che cresce spontaneamente ma ci sono delle tecnologie che lo fanno crescere. Io mi sono divertito ad andare a cercare i prodromi di questa tesi, ci sono già ad esempio in certi libri di Lewis Mumford degli anni ’30, Tecnica e cultura5, che Kevin Kelly non cita mai, ma ci sono anche in Dick, che non aveva letto Mumford, credo che si possa evincere dalle sue cose, ma voi sapete che le idee vanno per l’aria, circolano. Quindi allora anche lì Dick si mostra fortemente ma fecondamente ambiguo, anche su questo tema dell’artificiale nell’uomo, collegato con l’artificiale nel mondo, quindi c’è sempre un’oscillazione continua in Dick, c’è la ricerca, l’unico filo rosso che possiamo trovare è che lui aveva una grande passione e che sentiva questi temi come i temi della sua vita oltre che della sua opera e da questo punto di vista direi che possiamo metterlo, anche se per tante altre cose non centri nulla, ma insomma è un altro degli eredi delle avanguardie storiche artistiche dei primi del Novecento che vollero ribellarsi contro la distanza, la separazione, la forbice tra arte e vita e in qualche maniera Dick nella sua California degli anni ’50, ’60, ’70 provò a fare anche questo per suo conto. Grazie.  
1  Über formal unentscheidbare Sätze der Principia Mathematica und verwandter Systeme, «Monatshefte für Mathematik und Physik», vol. 38, 1931 
2 Lawrence Sutin, Divine invasioni, Roma, Fanucci 2001, pag. 300.
3 Giorgio Concato correlatore nella conferenza con Antonio Caronia, autore del libro  L’angelo e la marionetta, Bergamo, Moretti & Vitali 2001.
4 Out of control: The New Biology of Machines, Social Systems and the Economic World (Perseus Books,   1995) 

