lunedì 24 novembre 2014

Antonio Caronia: feticcio e mondo artificiale in Philip K. Dick - I^ Parte


Quello che segue è il testo di una conferenza di Antonio Caronia su Philip K. Dick tenutasi alla libreria Utopia di Milano il 26 ottobre 2002. Non esiste uno scritto alla base della conferenza ma solo un registrato audio che non ha potuto essere rivisto dal suo autore scomparso nel gennaio dell’anno scorso. Si è preferito mantenere il più possibile l’andamento del parlato, con le tipiche digressioni di Antonio Caronia, sacrificando piuttosto alcune parti difficilmente trascrivibili se non a costo di una pesante riscrittura. Nonostante il suo andamento rapsodico, fortemente digressivo o forse proprio grazie a ciò, questo documento ci mostra una modalità di ragionamento, un moto del processo del pensiero che proprio perché preso nel suo farsi può essere utile tanto quanto un lavoro più organico e ragionato, costruito a tavolino. Sperando di fare cosa gradita a chi l’ha conosciuto e a chi lo ha solo letto, pubblichiamo questa prima parte della conferenza a cui seguirà la seconda, relativa alla successiva discussione col pubblico.                                                                                                          Sull’opera di Dick di Antonio Caronia si possono vedere oltre alla fondamentale Enciclopedia dickiana  pubblicata nel 2006 insieme a Domenico Gallo, le schede a ‘La svastica sul sole’ e ‘I simulacri’ nei “Labirinti della fantascienza” (Feltrinelli 1979, Mimesis 2012); Gli universi di Philip K. Dick (Alter settembre 1982), Philip K. Dick: Realtà e verità (Pulp n.24, marzo-aprile 2000), Philip K. Dick: Deus absconditus (Il Manifesto-Alias 16 febbraio 2002), tutti e tre rieditati in A.Caronia, ‘Universi quasi paralleli’, Roma,  CUT-UP Edizioni 2009; Inchiostro acquoso e storie confuse. Corpo e media in P. K. Dick (qui) ; Philip K. Dick un filosofo in veste di romanziere, Il Manifesto 1.3.2012. (qui)  

"Una stanza per Philip K. Dick" allestimento alla Libreria Utopia di Marisa Bello e Giuliano Spagnul