5 Lewis Mumford, Thecnics and Civilization, 1934 

giovedì 20 novembre 2014

Lotteria spaziale



Romanzo d’esordio, dopo una nutrita serie di racconti, presenta già alcuni dei temi importanti del Dick più maturo. Innanzitutto il problema del potere. La descrizione del meccanismo che sta alla base del sistema di potere è qui solo in apparenza accostabile ad altre opere di carattere fantascientifico come The Sevent Victim di Sheckley o in termini più generali al carattere distopico delle opere di Orwell e di Huxley. In realtà Le caratteristiche del potere qui rappresentato hanno un solo scopo, delimitare l’idea del potere entro una dinamica inevitabilmente diseguale. Nella macchinosità di un sistema che prevede la salita al massimo grado di comando attraverso un espediente puramente casuale, l’estrazione per sorteggio, controbilanciato dalla possibilità di compiere un regicidio legalizzato, ciò che emerge nella sua plateale evidenza è l’inevitabile squilibrio che fa pendere i rapporti di forza dalla parte di chi già possedeva un suo potere precostituito. L’ex Quizmaster Verrick  (ricco e potente industriale) scalzato dal cieco gioco del Minimax, ha tutte le chances per eliminare facilmente il nuovo vincitore, un qualunque signor x scelto dal caso in una folla di anonimi. La contropossibilità che Dick mette in gioco in questa situazione, altrimenti scontata in partenza, è determinata dal fattore imbroglio. Il nuovo Quizmaster, Cartwright, ha determinato la sua elezione modificando in anticipo i risultati del gioco. L’appartenenza a una setta politico religiosa, che ha un obiettivo preciso, rende il risultato della partita non più scontato e, infatti, dopo una serie di colpi di scena si arriva a un ribaltamento della situazione e a un risultato inedito. Ma la cosa straordinaria di questo romanzo, dalla traballante struttura fantascientifica, è l’intreccio che mostra tra il sistema del potere politico ai vertici, con la sua nuda e cruda dinamica conflittuale di guerra aperta, e il sistema di assoggettamento dei membri di questa società. Un assoggettamento basato su un sistema classificatorio che porta a una dinamica incessante, tra i due poli opposti, di inclusione e esclusione. Per trovarsi sulla sponda degli inclusi occorre assoggettarsi al nuovo principio di fedeltà. Principio che comporta un vero e proprio giuramento. Non più dipendenti, persone che stipulano un contratto con regole prestabilite, ma un atto di fedeltà, di appartenenza, un appartenere a qualcuno per poter essere qualcuno. E’ un’analisi del potere nei suoi diversi livelli, ancora grezza ma già predisposta ad evidenziare e a intrecciare la lotta per il potere con l’assoggettamento ad esso. Al vertice, in lotta tra loro, Verrick e Cartwright, alla base il tipico personaggio dickiano, il debole, indeciso, perennemente scontento Ted Benteley. Benteley è l’eroe, il capofila, qui già ben strutturato, di tutta quella serie di protagonisti dei successivi romanzi dickiani. E’ eroe a pieno titolo in quanto portando a termine l’azione a lui affidata porterà a compimento, se non un qualche apprezzabile cambiamento del mondo, quantomeno un cambiamento di se stesso. Un cambiamento che possa renderlo capace di accogliere il discorso di verità del profeta Preston, saggio o ciarlatano che sia: “Non è un istinto brutale che ci rende inquieti e insoddisfatti. Io vi dirò di cosa si tratta: è l’obiettivo più importante che l’uomo può darsi… la necessità di crescere e migliorare… di scoprire nuove cose… di espandersi. Di diffondersi, raggiungere nuovi territori, compiere nuove esperienze, comprendere e vivere l’evoluzione. Di sfuggire alla routine e alla noia, di distruggere la cieca monotonia e spingersi in avanti. Di tenersi in movimento…” Un discorso che chiudendo il romanzo, impegna al cambiamento, alla necessità del movimento come vita, con i rischi e le incertezze ad esso connesse. Tutto il contrario di quell’idea di fuga “per tornare a uno stato di natura di sano umanesimo” un “ritorno ai valori fondamentali della vita umana, ricostruiti con fatica dai pionieri alla ricerca di un mondo nuovo, non contaminato al di fuori del sistema solare” come paventa Carlo Bordoni nella postfazione dell’edizione Fanucci. Certo, il profeta Preston è anche lui chiaramente il capostipite di tutta una serie di profeti impostori, ciarlatani, presenti nei successivi romanzi, ma proprio nella sua falsità palese mette in luce la mancanza di quella pretesa mistica, tante volte attribuita al “Dick più maturo, in cui trapela l’ansia profonda per l’avvento di un nuovo Messia, in grado di restituire la salvezza e la fede agli abitanti di un secolo di orrori”1.

La figura di questi santi ciarlatani, qui appena accennata, sarà in seguito molto complessa ma comunque sempre scevra da qualsivoglia pretesa ricerca trascendentale. Discorsi che pur prematuri rispetto a un personaggio ancora molto stilizzato come la figura di questa specie di mago di Oz di un altrettanto vago mondo di Shangri La, sono utili a distanziarci da un’interpretazione in chiave parodistica. Maghi e ciarlatani non sono un obiettivo parodico, così come non lo sono gli accenni a pratiche magiche, prodigi o altri elementi di pseudo derivazione fantasy. E’ privo di fondamento una sorta di satira ante litteram della società americana che si predispone alla moda New Age degli anni ’70 come accenna Carlo Pagetti nell’introduzione2. Il pensiero magico per Dick non è né un imbroglio da smontare né una realtà altra da svelare ma una diversa forma di pensiero appartenente a un passato mai del tutto cancellato coabitante nonostante tutto con il pensiero razionale dominante. Inoltre gli accadimenti, le manifestazioni prodigiose della natura in concomitanza con il sorteggio dell’urna, gli amuleti, e questo continuo insistere sull’avere fortuna, che si ritroverà anche nei successivi romanzi allude inevitabilmente all’antica Roma, vero e proprio mondo controfigurale di tutti i mondi dickiani che sfocerà  in quell’idea del tempo fermo alla Roma del 70 d.C.3.  Un ruolo a se stante nell’economia del romanzo è l’androide, Keith Pellig  il Golem assassino che troverà un’ulteriore sviluppo in Follia per sette clan e che poi, più che abbandonato “perché poco adatto a veicolare le problematiche che gli interessano” (a Dick) come suggerisce Antonio Caronia,4 trova un suo ideale ribaltamento nell’invenzione dell’alter abito di Un oscuro scrutare. Il corpo artificiale plurinvaso da una molteplicità di identità diverse trova la sua trasfigurazione in un abito artificiale che modifica in continuazione la fisionomia di un’unica identità.

 

1 Carlo Bordoni, Postfazione, Lotteria dello spazio, Roma, Fanucci

2 Carlo Pagetti, Introduzione, Lotteria dello spazio, Roma Fanucci

3 “L’affermazione più impegnativa di Philip K. Dick sulla storia la troviamo nell’Exegesis, poi ripetuta in >Radio libera Albemuth e in >VALIS (oltre che in un passaggio piuttosto criptico del discorso di Metz, Dick 1977): i millenovecento anni trascorsi dalla caduta del tempio di Gerusalemme sono pura illusione e noi viviamo ancora, senza saperlo, nel 70 d.C.” A. Caronia, (voce): storia in A. Caronia D. Gallo, Philip K. Dick la macchina della paranoia, Milano, Agenzia X, 206, pag. 228

4 A. Caronia, (voce): androidi, ibidem pag. 94

lunedì 17 novembre 2014

P. K. Dick: Preghiera



Nel mondo senza uscite di LABIRINTO DI MORTE (1968) è lecito dubitare della semplice preghiera “che non sia sorretta dall’elettricità”, “perché una preghiera abbia effetto, deve essere trasmessa elettronicamente tramite il collegamento radio ai mondi divini.” Così come in uno dei primi romanzi OCCHIO NEL CIELO (1955) più che oggetto di dubbio la preghiera è un’usanza arcaica , superata dalla modernità “E’ nostro compito, e che compito, garantire la struttura elettronica fondamentale della comunicazione. Abbiamo dei tecnici… come te. Abbiamo degli eccellenti consulenti semantici, e psicologi della ricerca molto preparati. Tutti insieme dobbiamo affrontare questo problema basilare dell’esistenza umana: mantenere in piena efficienza il collegamento fra Terra e Cielo. (…) Anche se certamente tu lo sai già, te lo ripeterò. Nei tempi antichi, prima che la comunicazione venisse sottoposta a una rigorosa analisi scientifica, esisteva una gran quantità di sistemi più o meno empirici. Sacrifici umani, tentativi di attirare l’attenzione di Dio stuzzicandogli il naso e il palato. Molto rozzo e molto antiscientifico, come la preghiera a voce alta e l’esecuzione di inni, tutti sistemi ancora praticati dalle classi meno evolute. Bene lasciamo che intonino i loro inni e recitino le loro preghiere.” Ma il bisogno di pregare nel rapporto con ciò che non si conosce è inestinguibile; di fronte all’androide di ABRAMO LINCOLN ANDROIDE (1962) i suoi costruttori rimangono sbalorditi nell’osservare la reazione della gente, “c’era quasi da credere che avessimo creato Dio, o qualcosa del genere; stavano pregando sul serio, e un paio di vecchiette si sono fatte il segno della croce.” E infine se dovessimo rimanere stupiti anche noi come Lars Powderdry di MR. LARS SOGNATORE D’ARMI (1964) al rifiuto dell’amante Maren Vena di andare a cena con lui perché doveva andare a pregare “Voglio andare in chiesa ad accendere una candela e a pregare. Cosa c’è di strano?” Può venirci in aiuto l’orante del racconto di Kafka, ‘Descrizione di una battaglia’, che ci spiega come “Si temono parecchie cose: che la materialità possa scomparire, che gli uomini siano davvero come appaiono nel crepuscolo, che non sia lecito camminare senza bastone, che forse sarebbe bene andare in chiesa e pregare gridando per essere guardati e diventar concreti.” In fondo, a ben guardare, le stesse preoccupazioni di Philip K. Dick.

sabato 15 novembre 2014

Antonello Silverini: Ma gli androidi sognano le pecore elettriche?