Philip K. Dick è uno scrittore complesso, complicato. Tutti gli scrittori sono complessi e complicati, certo, ma Dick è particolarmente complesso, particolarmente complicato perché da un certo punto di vista in lui possiamo facilmente trovare temi e atteggiamenti tipici della modernità classica. Intendo come modernità classica anche le sue ultime propaggini, cioè oltre a quelle dell’immaginario inaugurato dalle riflessioni di Baudelaire nella metà dell’Ottocento e poi ripresa e commentata da Benjamin negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, quelle caratterizzate da quei temi e argomenti di quella che si usa chiamare, con un termine molto brutto, lo userò forse qualche volta senza nessun impegno, postmodernità o postmoderno o, si potrebbe dire, quella forma della modernità che si è inaugurata in qualche momento (che non sappiamo bene quale sia) intorno alla seconda metà del secolo XX° in cui tutta una serie di problemi tipici della fase della modernità classica slittano, cambiano significato, vengono poste domande differenti ecc. Allora da un certo punto di vista si potrebbe dire che Dick è decisamente un autore post-moderno per una cosa, per la sua grande attenzione al tema dell’ontologia e al ruolo che lui dà alla possibilità all’interno dell’ontologia. Questo vale soprattutto per la letteratura. Tutti sapete che i grandi romanzi, non solo dell’Ottocento ma anche del Novecento, cioè quelli della tradizione modernista, diciamo Proust, Joyce, Kafka…  ma già nell’area tedesca forse la cosa non è così  semplice, cioè Musil e Kafka forse hanno anche qualche altro… ma insomma soprattutto Joyce e Proust, che sono due tra i “campioni” del romanzo modernista cioè della crisi ecc., ecco la loro narrativa è prevalentemente epistemologica, cioè decostruisce in parte il mondo e l’immagine del mondo che ci siamo fatti ponendo però degli interrogativi radicali sul mondo. La Dublino dell’Ulisse di Joyce è uno sfondo, è qualcosa su cui Leopold Bloom, Dedalus, gli altri personaggi in qualche maniera s’interrogano, che in qualche maniera percorrono. Lo scenario viene dato, quello che è importante e interessante, quello che interessa a Joyce è il modo in cui i suoi protagonisti, i suoi personaggi vedono questa città, che poi ovviamente si dilata a simbolo del mondo ecc. Ma in qualche maniera tutta la narrativa, diciamo classica della modernità è una narrativa dominata dall’epistemologia, cioè si chiede, quella narrativa, che cosa e come il soggetto, un soggetto particolarmente messo in crisi da una serie di processi, può conoscere il mondo. Nella narrativa di genere un tipico esempio di questo procedimento è il giallo, il giallo è una narrativa tipicamente epistemologica, cioè un enigma, l’enigma che si pone il giallo è chi ha compiuto questo delitto e se mai il perché. Sono tutte vere le interpretazioni che si danno sullo sfondo sociale del giallo, ma ripeto tutte queste cose rimangono sullo sfondo. L’interrogativo fondamentale del romanzo poliziesco e poi anche del noir, anche se questo poi introduce anche degli altri elementi, ma il giallo classico, quello di impronta… Poe, Conan Doyle ecc. è un tipo di narrativa che ha il problema del soggetto al centro. Che cosa fa il soggetto, come può padroneggiare la realtà. Bisogna dire che la fantascienza fin dall’inizio ha un atteggiamento abbastanza differente, cioè anche nella fantascienza più ingenua, banale dei primi anni del secolo XX°, fa sempre capolino un problema ontologico, un interrogativo anche implicito, subdolo sulla consistenza del mondo. Perché la fantascienza è nata proprio apposta non per parlare del nostro mondo ma per confrontare mondi diversi, il nostro pianeta con altri pianeti, il nostro tempo con altri tempi, il nostro spazio con altri spazi e quindi da questo lavoro, sia pure molto rozzo, in molti casi molto ingenuo di confronto esce fuori una narrativa che ha una preoccupazione di tipo prevalentemente ontologico, come ce l’ha una narrativa soprattutto americana, quei filoni di narrativa americana degli anni ’50, ’60 noti come letteratura postmoderna e che culminano in questi anni e che partono da John Barth, William Gaddis e che oggi vede tra i nomi più importanti Thomas Pincio e Don De Lillo, narratori ontologici. In loro c’è una domanda continua sulla consistenza della realtà, sullo sfaldarsi della realtà e non solo del soggetto dentro la realtà. Dick nella fantascienza è stato uno di quelli che più hanno spinto, hanno portato avanti questo interrogativo di tipo ontologico. Varie volte nei suoi scritti ha dato una chiave di lettura della sua produzione letteraria, lui ha detto molto spesso: io mi sono posto nella mia opera due domande fondamentali, che cosa è l’uomo, che cosa è la realtà. Che cosa distingue l’uomo da ciò che potrebbe sembrare uomo ma non lo è e che cosa distingue la realtà autentica da quella che potrebbe sembrare inautentica, al di sotto delle apparenze del ‘velo di maja’, per usare un termine della filosofia indiana molto cara a Dick, anche se la sua conoscenza non era poi così approfondita, era un gran lettore, però macinava spesso roba di seconda mano, non era uno che andava a leggersi i testi, parla molto di Parmenide ma non era uno che aveva studiato né i frammenti di Parmenide né i passi di Aristotele che riporta. 