Inserire in un titolo di fantascienza insieme alla parola androidi quello di pecore, anche se elettriche, è già una scelta ardita, comunque bizzarra, illustrarne poi la copertina con l’immagine di una pecora in primo piano è decisamente un atto coraggioso. La pecora è un’animale mansueto e richiama la rassegnazione e la sottomissione, il gregge si aggrega per ubbidire. Eppure Antonello Silverini ci sbatte in prima di copertina un muso di pecora affatto inquietante, e quando si dispiega per intero la copertina il resto del corpo insieme a quel fondo di materia sanguigna non sortisce certo un effetto migliore. E non sono tanto gli elementi estranei che Silverini apporta, comunque con parsimonia, alla figura dell’animale, due o tre rotelline o minuscoli ingranaggi, un paio di biglietti con le parole ‘del falso’ e ‘power’, a darci un effetto di straniamento, se non proprio di vero conturbamento; è l’animale stesso a comunicarcelo. La sua posizione, laterale con il muso invece rivolto frontalmente verso noi e le due orecchie tese, orizzontalmente. Ecco, queste orecchie e la posizione dell’animale mi hanno ricordato l’unico altro esempio, che io conosca nella storia dell’arte, altrettanto inquietante. Un’opera di un pittore americano vivente James Wyeth, ‘Portrait of Lady’ (visibile qui). James Wyeth è figlio di un altro pittore importante Andrew Wyeth, citato nel romanzo di Dick Deus Irae, scritto in collaborazione con Roger Zelazny, e nipote del grande illustratore N. C. Wyeth, insomma una grande casata dell’immaginario visivo americano. Quest’immagine di Silverini testimonia di quanto sia importante e decisiva la capacità di rubare nel fare artistico e creativo. Il furto è l’arte più bella che ci sia quando si sa come e perché rubare, e Silverini, va detto, sembra proprio saperlo. Anche quei bigliettini scritti, quelle specie di pizzini hanno una valenza strategica. E’ sempre rischioso inserire in una rappresentazione visiva delle informazioni che appartengono al linguaggio scritto, quasi a voler sopperire a una mancanza del visivo; ma in questo caso la scritta ‘del falso’ sta come un marchio, un certificato di garanzia: si certifica l’autenticità del falso (un tipico esempio in Dick è ben rappresentato nel romanzo La penultima verità con i falsi autentici). Più in basso un secondo pizzino cita la parola inglese power, il potere, il potere del falso. Ma ecco che power significa anche ‘a motore’ e l’interruttore raffigurato vicino ad esso ne sancisce l’avviamento. Qui si certifica l’autenticità di questo falso a motore, la pecora elettrica appunto, oggetto del desiderio di ogni autentico falso essere umano, l’androide.   


giovedì 13 novembre 2014

P. K. Dick: Autismo


Manfred Steiner è un bambino autistico che si trova nel campo per bambini anormali Ben Gurion nella colonia Nuova Israele su Marte.  C’è il rischio della chiusura del campo con la conseguente soppressione dei bambini. E’ questo il fattore scatenante nel romanzo NOI MARZIANI (1962) che causerà uno dei pochi suicidi riusciti (il padre di Manfred) dei tantissimi tentati o solo pensati nell’intera opera dickiana; oltre alla morte di uno dei più importanti tra i personaggi pubblici di Marte e tutta una serie di piccole e grandi tragedie personali  concatenate tra loro. Eppure l’autismo è proprio il massimo dell’isolamento di un individuo nei confronti del mondo degli altri. “Il vero autismo, si era detto Jack, è in ultima analisi uno stato di indifferenza per le iniziative della collettività; è un’esistenza privata, portata avanti come se l’individuo fosse il creatore di tutti i valori invece che il semplice depositario dei valori ricevuti.”  Ma la visione di Manfred non è rivolta solo al suo interno, non è una fuga dalla realtà, è piuttosto una restrizione della visione della realtà, “e la parte che vede è una parte terribile: la realtà nel suo aspetto più ripugnante.”  Putrio è l’unica parola che Manfred usa  per commentare i suoi disegni di palazzi cadenti e in rovina. La putritudine che troverà nel Kipple di MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? (1966) la sua più precisa e agghiacciante descrizione, “il disordine finale di tutte le forme, l’assenza totale che avrebbe trionfato.”  E’ questo che vede Manfred in una sorta di terribile preveggenza. “La sua sofferenza è come la nostra, come quella di ogni altra persona. Ma in lui è peggiore, poiché lui ha la precognizione, che noi non abbiamo. E’ una conoscenza terribile, per chi la possiede.”

martedì 11 novembre 2014

P. K. Dick: Resuscitare


In L’ANDROIDE ABRAMO LINCOLN (1962) il resuscitare  è l’inquietante visione di chi si immagina tornare a vivere dopo la morte nei panni di un simulacro fatto a nostra immagine e somiglianza che ci obbligherà a ritornare nel dolore di una rinascita in cui “c’investirà come turbine, ancora una volta la realtà”. Resuscitare diventa cosa comune in IN SENSO INVERSO (1965) in cui il tempo ha invertito la propria direzione facendo scorrere i processi vitali al contrario e riportando i morti alla vita. Viene così ad esaudirsi nel mondano “il compimento di quanto afferma S. Paolo nella Bibbia, quando dice: O tomba, dov’è la tua vittoria?.” Ma nel mondo governato dalle regole che conosciamo, la capacità di resuscitare i morti rimane legata ad alcuni individui particolari, come Wibur Mercer, creatore della religione del mercerismo, che da giovane verrà punito dalla legge proprio per l’esercizio della sua “facoltà di invertire il tempo, per mezzo della quale i morti ritornano in vita” MA GLI ANDROIDI SOGNANO LE PECORE ELETTRICHE? (1966). Una facoltà rischiosa come viene ancora ricordato in VALIS (1978) “Asclepio venne prima di Cristo e resuscitò un uomo dalla morte; per questo atto, Zeus ordinò a un ciclope di ucciderlo con un fulmine. Anche Cristo venne ucciso per quello che aveva fatto: resuscitare un uomo dalla morte. Elia riportò in vita un fanciullo e sparì poco dopo in un turbine di vento.”