D’altra parte non è che si possa pretendere questo, non lo dico per criticare Dick, ma per mettere nella giusta consistenza un’affermazione che potremmo essere  tentati di fare leggendo le sue cose, un Dick filosofo. Dick non era un filosofo nel senso classico, era principalmente un narratore, e per nostra fortuna, e tutte queste idee lui le andava arraffando qua e là nell’universo mediatico e nelle enciclopedie, di cui era grandissimo divoratore. Molti dei volumi dell’Enciclopedia Britannica che lui possedeva erano consunti e logorati dall’uso. L’Enciclopedia Britannica ha dei gran begli articoli, anche l’edizione degli anni ’60 che lui aveva, a me è capitato per una serie di circostanze fortunate di possederne una copia che non so se sia esattamente l’edizione sua, forse la sua era precedente, la mia è del ’62, e a volte mi sono effettivamente divertito ad andare a vedere alcuni articoli sulla filosofia indiana trovandovi  molte cose che Dick ha usato. E allora torniamo al punto, Dick si poneva questo problema… certamente c’è anche in Dick un interrogativo epistemico, cioè chi è l’uomo davvero, però è sempre fortemente collegato con un interrogativo ontologico, sulla natura e sulla consistenza della realtà. Allora da questo punto di vista si potrebbe, si sarebbe tentati di dire e collocare Dick sul versante del postmodernità, anche se di questo termine si è abusato, comunque della ipermodernità, modernità tarda, di questa modernità malata che è quella dei nostri anni. Se vogliamo usare un termine che proviene dall’analisi economica, dall’analisi sociale, diciamo Dick è stato uno che ha annusato molto bene ai suoi tempi quello che oggi noi chiamiamo universo postfordista, che ovviamente ai tempi suoi non era ancora ampiamente dispiegato ma che negli Stati Uniti degli anni ’70 già era abbastanza visibile o perlomeno visibile a chi avesse uno sguardo così presbite, lungo come aveva appunto Dick. Però da un certo altro punto di vista possiamo dire che Dick era un postmoderno, uno che ci dice guarda che il mondo non è unico, ci sono vari mondi, si può passare da un universo parallelo all’altro, da un mondo possibile all’altro, che è quello che succede in gran parte dei suoi romanzi, cominciando da alcuni  romanzi degli anni ’50 in cui lui aveva posto questo problema come in Tempo fuori luogo, o come La città sostituita  per finire invece negli anni’60 in cui il tema scoppia, da L’uomo dell’alto castello a Le tre stimmate di Palmer Eldritch a Ubik in cui questo slittamento da un mondo all’altro in cui i protagonisti sperimentano vari mondi senza mai essere in grado di dire quale è il mondo, diciamo reale, e questo tipo di cosa appare obbiettivamente come un tratto, come una visione del mondo tipicamente postmoderna. (…) Nei suoi romanzi Dick appositamente ci lascia senza strumenti, non ci da mai alcun indizio. C’è una situazione di indicibilità analoga a molti (lo dico in termini molto superficiali) dei problemi affrontati dai logici matematici nel corso degli anni ’20 e ’30 e la loro scoperta che esistevano alcuni problemi formalmente indicibili. Come tutti sapete, Kurt Godel su questa questione delle proposizioni formalmente indicibili  ha scritto un saggio1 nel ’31 o ‘32  che ha cambiato tutto il modo di vedere i fondamenti della matematica prima di allora. Dick non ha letto Godel, però da un certo punto di vista noi ci troviamo di fronte a un vacillare del concetto stesso di realtà, della stabilità del reale. Però da un certo punto in poi della sua vita, Dick ha cominciato a pensare di aver trovato una risposta. Ci sono state le famose esperienze mistiche (del febbraio marzo del ’74) in cui lui venne visitato da questa misteriosa entità aliena e lui rifletté per un sacco di tempo su questa cosa e scrisse quella monumentale opera inedita, che sono le ottomila pagine della esegesi; nella quale a un certo punto si convince di aver strappato in qualche maniera il ‘velo di maja’ e di aver scoperto che noi viviamo in una sorta di continuo presente. In pratica viviamo tutti ancora nel 70 dopo Cristo e che tutta la storia del mondo da quella data agli anni 1970 in cui lui scriveva queste cose è un’orrenda finzione, è una maschera ecc. Tutti gli ultimi anni della vita di Dick sono caratterizzati da questa cosa. Io sono contrario a chiamarla svolta mistica perché io cito sempre a questo proposito una bellissima pagina dell’esegesi, che Sutin cita distesamente, e a ragione, nella sua biografia di Dick dal titolo Divine invasioni2, in cui Dick discute con Dio (scritta nelle ultime settimane prima della sua morte). E c’è un bellissimo duello con Dio, un duello dialettico (che ricorda molto i filosofi medioevali) nella quale Dick dubita e dice: non so se tu ci sei davvero. Non so se tu sei davvero la causa delle cose che mi sono successe, io dubito. E Dio dice: fai bene, dubita, prova, dai una certa spiegazione, vedrai che a un certo punto troverai un assurdo, troverai una catena infinita, troverai un regresso all’infinito. Cioè una delle figure cattive del ragionamento tipiche della logica aristotelica e poi della logica scolastica. E Dick fa questa cosa e dice allora infinito; come lui trova quel regresso all’infinito Dio gli dice: ecco l’infinito, io sono l’infinito, vai avanti fai un’altra ipotesi e lui fa questa ipotesi. E in questo c’è questa cosa in cui si vede che Dick non ha mai abbandonato una fiducia nella ragione, pur con tutti i suoi fallimenti. Pur con tutti i limiti che lui stesso riconosce. Ci sono delle cose che non si possono fare. Non ci possiamo cavare dalla palude come il barone di Munchausen tirandoci per il codino. Abbiamo bisogno di un fondamento che vada da qualche altra parte. E questa cosa è obbiettivamente moderna, non ha nulla del gioco, a volte un po’ cinico, anche se molto interessante, con il quale i narratori postmoderni giocano con l’idea di realtà. Se avessi avuto più tempo vi avrei parlato anche di un analoga ambiguità che ha Dick nei confronti della figura dell’androide. La figura dell’androide è una delle figure centrali dei suoi romanzi, è uno dei costituenti di questo mondo artificiale; anche lì noi leggiamo tante cose da cui appare che Dick considera e anche narrativamente utilizza la figura dell’androide come polo negativo nei confronti dell’uomo, come ciò che di inautentico c’è nell’uomo, come ciò che di meccanico… nel 