domenica 9 novembre 2014

Karel Thole: Redenzione immorale


Chiunque si interroghi sull’utilità pratica dell’illustrazione di una copertina di un libro tende a minimizzare il suo ruolo nella scalata delle classifiche delle vendite, tutti tranne ovviamente chi fa di professione l’illustratore. Possiamo considerare la sua opinione viziata da un interesse personale. Certo, ma a ben guardare qualche ragione nel rivendicare un ruolo, certamente non decisivo ma comunque importante nel successo o meno di questo tipo di prodotto editoriale che è il libro cartaceo, l’illustratore ce l’ha. Di fatto è innegabile che se la decisione finale sull’acquisto di un libro è determinata dal suo contenuto e non certo dalla sua veste grafica, fatte salve eccezioni particolari, è altresì vero che la copertina accattivante è un richiamo forte e la mano del possibile acquirente è portata a prenderla per darle un’ulteriore occhiata da vicino. La nostra curiosità, la nostra attenzione è stata condizionata e questo è già un primo passo verso il possibile acquisto. E comunque, tenendo conto della varietà di libri in una vetrina o su uno scaffale, non possiamo non considerare il fatto che il nostro interesse è stato dirottato verso un prodotto piuttosto che un altro. Ma se questo vale per il mercato del libro che senso ha l’immagine di copertina di una rivista, un prodotto seriale da edicola, dove il lettore è meno libero di guardare, curiosare, toccare. Qui forse gioca un altro fattore importante, l’istinto al collezionismo. La rivista di fantascienza Urania ha acquistato nel tempo una doppia valenza attrattiva. Al di là degli autori o del tipo di genere nel genere (fantasy, guerre interstellari, filone apocalittico ecc.) possedere Urania voleva dire collezionare anche le sue copertine, metterle in fila nella nostra memoria lasciandoci coinvolgere dal loro impatto emotivo, immediato, superficiale. Una storia parallela per immagini. E Karel Thole, di cui ricorre il centenario della nascita proprio quest’anno, è stato indubbiamente il re di queste immagini in sequenza. Senza nulla togliere al suo più illustre predecessore Caesar1 che, pur nella sua affascinante immaginazione, rimaneva legato a un discorso singolo, alla singola copertina, meno predisposta a una lettura in sequenza che porta da una copertina all’altra in una progressione di trovate, ridondanze, richiami che invece sono tipici appunto di Thole. Senza tradire l’aderenza all’essenza del testo2 Karel Thole caratterizza le sue copertine con un immaginario dalle forti valenze satiriche, grottesche, umoristiche riuscendo a far coincidere la sua personale irriverente visione del mondo con quella potenzialmente altrettanto irriverente che a ben vedere permea tutta la letteratura di quel genere chiamato fantascienza. Per arrivare a Philip K. Dick e alle immagini a lui legate, prendiamo ad esempio quella legata a REDENZIONE IMMORALE 3, Il fatto saliente, la profanazione della statua del maggiore Streiter, è diviso in uno sfondo semioscuro in cui troneggia la statua integra e in un piccolo primo piano della statua decapitata e ricoperta di vernice rossa all’interno di uno schermo televisivo. Ma quello che risalta, che occupa gran parte del tondo di copertina è la raffigurazione della Remor stessa, cioè quella “Redenzione Morale che da quasi centoquarant’anni condiziona con meticolosa pignoleria d’istitutore la vita di ogni singolo cittadino”4 e che qui si presenta con la faccia gaudente di un anziano signore, tipico satiro dei giardinetti pubblici, che aprendo il suo soprabito nel mostrare la sua nudità  svela il volto immorale dello strumento principe dell’apparato, la televisione. E’ una coerente interpretazione visiva del romanzo e al contempo una graffiante e lucida sintesi della società dello spettacolo in cui noi tutti siamo immersi e che Dick, più di ogni altro, è stato capace di raccontarci. E l’illustratore volante Karel Thole ha voluto e saputo metterci del suo.

1 Curt Caesar ha realizzato la gran parte delle copertine di Urania dalla nascita della rivista nel 1952 al 1958.
2 Karel Thole per realizzare le copertine di Urania si basava su un semplice riassunto di una decina di righe. Cfr. “Intervista a Karel Thole” in Un’ambigua utopia n.2 aprile 1978 pag. 18, ora in Un’ambigua utopia. Fantascienza, ribellione e radicalità negli anni ’70 a cura di A. Caronia e G. Spagnul, vol. I, Milano Mimesis edizioni, 2009.
3 Urania n. 1013 del 5 gennaio 1986
4 dalla quarta di copertina


Tutte le copertine di Urania sono visibili all’indirizzo: http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero40/approdi/q40_cop_urania01.html

giovedì 6 novembre 2014

Antonello Silverini: Guaritore galattico


Un essere sonnacchioso, ma allertato, tentacolare, in un mare paludoso, da  palude definitiva, color marrone, terra bruciata, e una cattedrale avvolta tra le sue spire, una chiesa gotica con un rosone in facciata. Il suo viso  affonda la bocca e parte del naso nella fanghiglia ma un bagliore risplende nella guancia sinistra, simile alla luce spettrale della cattedrale. Se fossimo d’accordo con  quanto dice l’illustratore delle copertine dickiane  di Fanucci Antonello Silverini: “Credo che le illustrazioni rimangano, per tutti noi, il primo coinvolgimento con il libro, il primo sguardo nella storia d’amore con quello che leggeremo” sarebbe allora lecito chiederci se questo coinvolgimento, se questo approccio visivo con il testo scritto è stato raggiunto, ha avuto un viatico ben augurale con una storia che speriamo sia storia d’amore, o quanto meno di un feeling intenso che giustifichi il tempo, sacrificato alla vita, della lettura. Ma è proprio così? E’ l’immagine che presenta un’opera letteraria la sua rappresentazione, quella chiave visiva che introduce all’opera, la illustra, illustrazione appunto? Nel caso di Silverini penso di no e questa in particolare me lo conferma. Siamo lontani dal rappresentare il romanzo, quel viso potrebbe essere quello di un hidalgo, con un cappello a larghe falde con in cima uno spillone a forma di cattedrale e un passamontagna ad avvolgere gran parte della faccia. Siamo lontani dalle puntuali illustrazioni di un Thole, a cui bastavano le quattro righe di riassunto per sintetizzare il senso del romanzo. Ma sì Silverini non sa illustrare, non sa rappresentare, ma forse sa autorappresentarsi. Forse sa fare quella cosa che raramente riesce a un illustratore, quello cioè di lasciarsi coinvolgere, di partecipare alla storia, di essere dentro quella storia. E pertanto di rinarrarla a modo suo, da protagonista. Antonello Silverini diventa Joe Fernwright, si sente hidalgo nell’avventura col Glimmung. In quella carta marrone sgualcita, da pacco, si avvolge per affrontare la perigliosa missione della cattedrale da far riemergere. Una riemersione da un indistinto primordiale, anche se ormai un po’ fuorimoda, inconscio collettivo. Senza nulla togliere a tanta buona illustrazione, qui siamo in un’altra cosa; non è l’arte, non c’entra, siamo in qualcosa di diverso. E’ la capacità di un’autonomia visiva che non rinuncia, che non si stacca comunque dall’oggetto che la influenza. In un qualche modo si crea un doppio, un doppio sì dell’opera letteraria che l’ha generato, ma un doppio che può essere letto a sua volta in modo autonomo e creativo. Si è generata un’altra opera.

mercoledì 5 novembre 2014

P. K. Dick: Amuleto


Com’è possibile andare avanti con un solo portafortuna, viene chiesto a Ted Bentley, il protagonista del romanzo LOTTERIA SPAZIALE (1953-4). Solo chi è nato già fortunato, come il Quizmaster Verrick, non ne ha bisogno, anzi è già lui un portafortuna e la gente lo tocca per assorbirne un po’. Ma in effetti gli amuleti servono a poco, il robot che in GUARITORE GALATTICO (1967) ne da uno al protagonista Joe Fernwright, non può non ammettere che comunque non servirà a proteggerlo dai pericoli. Il suo valore è puramente simbolico. Così come la “strega dell’acqua”, l’amuleto degli indigeni marziani Bleekman in NOI MARZIANI (1962) forse ha esaurito del tutto l’antica forza. Gli unici ad avere tutta l’efficacia che promettono, sono quelli presenti in L’OCCHIO NEL CIELO (1955), un mondo in cui “tutte le superstizioni e le credenze religiose hanno riscontro nella realtà.”  Ma è solo uno dei mondi dei vari protagonisti di questo romanzo. Mondi personali, privati, che gli “altri” condividono in modo obbligato, coatto.