suo libro Concato3 ha giustamente fatto un ponte tra alcune intuizioni, alcune figure di Rilke e anche di Baudelaire, di Benjamin, su questa figura della marionetta, dell’angelo, e queste cose in parte tornano in Dick, però se voi pensate a come la sceneggiatura di Blade Runner ha cambiato le cose, ha alterato il modo in cui sono dipinti gli androidi nel romanzo, dal simbolo del male ne ha fatto invece una sorta di eroi romantici o decadenti, con una grande coscienza della limitatezza della vita, ecc. ebbene tutto questo non è senza fondamento in Dick, ci sono molti passaggi in altre opere in cui a un certo punto si interroga sulla progressiva diminuzione dello scarto tra l’animato e l’inanimato. E’ uscito sette, otto anni fa un libro di Kevin Kelly, redattore capo della famosa rivista Wired, che si intitola Out of control4 e la cui tesi centrale è che c’è sempre meno differenza tra quello che lui chiama l’inanimato e il prodotto, cioè i due mondi del biologico e dell’artificiale si avvicinano perché l’artificiale da un lato si biologizza sempre più, cioè assume e simula modi, processi e caratteristiche del mondo della natura, della biologia e da un lato il biologico si artificializza  sempre di più, cioè, per semplificare, non c’è più il grano che cresce spontaneamente ma ci sono delle tecnologie che lo fanno crescere. Io mi sono divertito ad andare a cercare i prodromi di questa tesi, ci sono già ad esempio in certi libri di Lewis Mumford degli anni ’30, Tecnica e cultura5, che Kevin Kelly non cita mai, ma ci sono anche in Dick, che non aveva letto Mumford, credo che si possa evincere dalle sue cose, ma voi sapete che le idee vanno per l’aria, circolano. Quindi allora anche lì Dick si mostra fortemente ma fecondamente ambiguo, anche su questo tema dell’artificiale nell’uomo, collegato con l’artificiale nel mondo, quindi c’è sempre un’oscillazione continua in Dick, c’è la ricerca, l’unico filo rosso che possiamo trovare è che lui aveva una grande passione e che sentiva questi temi come i temi della sua vita oltre che della sua opera e da questo punto di vista direi che possiamo metterlo, anche se per tante altre cose non centri nulla, ma insomma è un altro degli eredi delle avanguardie storiche artistiche dei primi del Novecento che vollero ribellarsi contro la distanza, la separazione, la forbice tra arte e vita e in qualche maniera Dick nella sua California degli anni ’50, ’60, ’70 provò a fare anche questo per suo conto. Grazie.  
1  Über formal unentscheidbare Sätze der Principia Mathematica und verwandter Systeme, «Monatshefte für Mathematik und Physik», vol. 38, 1931 
2 Lawrence Sutin, Divine invasioni, Roma, Fanucci 2001, pag. 300.
3 Giorgio Concato correlatore nella conferenza con Antonio Caronia, autore del libro  L’angelo e la marionetta, Bergamo, Moretti & Vitali 2001.
4 Out of control: The New Biology of Machines, Social Systems and the Economic World (Perseus Books,   1995) 

5 Lewis Mumford, Thecnics and Civilization, 1934 

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