martedì 4 novembre 2014

P. K. Dick: Amore


“L’amore non è solo volere un’altra persona allo stesso modo in cui vuoi impossessarti di un oggetto che vedi in vetrina. Quello è solo desiderio.” “Quando ami, smetti di vivere per te stesso. Vivi per un’altra persona.”  L’amore “supera l’istinto. L’istinto ci spinge a lottare per la sopravvivenza.”  Ma “alla fine l’istinto di sopravvivenza è perdente”  perché “non riuscirai mai a fare quello che è nelle intenzioni dell’istinto di sopravvivenza, per cui tutti i tuoi tentativi falliranno, soccomberai alla morte, e sarà finita lì. Ma se ami, puoi svanire e osservare (…) la vita di quelli che ami che continua.”  L’amore non ha come conclusione la felicità ma la sofferenza. “Il completamento del ciclo dell’amore: amare, perdere, soffrire, lasciare e lasciarsi, per amare di nuovo. Soffrire è la consapevolezza che dovrai essere solo, e al di la di questo non c’è nulla, perché essere solo è il destino ultimo, definitivo di ogni creatura vivente. Ecco cos’è la morte: la grande solitudine.”  Ma la sofferenza che viene dall’amore è anche quella forza che ti spinge a uscire “dal tuo piccolo e limitato guscio. E non puoi soffrire se prima non hai amato. La sofferenza è l’esito finale dell’amore, perché è amore perduto.”  La sentenza definitiva rimane la morte e la sua solitudine, ma solo l’amore è vita perché è nel riconoscimento della sofferenza che ci si rende conto di perdere qualcosa, quella cosa che si contrappone alla morte ma che contemporaneamente non nega la sua inevitabilità. SCORRETE LACRIME, DISSE IL POLIZIOTTO (1970). L’amore scorre, come le lacrime, in tutta l’opera dickiana e ne è la chiave di volta. Si confonde con la “caritas” e l’”empatia”, avendo a che fare con la “fusione” e anche , come abbiamo già visto, con la “sofferenza”. All’importanza decisiva dell’amore si accompagna il senso di estrema vaghezza che accompagna qua e là l’uso di questa parola: “l’amore è alla base delle nostre vite” MR. LARS, SOGNATORE D’ARMI (1964). Ben altro tono si avverte quando si parla del principio cristiano della caritas o dell’approccio psicologico dell’empatia. Ma allora perché correre il rischio dell’astrattezza, se non addirittura della banalizzazione, quando si ha la possibilità di ricorrere all’empatia e alla caritas che tra l’altro sono visti l’uno come la modernizzazione dell’altro. Perché non usare solo questi al posto della parola amore, che sembra dire tutto e niente allo stesso tempo? Perché la parola amore è indispensabile proprio in relazione alle altre due, comprendendole entrambe senza esaurirsi in esse. L’amore condivide con la caritas e l’empatia la fuoriuscita dal puro dato istintuale  ma non si ferma al dato storico culturale di queste. E’ prefigurazione di qualcosa che è in parte ancora da venire. E che forse non potrà mai venire, rimanendo come prefigurazione utopica, segnale di un orizzonte che indica un percorso piuttosto che una meta. L’amore per l’uomo contemporaneo, che vive  fuori dal terreno consacrato e rassicurante delle fedi sia religiose che laiche, è quella forza che può  fronteggiare la consapevolezza della tremenda verità della vita e di trasformare il nichilismo di un mondo senza senso in uno in cui la responsabilità di creare senso sia a carico dell’umanità tutta. La  ridefinizione di questa forza, che meglio potremmo chiamare “possibilità”, è il compito che spetta ai vari protagonisti, tutti rigorosamente maschili, in quanto le donne sembrano incarnare nel loro profondo quello spirito dell’amore che deve essere portato alla luce. L’unica eccezione proprio nell’ultimo romanzo LA TRASMIGRAZIONE DI TIMOTHY ARCHER (1981) che vede passare il testimone a una donna, Angel Archer. Una donna molto colta e raffinata, come la definisce uno psichiatra che per contro la considera dura e ispida e che “sta facendo molto male anche a se stessa”  oltre che a Bill, un giovane schizofrenico a cui lei è affezionata e che si crede la reincarnazione del vescovo Timothy Archer. “No. Tu sei un uomo che vernicia automobili e ripara alberi di trasmissione e io ti costringerò a ricordare.” Gli dice Angel. Ricordare l’umano, l’umano mortale che instabile alberga in noi, è il compito dell’amore e che sia una donna a ricordarcelo nelle ultime pagine dell’opera di Dick è uno dei suoi più bei regali d’amore che ci ha lasciato.